(Paolo Dorigo precisa che la AVae-m non ha alcun rapporto né con questi Medici né con Amnesty International e che la AVae-m non ha avuto alcun aiuto né disponibilità di queste associazioni in questi primi 2 anni di lavoro)
da pagina I link di Biagio - 2 - Ciò che i militari non dicono
FORME DI TORTURA
Nel rapporto medico-paziente l'incontro tra
due persone avviene a partire da un'interfaccia rappresentata dal corpo.
Del resto, generalmente, quando una persona si reca da un medico lo fa mosso da
un disagio, talvolta da una sofferenza, la cui origine egli colloca, in prima
istanza, nel proprio corpo. Anche il medico, dalla sua prospettiva, concentra il
suo interesse iniziale sul corpo del paziente, innescando quel processo che
dovrebbe condurre al corretto inquadramento diagnostico del paziente stesso.
Queste considerazioni, che sono proprie dell'esperienza quotidiana di ciascun
medico, acquistano un significato del tutto particolare quando il
"paziente" che si ha di fronte è una persona "affetta" da
una patologia antropogena che lo individua come una vittima di tortura.
In questi ultimi anni un numero crescente di vittime ha costretto a considerare
le dimensioni planetarie della più grave di tutte le violazioni dei diritti
dell'uomo: in due paesi su tre Amnesty International ha segnalato casi di
tortura. Contemporaneamente si sono moltiplicati i centri specializzati nella
riabilitazione e nella cura delle vittime di tortura che hanno acquisito
esperienze sempre più documentate ed approfondite sulla tipologia di tortura e
sulle caratteristiche delle vittime.
In questa sede esporremo alcune nostre considerazioni dedicate proprio alla
centralità del corpo, derivate dall'esperienza quasi decennale
dell'Associazione umanitaria "Medici contro la tortura", centralità
che opera in tutte le fasi della tortura: dal momento in cui viene perpetrata a
quello in cui si tenta di impostare un tentativo di riabilitazione. In
particolare, la nostra testimonianza si concentra sulla dimensione corporale
della sofferenza delle vittime sia perché chi scrive è un medico internista,
sia perché le persone che abbiamo visitato in questi anni provenivano, nella
maggior parte dei casi, da paesi in cui le torture si praticano prevalentemente
come violenze fisiche.
La tortura, così come oggi si manifesta, non ha più come scopo principale
quello di estorcere una confessione o una delazione, ma si propone
l'annientamento della personalità della vittima.
A tal fine, è ancor più necessario utilizzare il corpo come base su cui
esercitare il massimo della violenza possibile, onde rendere indelebile nel
corpo e nella psiche della vittima l'esperienza della tortura vissuta.
I metodi di tortura presuppongono spesso una notevole "raffinatezza
tecnica" da parte del torturatore e, purtroppo, la probabile presenza di un
medico durante la seduta, necessaria a stabilire il limite oltre il quale non ci
si deve inoltrare per evitare la morte del prigioniero.
È molto probabile che esistano vere e proprie scuole di addestramento
internazionali, visto che esistono analogie nelle tecniche utilizzate in paesi
geograficamente lontani fra loro. In molti casi si utilizzano metodiche che non
lasciano traccia all'esame obiettivo, il che rende estremamente difficile
provare che un paese pratichi la tortura.
Anche quando vengano utilizzate tecniche "psicologiche" di tortura, le
conseguenze sul corpo sono altrettanto devastanti.
Nel tentativo, spesso riuscito, di distruggere la persona come essere pensante
si fanno vivere alla vittima esperienze come l'isolamento incommunicado
per anni, privandola del senso del tempo, in ambienti privi di luce o, al
contrario, esponendola ad una permanente luce accecante. In alcune circostanze
vengono sollecitate volutamente nella vittima esperienze di tipo allucinatorio,
così da insinuare in lei l'idea di essere impazzita.
Si è ormai giunti a forme di tortura psicologica che devastano la personalità
dell'individuo senza che residui o lesioni possano essere dimostrati e
valutabili attraverso una visita medica o esami strumentali.
Tuttavia, anche queste sofferenze, nella maggioranza dei casi sono somatizzate
sotto forma di insonnia, incubi, allucinazioni, perdita di memoria.
È il corpo il primo messaggero della sofferenza. Infatti, nel momento in cui la
persona vittima di tortura chiede aiuto ad un medico è piuttosto raro che
lamenti in prima battuta la sua peculiare condizione psicologica.
Il disagio viene riferito con una serie di connotazioni su base organica, che
solo in parte può essere ricondotta alle sequele delle violenze di cui si è
stati vittima.
Tuttavia la violenza fisica subita può essere stata veramente importante, come
documentano i dati in nostro possesso relativi ai nostri assistiti: oltre il 30%
delle persone ha subito delle percosse molto, molto violente; il 10% circa ha
gravi lesioni fisiche permanenti, come amputazioni, fratture estremamente gravi
che li ha resi invalidi; quasi il 10% ha subito ustioni, elettricità, posizioni
naturali forzate, condizioni carcerarie degradanti e un 5% ha subito anche
violenze sessuali.
Le conseguenze fisiche della tortura, rendono, tra l'altro, la vittima di
tortura portatrice di problemi molto diversi e molto più gravi dei
"comuni" immigrati. La vittima, innanzitutto, non emigra per scelta.
In molti casi, inoltre, non è neanche più una persona sana, bensì una persona
con gravi condizionamenti fisici, che possono creare problemi nella ricerca di
lavoro: chi è stato sospeso e ha problemi alle articolazioni, difficilmente
potrà fare lavori pesanti o il piccolo venditore di strada.
Sono questi i problemi che il medico deve in prima battuta affrontare quando
incontra per la prima volta una vittima di tortura, per il quale sofferenza
fisica, psicologica e problemi quotidiani si intrecciano: "Rendi il mio
corpo efficiente, fai sparire il dolore, fammi tornare la forza, fammi dormire,
aiutami ad ottenere il permesso di soggiorno con il certificato medico per la
commissione centrale, aiutami a trovare casa ed un lavoro"; in sintesi:
"aiutami a tornare una persona normale e dammi qualche sicurezza".
Non è comune che le persone parlino delle esperienze subite e spesso sono
necessari anni prima che riescano ad aprirsi. E questo perché la tortura è una
forma di violenza che è tanto più devastante quanto più è
"incomunicabile". Questa è la caratteristica che la rende
assolutamente non confrontabile con alcuna esperienza traumatica. È una
condizione che il subconscio ben difficilmente può elaborare razionalmente, e
quindi superare.
Per tutto quanto detto il rapporto con il "paziente vittima di
tortura" è assolutamente diverso da altri, in termini di approccio alle
notizie anamnestiche, alla valutazione obiettiva, all'iter diagnostico ed
all'eventuale strategia terapeutica.
Non è difficile immaginare quali e quante difficoltà possa comportare indagare
il tipo di lesione subita; basti pensare al solo fatto di chiedere al paziente
il permesso di visitarlo; oppure quanto possa essere pesante sottoporre a visita
una donna che ha subito violenza sessuale (anche se l'indagine viene
generalmente affidata ad una donna); oppure come possa essere difficile per un
dentista intervenire sulla bocca di chi ha subìto la tortura dentaria (a
diversi nostri pazienti sono stati strappati i denti senza anestesia).
Per non parlare dell'eventualità di dover effettuare degli esami strumentali
che spesso, per le modalità tecniche di esecuzione, possono richiamare le
caratteristiche della tortura: sono noti, per esempio, casi di reazione violenta
di pazienti che erano stati torturati tramite elettro-shock nel momento in cui
dei neurologi o dei cardiologi stavano per sottoporli ad esami
elettroencefalografici o elettrocardiografici per dei controlli.
Il corpo violato, in qualche modo, si ribella alla nuova intrusione e vive come
dolorosa ed umiliante l'esperienza della visita medica che per certi aspetti
richiama troppi ricordi.
Si tenga presente che la nudità quasi permanente è una delle più comuni
condizioni descritte dalle vittime; il carnefice attraverso di essa si proponeva
il duplice scopo di umiliare e trasmettere alla vittima un messaggio
inequivocabile: "sei nelle mie mani ed il tuo destino dipenderà solo da
me".
Ecco perché chiedere ad una vittima di tortura di spogliarsi, di lasciarsi
toccare, può essere estremamente penoso anche per il medico oltre che per la
vittima.
È una sfida assistenziale nuova che mette a nudo l'inadeguatezza dell'approccio
medico convenzionale e più in generale delle attuali forme di assistenza,
modulate per i bisogni di una popolazione di immigrati con temporanee difficoltà
sociali, e non per persone invalide e molto sofferenti.
In linea di massima il paziente è sottoposto quasi sempre ad una doppia visita
medica e psicologica, che consente di mettere a punto la strategia da seguire
nel cammino di riabilitazione. Nei casi che ci troviamo ad affrontare la
collaborazione tra il medico, lo psicologo, il fisioterapista è più che mai
fondamentale, proprio perché nel torturato la percezione del disagio e del
dolore è più difficilmente riconducibile ad un'origine solo organica o solo
psicologica. Si cerca, per quanto possibile, di agire collegialmente per
stabilire la linea di condotta più corretta per ciascun individuo.
Curare una vittima di tortura significa partire dalla cura del corpo, per poi
approfondire l'intervento terapeutico fino a spingerlo verso lo scopo finale del
percorso riabilitativo: rendere reversibile il danno che il torturatore
intendeva produrre, vale a dire piegare o annientare la psiche dell'individuo,
attraverso e oltre il suo corpo.
Questo vuol dire che si parte dalla cura di ferite visibili per doversi poi
occupare anche di ferite invisibili e nascoste. Infatti, anche quando la vittima
di tortura è apparentemente tornata alla vita "normale", se non ci si
è occupati anche delle lesioni "oltre il corpo", egli conserverà una
sorta di memoria oscura delle violenze subite. Questo dolore, che a volte sembra
si annidi nei suoi nervi, nelle sue ossa, può riemergere all'improvviso e
trasformarsi in un'angoscia che può rendere penosa anche la comunicazione e la
parola. Un corretto percorso riabilitativo deve consentire alla vittima di
tortura di comprendere i meccanismi e le conseguenze del male patito,
facendosene un'idea, comunicandole, invece di subire oscuramente la loro
soggezione. A quel punto il percorso di riabilitazione, benché lungo e
difficile, si sarà messo in moto e potrà portare al ritorno alla vita di
individui dalla personalità a volte non comune, da cui la tortura li aveva
violentemente allontanati.
da Medici contro la tortura