Gene Stephens ( stephens-gene@sc.edu ) insegna criminologia al College of
Criminal Justice dell'Università del South Carolina. E membro della World
Future Society ( http://www.tmn.com/wfs/ ), una organizzazione scientifica
fondata nel 1966 che raccoglie 30.000 membri interessati allo studio degli
sviluppi tecnologici e sociali della società del futuro. E' inoltre redattore
della Rivista The Futurist, mensile diffuso dalla stessa WFS, che pubblica
articoli sugli scenari, le tendenze, le previsioni sul futuro redatti da
studiosi provenienti da ogni parte del mondo.
· Stephens,
Gene. 1996. The Future Of Policing: From A War Model To A Peace Model.
pp.77-93. In Maguire, Brendan, and Rodosh, Polly F. eds. The Past, Present, and
Future of Criminal Justice. Dix hills, NY: General Hall.
· Stephens,
Gene. 1995, Sept.-Oct. Crime in Cyberspace: The Digital Underworld. The
Futurist 29(5):24-28.
· Stephens,
Gene. 1994, July- August. The Global Crime Wave and What We Can Do About It. The
Futurist 28(4):22-28.
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Gene. 1992, November-December. Crime and the Biotech Revolution. The Futurist
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Gene. 1992, May-June. Drugs and Crime in the 21st Century: New Approaches to
Old Problems. The Futurist 26(3):19-22.
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Gene. 1991. Challenges of the 21st Century Policing. In Ogle, Dan. ed. Strategic
Planning for Police. Ottawa, Canada: Canadian Police College.
· Stephens,
Gene. 1990. Impact of Emgering Police and Corrections Technology on
Constitutional Rights, pp.109-121. In Schmalleger,
Frank. ed. Computers in Criminal Justice: Issues and
Applications. Bristol, IN: Wyndham Hall Press.
· Stephens,
Gene. 1990, July-August. High-Tech Crimefighting: The Threat to Civil
Liberties. The Futurist. 24(4):20-25.
· Stephens,
Gene. 1989, September-October. Future Justice: From Retribution to
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· Stephens,
Gene. 1989, September. 21st Century Crime Needs Proactive Policies. American
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· Stephens,
Gene. 1987. January-February. Crime and Punishment. Forces Shaping the Future. The Futurist 21(1):18-23.
Chicago, 21/07/ 1998
Un mondo sotto
controllo: le nuove tecnologie anticrimine
· Che cosa hanno in comune il DNA e il codice
a barre? E’ possibile rimanere sobri pur bevendo grandi quantità di alcol? E’
possibile che qualcuno osservi ogni minuto della nostra vita senza che ce ne
accorgiamo? E’ possibile invecchiare di venti anni un giovane, e renderlo in
questo modo innocuo? Possiamo costringere una persona, con sensori installati
su alcune aree cerebrali, a richiamare a memoria un dato evento? E’ possibile
entrare nella testa di un criminale? A queste ed altre domande Stevens risponde
descrivendo dettagliatamente tutte le più moderne tecnologie anti crimine oggi
presenti sul mercato o in via di sviluppo. Questi strumenti renderanno
possibile un controllo capillare e sempre più accurato della criminalità e
della violenza. Teoricamente sarà possibile sconfiggere la criminalità con le
più avanzate tecnologie. L’intervistato sostiene che attraverso l’ingegneria
genetica che egli considera la tecnologia definitiva potremo arrivare, con la
manipolazione del gene, a creare “il tipo umano non criminale” e avere una
società interamente libera dalla violenza. (1) .
· Secondo Gene Stevens la tecnologia è sì in
grado di garantire sicurezza ma essa non può rappresentare una risposta a quel
tipo di sicurezza che ha un significato più vicino a quello di qualità della
vita, a un senso di integrazione armoniosa nella comunità (2) .
· Ma qual è il prezzo che si deve pagare per
rispondere con queste tecnologie alla fine della violenza? Troppo alto secondo
Stevens che identifica tre principali conseguenze nella “sorveglianza
tecnologica”: la perdita della privacy, le applicazioni violente di queste
tecnologie antiviolenza, e infine il problema della disumanizzazione, il
trattare cioè la gente non come individui ma come elementi di un gregge da
controllare (3) .
· Secondo Stevens gli alti rischi che l’adozione
delle tecnologie di sorveglianza comporta debba indurre a un ripensamento del
modo di intendere il crimine. Bisogna abbandonare il “paradigma militare” su
cui poggiano le tecniche anticrimine che partono dalla premessa di “combattere
il crimine”, in favore di un “paradigma pacifico” che punti a una
collaborazione fra la tutela dell’ordine e i cittadini (4) .
· Lo studioso riconosce nel modello di comunità
una valida alternativa per combattere la violenza senza affidarci completamente
alla tecnologia. Un modello che ha le sue origini nella Londra del 1929 in cui
la polizia aveva lo scopo di mantenere un ordine pacifico all’interno della
comunità di cui si occupava. L’idea è far sì che la gente conosca il proprio
vicino per non averne paura (5) .
· Lo studioso auspica che in futuro si possa
perseguire un “paradigma pacifico” anche se vi sono molti più interessi a
promuovere il modello militare (6) .
Domanda
1
La sua ricerca è dedicata agli strumenti tecnologici di controllo di
criminalità e violenza. E’ possibile, e come, che le nuove tecnologie pongano
fine alla violenza criminale?
Risposta
Siamo senz’altro in grado di farlo. Possediamo alcune tecnologie nuovissime, e
altre sono in via di sviluppo, che hanno un grande impatto sulla violenza. Fra
quelle già a nostra disposizione, ad esempio, abbiamo sistemi che consentono di
vedere e ascoltare attraverso le pareti, e che ci consentono di controllare
quello che avviene in un dato ambiente a distanza di chilometri. Abbiamo già
oggi, insomma, una tecnologia di sorveglianza assolutamente straordinaria.
E’ già
testato in alcuni aeroporti statunitensi, un nuovo sistema radar che ricorda
molto una scena del film Total Recall, grazie al quale possiamo controllare
cosa si celi sotto gli abiti, che si tratti di un coltello o di qualsiasi altra
cosa; il che consente di controllare la presenza di armi senza dover fare
perquisizioni dettagliate. Questo strumento è oggi disponibile sotto forma di videocamera,
che un agente di polizia può portare con sé per monitorare la presenza di armi
o altro materiale pericoloso fra la gente. Il che comporta un ovvio problema di
riservatezza, perché questo strumento consente di vedere non solo le armi, ma
anche il corpo.
Abbiamo
anche strumenti che costringeranno l'individuo alla sobrietà e che presto
arriveranno sul mercato. Quello più sviluppato al momento riguarda il problema
dell’alcool: indipendentemente da quanto si sia bevuto, si rimane sobri. Se lo
si utilizza prima di bere, è impossibile ubriacarsi; dopo aver assunto alcool,
ne annulla immediatamente gli effetti. E’ un inibitore, inibisce l’effetto
dell’alcool sulla mente. Lo stesso sistema può essere utilizzato per cocaina,
eroina e ogni altra droga, ma è stato sviluppato in prima battuta contro
l’alcool perché rappresenta il mercato più vasto: abbiamo infatti molti più
alcolisti che tossicodipendenti. E nel mio paese, negli Stati Uniti, oltre la
metà dei crimini è legata all’abuso di alcool. E questo sistema potrebbe
diventare ovviamente un grande deterrente contro la violenza, ad esempio nei
crimini domestici.
Vi
sono inoltre diversi nuovi strumenti di sorveglianza. Ad esempio c’è il global
positioning system, il sistema di localizzazione globale, nel quale si usano
satelliti per seguire ogni possibile spostamento del soggetto sotto controllo.
Uno fra i sistemi di sorveglianza più interessanti è poi quello dei
"computer ubiqui", in cui si collocano microcomputer negli abiti,
negli oggetti di casa, dell’auto, dell’ufficio, e grazie a questi dispositivi
si può avere una completa documentazione della vita di una persona, da quando
si alza la mattina a quando va a dormire, e pure mentre dorme, per ascoltare
cosa dica magari anche nel sonno. E’ probabile che i "computer
ubiqui" si diffonderanno anche perché aumenterà la nostra efficienza, dato
che avremo a disposizione un archivio, consultabile in qualsiasi momento, con
tutto ciò che abbiamo fatto. E’ chiaro che qualora la polizia potesse attingere
a questi archivi digitali, avrebbe accesso alla nostra intera esistenza. E un
controllo simile potrà essere effettuato attraverso il DNA, che si va
diffondendo negli Stati Uniti come strumento di identificazione in codice a
barre. Entro i prossimi 5 o 10 anni, il codice a barre con il DNA sarà
onnipresente nel mio paese e probabilmente in molte altre parti del mondo. E
avremo allora potenzialmente fra le mani dei dossier universali. Potremo
costruire dei dossier consultabili in qualsiasi momento, attraverso le documentazioni
dei "computer ubiqui" e il codice di DNA, che contengono ogni
dettaglio della nostra vita, dallo stato medico alla fedina penale, dal
curriculum di formazione a, che so, i disturbi psichici che abbiamo avuto. Ed è
uno strumento ampiamente considerato nell’area della tutela della legge.
Abbiamo
anche altre tecnologie che vanno in questo senso. C’è un grande sforzo di
ricerca, in particolare alla McGill University di Toronto, sulla memoria. Si è
scoperto che ogni evento significativo è registrato nella nostra mente, come su
una sorta di nastro video. E attraverso quel nastro possiamo costringere una
persona, con sensori installati su alcune aree cerebrali, a richiamare a
memoria un dato evento. Ad esempio, con un ostaggio, o con un rapinatore, o con
un imputato di violenza carnale, potremmo visualizzare le ragioni e i modi
dell’evento, il che costituirebbe un eccezionale strumento investigativo.
Ma ce
ne sono molte altre, di tecnologie, che si basano sull’assunto, diffuso negli
Stati Uniti, che i criminali siano solo delle persone spregevoli. E tali
dispositivi di controllo si sono sviluppati per sbarazzarci di queste persone
spregevoli, ossia dell’unico ostacolo alla creazione di un mondo meraviglioso.
Ad
esempio, stiamo considerando la possibilità di un invecchiamento artificiale.
Presto scopriremo le cause genetiche dell’invecchiamento, e con queste saremo
in grado di vivere più a lungo, ma anche di costringere una persona ad
invecchiare artificialmente. E sappiamo anche che la gran parte dei criminali,
se non altro quelli violenti, sono tali nel periodo che va fra i 15 e i 45
anni. Quando ha 45 anni, la gran parte di loro si calma, cambia i propri fluidi
organici, e dunque potremmo prendere un venticinquenne che ha commesso un reato
di violenza, invecchiarlo di vent’anni ed evitare di imprigionarlo, perché a
quel punto non costituirebbe più un problema sociale.
Se
proprio volessimo eliminare tutti i criminali dalle strade, il che è peraltro
un desiderio abbastanza velleitario, potremmo fare ricorso a varie tecniche che
ci consentono di segregarli senza appesantire il nostro sistema carcerario.
Una
fra queste è la tecnica che sospende il movimento corporeo, che già è a nostra
disposizione per gli animali. Potremmo dunque "congelare", per così
dire, i criminali, senza doverci far carico delle spese per trattenerli nelle
carceri, per poi doverli lasciare andare. O potremmo fare ricorso a prigioni
spaziali, collocate su asteroidi, oppure a prigioni sottomarine dove si
potrebbero coltivare alghe e altri tipi di colture marine. Queste sono tutte
possibilità che saranno a disposizione nei prossimi dieci anni.
Un
altro strumento tecnologico a nostra disposizione è quello di secondini
robotizzati, soprattutto adesso che abbiamo l’intelligenza artificiale per gestirli.
Questi robot potrebbero rispondere a tutte le necessità odierne, e in modo
economico e semplice. Possiamo anche far ricorso alla sorveglianza elettronica,
che già è parzialmente in uso nel mio paese: prendiamo coloro che sono in
libertà condizionata all’interno di programmi di riabilitazione, e li
controlliamo elettronicamente attraverso un monitor. Al momento si usano
bracciali da polso o alla caviglia, ma in futuro potremo installarli sotto
forma di impianti organici, così come è possibile impiantare sistemi di
controllo delle nascite. Un’esperienza del genere è stata fatta, ad esempio,
con una donna che aveva abbandonato il figlio neonato in un bidone della
spazzatura, perché non poteva permettersi di mantenerlo. Non si ritenne utile,
in questo caso, imprigionare la madre, e al contempo era necessario evitare che
avesse altre gravidanze. La donna accettò un impianto contraccettivo per cinque
anni, ciò le ha consentito di evitare la prigione e di vivere in modo vigilato
nella comunità.
Possiamo
insomma spingere la gente a scegliere fra la prigione o uno di questi impianti.
E potremmo decidere di impiantare sistemi di elettroshock, in modo tale da
controllare le persone in un programma di riabilitazione senza prendersi la
briga di monitorare continuamente dove sono. Se non seguissero il percorso
previsto, al lavoro o a scuola e poi diritti a casa, se uscissero dagli spazi a
loro destinati, riceverebbero automaticamente un elettroshock, che li
costringerebbe a rientrare nel territorio previsto. E qui abbiamo una
situazione che salvaguarda la libera scelta: non subisci l’elettroshock, se
segui le regole. E al tempo stesso non dovremmo spendere denaro andare a
recuperare il criminale qualora decidesse di uscire dal suo territorio. Ed è
un’altra possibilità di soluzione al problema della violenza.
Si
potrebbero elencare numerosissime altre tecnologie di controllo, ma mi limiterò
a ricordarne solo alcune. Innanzitutto, quella del condizionamento subliminale.
Sappiamo per certo che ha effetti su una parte della popolazione, anche se al
momento non sappiamo se sia universale o meno, ma senz’altro il
condizionamento, effettuato attraverso un complesso sistema di luci, immagini e
suoni, spinge parecchia gente a fare ciò che si vuole. E abbiamo allora pensato
a impianti organici di condizionamento subliminale, che ripetono un messaggio a
livello cerebrale: " fa’ la cosa giusta, fa’ come ti si dice, obbedisci la
legge, sii un buon cittadino", e così via, continuamente finché chi ha
subìto l’impianto non può pensare di fare nulla che vada contro il messaggio
subliminale. Ma quando potremmo utilizzare questa tecnologia? Al primo reato di
violenza, o al secondo, oppure se un soggetto ha una propensione alla violenza,
o semplicemente risolvere in modo definitivo la questione applicandola
all’intera popolazione?
E poi
c’è il controllo biomedico. Sappiamo che a un’alta presenza di serotonina nel
flusso sanguigno corrisponde un atteggiamento calmo e riflessivo, e che alla
sua mancanza corrisponde un atteggiamento aggressivo, iperattivo,
potenzialmente pericoloso. E potremmo creare degli impianti che rilasciano
sostanze chimiche nel flusso sanguigno per preservare la calma e la
riflessività. Potremmo poi far ricorso alla telepatia. Saremo in grado di dare
comandi al computer, o di far volare aeroplani, attraverso le onde cerebrali,
il che ci può consentire di captare e leggere queste onde cerebrali, e
attraverso queste di intuire l’intenzione di commettere un crimine; e potremmo
rendere illegale il semplice pensiero di attività criminale. E potremmo usare
dei chip organici di memoria, che saranno disponibili nei prossimi dieci anni,
ossia dei chip di memoria in nanocomputer impiantati nel sistema cerebrale con
i quali si potrà archiviare un’enorme quantità di informazione, e che potremo
consultare in qualsiasi momento. Per gli agenti di polizia questo è uno
strumento straordinario perché potrebbero avere tutti i dossier criminali
nell’archivio digitale, e portarlo con sé, letteralmente nella propria testa,
per strada, e controllare, nel momento in cui vedessero qualcuno di sospetto,
se si tratta di una persona ricercata. In molti farebbero ricorso a questo
strumento, perché con tutta questa memoria a "portata di mente", per
così dire, si sarebbe molto più efficienti sul lavoro.
Riteniamo
pertanto che questa tecnologia sia destinata a incontrare una grande
diffusione, quasi universale. Il che offre un altro interessante modo di porre
fine alla violenza, vale a dire il penetrare nei computer impiantati nel
sistema cerebrale. Così come gli hacker riescono a penetrare qualsiasi sistema
di difesa informatico, potremmo avere questa attività di irruzione quale parte
del lavoro di alcuni agenti di polizia, che dovrebbero penetrare
clandestinamente nel sistema cerebrale per verificare se contenga informazioni
come, ad esempio, istruzioni per costruire una bomba!
Ma
forse la tecnologia definitiva è l’ingegneria genetica. Possiamo clonare un
gene, sostituirlo, alterarlo, cancellarlo, inserirlo; e possiamo dunque creare
una persona con tutte le caratteristiche che vogliamo. E potremmo allora
identificare il "tipo umano non criminale", crearlo e riprodurlo
geneticamente. Se realmente volessimo, potremmo avere una società interamente
libera dalla violenza.
Domanda
2
Ritiene che questo uso della tecnologia ci renderà più sicuri?
Risposta
Dipende da come si definisce il termine "sicuro". Se intendiamo con
sicurezza il fatto che si possano eliminare omicidi e violenza fisica, sì,
siamo in grado di farlo tecnologicamente. Se invece intendiamo un significato
più vicino a quello di qualità della vita, a un senso di integrazione armoniosa
nella comunità, è chiaro che questi strumenti non servono a granché, in tal
senso.
Domanda
3
E in effetti lei sostiene che, nonostante si sia in grado di porre fine alla
violenza attraverso le tecnologie, ci si debba chiedere se sia opportuno farlo.
Ciò significa che queste tecnologie comportano dei seri rischi.
Risposta
Ritengo che, fra i tre problemi che ho identificato, il principale sia quello
della perdita della privacy. Non potremmo avere privacy in un mondo nel quale
si possa vedere attraverso le pareti, quando si possa avere una registrazione
di tutto ciò che dici, in cui sono in grado di leggerti la mente, o di
penetrare nel tuo impianto cerebrale computerizzato. Dovremmo rinunciare a ogni
privacy, il che non peserebbe troppo forse ad alcuni, ma spesso chiedo alle
persone se non abbiano almeno un pensiero che non vorrebbero condividere con
gli altri, e la gran parte delle persone risponde che in effetti, alcuni
pensieri, alcune cose che hanno fatto o detto, vorrebbe tenerli per sé.
Il
secondo problema credo sia quello delle applicazioni violente di queste
tecnologie antiviolenza. Penso che i nazisti avrebbero molto apprezzato queste
tecnologie, e forse avrebbero avuto anche più successo nei progetti che stavano
per realizzare. E il terzo problema credo sia quello della disumanizzazione, il
trattare la gente non come costituita da individui ma come elementi di un
gregge da controllare. Pertanto ritengo che, per rispondere definitivamente
attraverso la tecnologia alla minaccia della violenza, dovremmo rinunciare a
gran parte di ciò che rende la vita degna d’essere vissuta.
Domanda
4
Ritiene allora che si debba abbandonare lo sviluppo e la diffusione delle nuove
tecnologie di controllo, oppure è possibile farne un utilizzo che non produca
questi problemi?
Risposta
Sì, credo che ci siano strumenti che possano vincolare l’utilizzo delle
tecnologie. Abbiamo una carta dei diritti umani, le disposizioni delle Nazioni
Unite, e negli Stati Uniti la Costituzione, che prevede dei limiti ben precisi.
Questi diritti sanciscono che solo chi è sospettato di essere coinvolto in
attività illegali possa essere portato in tribunale, e posto sotto sorveglianza
dalle autorità attraverso forme di intercettazioni ambientali. Ma non credo
proprio che monitorare l’intera popolazione con videocamere o telepatia sia un
utilizzo legittimo delle tecnologie di sorveglianza. E del resto ci si chiede
già ora quanto l’informazione digitale sia sicura, quanto non possa essere
manipolata. Pensiamo anche solo ai problemi dei telefoni cellulari. Non vi è
privacy nelle comunicazioni su cellulare: chiunque può intercettarli, e può
persino clonarli, e addebitare sul vostro conto corrente le proprie telefonate.
Ci sono molte aree delle nuove tecnologie nelle quali è difficile salvaguardare
la privacy, e il mio più grande timore è che non si possa in futuro risolvere
questo problema. Non possiamo infatti proteggere per via tecnologica la privacy
dalla sua invasione tecnologica: la tecnologia non ci aiuta, cioè, a risolvere
i problemi posti dalla tecnologia stessa.
Credo
pertanto che l’adozione delle tecnologie di sorveglianza comporti potenzialmente
un cambiamento di valori, un vero e proprio cambiamento di paradigma,
soprattutto in un paese come il mio che fa della libertà individuale la propria
bandiera. Per non rinunciare a questi diritti fondamentali della persona,
ritengo che si debba smettere di pensare che il crimine coinvolga poche
persone, pochi elementi che rendono il mondo orribile, per ripensarlo quale
problema di relazione che ci coinvolge tutti. Agli studenti del mio corso di
criminologia, ad esempio, chiedo di scrivere un tema dal titolo "I miei
crimini": e non mi è mai capitato che uno studente non ammettesse di aver
commesso almeno un reato. Una cosa analoga avviene quando chiedo a una
qualsiasi riunione chi abbia subìto oppure commesso un torto che possiamo considerare
"criminale": tutti, e in entrambi i casi, alzano la mano.
Pertanto,
ritengo che il problema della delinquenza coinvolga tutti: la questione è che
alcuni sono coinvolti nel crimine in modo più profondo, spesso per ragioni
ambientali, o per un problema che affrontano attraverso il crimine, e che
produce a sua volta una spirale di delinquenza. Ovviamente, se non diamo loro
fiducia, costoro non avranno alcuna ragione o possibilità di abbandonare questa
strada, questa spirale: essi potranno solo cercare di migliorare la propria
efficacia criminale. L’utilizzo della tecnologia di sorveglianza parte da
queste premesse, e credo che dovremmo partire invece da premesse opposte,
quelle del concetto di comunità. Non pensiamo tutti allo stesso modo, possiamo
avere un aspetto, abitudini, religioni, stili di vita diversi, ma dobbiamo
imparare a convivere con questa diversità, dobbiamo essere più tolleranti l’uno
con l’altro, il che avviene troppo poco spesso.
In tal
senso, a mio avviso, dobbiamo abbandonare l’attuale "paradigma
militare" in favore di un "paradigma pacifico", di dialogo.
Abbiamo pensato che si dovesse "combattere il crimine", o condurre
una "battaglia contro la droga", per risolvere definitivamente il
problema. Ma nel mio Paese si stanno diffondendo i cosiddetti "peace
studies", che sostengono che il nostro fine debba essere di non combattere
il crimine bensì di creare condizioni di armonia nelle micro e macrocomunità,
nei quartieri ad esempio. La gente non vuole vivere in un clima da guerra civile,
con sparatorie e così via, ma in un clima di fiducia nei confronti del vicino,
dove sia possibile avere relazioni sociali, magari competere, ma avere una
buona qualità della vita. Si può ottenere ciò, a patto che si abbia un
approccio completamente diverso, e stiamo cercando di svilupparlo, con
programmi di integrazione delle comunità: andiamo a vedere cosa i diversi
individui abbiano in comune, quali siano i loro problemi di relazione, e
cerchiamo di risolverli affidandoci ai servizi sociali, alla polizia e ai membri
stessi della comunità, presupponendo che non siano malvagi. In questi programmi
la tutela dell’ordine e la comunità collaborano, insomma. Il che ci consente di
eliminare la criminalità alla radice, senza cercare di arrestare i delinquenti,
con i pessimi risultati che del resto ben conosciamo.
Ora,
con ciò non sostengo che le tecnologie di sorveglianza non debbano essere
utilizzate in alcun modo, ma che si stabiliscano dei vincoli e dei limiti di
ragionevolezza al loro utilizzo. Ci sono diverse città, ad esempio Baltimora
negli Stati Uniti, che usa strumenti di sorveglianza come videocamere in luoghi
pubblici, che sono tollerati. Esistono strumenti di monitoraggio digitale che
possiamo consultare per parole chiave, senza dover visionare l’intera registrazione.
Ritengo che questi strumenti possano essere ben accetti nei luoghi pubblici. Ma
il problema, negli Stati Uniti, è che questi strumenti sono usati sempre più
negli spazi privati come bagni e docce, perché qui è vantaggioso spiare, ad
esempio, i propri dipendenti , con la scusa che i bagni sono gli spazi in cui
si assumono droghe, le quali diminuiscono l’efficienza sul lavoro. E non credo
che questo sia accettabile. La tecnologia è uno strumento imprescindibile, ma
solo se limitato per legge a certi spazi.
Domanda
5
Cosa si può fare nell’immediato per combattere crimine e violenza senza
affidarci interamente alla tecnologia, mantenendo però un obiettivo di relativa
soluzione del problema?
Risposta
Senz’altro una strada è quella cui ho accennato parlando di un cambiamento di
paradigma, e ci sono gruppi che promuovono queste attività. Ad esempio, io
appartengo a un’organizzazione chiamata Police Futurists International, che
riunisce studiosi e ufficiali di polizia di tutto il mondo, la quale sostiene
la validità del modello di comunità che dicevo, per la quale il problema della
criminalità è un problema di comunità e non di governo centrale o di stato, e
va affrontato come tale. Si tratta di studiare una data comunità, di
determinare quale sia il problema di criminalità al suo interno e quali siano
le sue cause, studiare le modalità di intervento, e poi intervenire. Questa
pratica richiede un compito molto impegnativo per la polizia: condividere il
proprio potere con la gente. La moderna concezione di polizia trova le proprie
origine nella Londra del 1929, ed era una concezione basata su un modello
pacifista, di dialogo. La polizia aveva lo scopo di mantenere un ordine
pacifico all’interno della comunità di cui si occupava. Noi sosteniamo che si
debba tornare a questo modello originario, che non prevedeva l’uso militare
della forza nelle operazioni di polizia, che si debba abbandonare il paradigma
militare di guerra ai "corpi estranei". Pensiamo che si debbano
valutare i problemi della comunità, alcuni dei quali rientrano nella sfera
della legalità mentre altri sono propriamente illegali, e cercare di risolverli
allo stesso tempo. L’obiettivo primario è pertanto quello di costituire un
concetto di comunità, soprattutto all’interno di situazioni urbane, come sono
diffusissime in Europa, in cui numerose famiglie abitano in spazi molto
ristretti senza neppure conoscersi, il che a volte crea tensioni potenzialmente
esplosive. Quando non ci si conosce, automaticamente si ha diffidenza. E allora
dobbiamo lavorare per promuovere la conoscenza reciproca, e per scoprire cosa
sia condiviso dai diversi soggetti di una comunità.
L’alternativa
a questo modello, quella che si affida alla tecnologia, per me è inaccettabile.
Non credo si possa tollerare una situazione come quella descritta da Orwell in
"1984", o da Huxley in Brave New World. Ma è anche vero che una buona
parte dei miei studenti sostiene di apprezzare il modello disegnato in Brave
New World, e dichiara di voler vivere in un mondo simile. Il che mi inquieta
molto, perché anche solo 15 anni fa nessuno dei miei studenti avrebbe voluto
vivere in quel mondo.
Domanda
6
Ci siamo chiesti, fin qui, cosa possa essere fatto, e cosa debba essere fatto.
Data la sede "futurologica" della nostra discussione, cosa crede,
personalmente, che sarà realmente fatto?
Risposta
Abbiamo due modelli dicotomici, quello militare e quello pacifico. E in molti
hanno interesse a promuovere il modello militare. L’hanno usato per anni, hanno
conseguito alcuni successi, hanno vissuto suscitando paure nella gente: e il
modo per mantenere il modello militare è quello di spingere la gente a pensare,
che so, che rischia di subire aggressioni mentre dorme se non si finanzia e non
si fornisce di strumenti una polizia di stampo militare. Dati questi interessi,
è difficile modificare il paradigma. Al tempo stesso ci sono gruppi come Police
Futurists International che promuovono non tanto la paura popolare ma la
necessità di instaurare un clima di dialogo.
Secondo
me, la paura del crimine costituisce un problema di proporzioni analoghe a
quelle del crimine di per sé. Se la gente ha paura di uscire di casa, si
barrica dietro porte blindate, non ha relazioni e non partecipa agli
avvenimenti sociali, non va in centro a fare spese, abbiamo un problema di
qualità della vita, la stiamo devastando. Mi chiedo quale sia il piacere del
vivere barricati in casa. E se adottassimo tecnologie sofisticate di
sorveglianza, potremmo sì uscire di casa, ma avremmo paura per la nostra
privacy, per la possibile invasione della nostra vita privata, perché non posso
fare ciò che voglio ma solo ciò che vogliono io faccia. In entrambi i casi
abbiamo paura, ed è proprio quello che ritengo ci si debba lasciare alle spalle
in futuro. E credo che riusciremo a farlo. Stiamo lavorando per un nuovo
modello di giustizia in questo paese, e abbiamo il World Wide Web, attraverso
il quale si può dare informazione su se, come e dove sia avvenuto un crimine.
Dovremmo istituire delle pene di "risarcimento", che possano almeno
in parte restituire all’individuo e alla comunità ciò che è stato sottratto o
colpito, e quindi cercare una strategia di riconciliazione fra chi ha commesso
e chi ha subìto il torto. E qualora il reato sia da ricondurre a problemi di
relazione, o a mancanze di abilità sociali in chi l’ha commesso, dovremmo
cercare di risolvere questi problemi e di fornirgli gli strumenti per non
rifarlo. Ora, alcuni possono vedere il modello che suggeriamo simile al vecchio
modello di riabilitazione, ma non lo è, perché non prevede solo un’enfasi su
come cambiare il colpevole. No, noi sosteniamo che chi ha sbagliato debba
pagare, debba risarcire in qualche modo la vittima e la comunità. Ma dopo aver
pagato, riteniamo che debba essere aiutato a rientrare nella comunità. Uno dei
problemi insiti nel presupposto che i criminali siano persone intrinsecamente
meschine è che, anche quando hanno scontato la loro pena e risarcito, per così
dire, il loro debito nei confronti della società, la colpa continuerà a
seguirli ovunque vadano, e non otterranno un lavoro, i loro figli saranno
discriminati, e così via. Questo modello è incompatibile con il perdono. Ed è
veramente strano, e avvilente, che in un Paese come il mio, gli Stati Uniti,
che è emerso dalla cristianità e che si è costruito sugli imperativi cristiani,
sia probabilmente uno dei paesi al mondo che meno conosce il valore del
perdono.
Fonte http://www.mediamente.rai.it/biblioteca/biblio.asp?id=318&tab=bio