PER LA MOSTRA ORGANIZZATA ITINERANTE DAL SOCCORSO ROSSO PROLETARIO

2005

MOTIV-AZIONE

ALL’ARTE E DEBITI CULTURALI

DALLA RICERCA DELLA BELLEZZA ALLA NECESSITA’DELLA FANTASIA

COME FORMA DI RESISTENZA IN CARCERE E “FUORI

 

(per SRP: togliete  pure le parti che ritenete superflue, ma fammi avere il testo eventualmente ristretto; le considerazioni critiche per dettagli personali che ho ricevuto, secondo me non tengono conto del fatto che un artista anche se rivoluzionario, anzi forse di più ancora per questo, non ha segreti per il proletariato,

tanto più se è sotto tortura da parte della borghesia)

 

Quando iniziai a dipingere, dopo una pausa di vent’anni (da bimbo avevo del talento, vinsi un premio regionale, in seconda elementare), stavo in carcere, ero detenuto per la montatura contro il Coordinamento Regionale Veneto-Friuli contro la repressione e il Bollettino, ordita da un noto uomo dei ros di Dalla Chiesa, ora noto come imputato di gravi abusi e reati di narcotraffico, ganzer.  Non avevo pensato a dipingere da operaio in una tipografia industriale piena zeppa di cataloghi d’arte, né per la presenza nella casa paterna di libri d’ogni genere, moltissimi dei quali di pittura, scultura, storia dell’arte, mosaici, affreschi ecc., coi quali avevo socializzato da bimbo.

Ero in una piccola cella con bocca di lupo e fioca luce da 25 w, cesso alla turca e poche ore di aria al giorno, censura fattami direttamente da un persecutore inquisitoriale tra i più noti, capace addirittura di imputare Arafat per le armi avute dalle Br, dopo le confessioni di alcuni detenuti fattisi collaborazionisti. Mi sequestrava persino le riviste, i Bollettini che riebbi dopo 8 mesi dal Tribunale della “libertà”, segno del potere che dovevano tornare indietro. Avevano fatto un mare di arresti per delle attività di solidarietà, accusando compagni e compagne di essere il “braccio legale” delle Br, mentre è noto che le Br erano una organizzazione che praticava l’unità dei due aspetti, propaganda e combattimento, che la caratterizzavano.  Inoltre, noi non ci interessavamo della stampa borghese, di ciò che diceva, se non sul piano legale, per creare delle contraddizioni laddove possibile. Mentre le Br hanno incentrato molto sull’uso della stampa borghese, sull’imporre la pubblicazione dei comunicati, ecc., favorendo poi in definitiva il nemico, in quanto si era data importanza ai giornali, ma questo fu un errore di tutta la lotta armata. In ogni caso, nessun brigatista fece comunicati sulla nostra innocenza, però fummo assolti lo stesso tutti quanti.  Dipinsi visi che urlavano, mani, pugni chiusi, sbarre, dipingevo poche cose ad acquerello. In questa esposizione vi sono un paio di quei disegni. Il più bello di quei disegni sparì sequestrato senza notifica, non si sa dove.

Uscii un anno dopo in decorrenza, e quando ebbi un mini in affitto per me, che lavoravo sui computer ed ero spesso in giro, e il poco tempo che avevo era per la politica, e raramente per i tornei di scacchi, feci qualche piccolo disegno, qualche piccola tela, ma molto di rado. L’interesse era meno, mi chiedevo perché “adesso”, mi interessassi all’arte. Qualche volta ero andato a vedere la Biennale con la mia compagna, che decise di scegliersi un’altra strada dopo 7 anni di rapporto basato sull’amore e sulla lotta politica, ma in generale non avevo dato all’arte molta importanza, anche perché da piccolo avevo avuto la possibilità di vedere dei musei, delle chiese bizantine, e di conoscere qualche artista, con mio padre.

Venni riarrestato nel settembre 1987, era la terza volta, e questa volta poteva essere una storia lunga. Cercai di organizzare una fuga, andò male. Mi ritrovai a Belluno, il più lugubre carcere del Veneto, costruito dagli austriaci, con muri spessi oltre un metro, doppie sbarre e rete alle finestre, molto alte, un freddo gelido boia, e la necessità di tenere le finestre aperte per il sovraffollamento. Iniziai a dipingere delle tempere geometrizzate, studiavo le figure elementari ed i passaggi di colore, le gradazioni, mi lessi Klee e Kandinsky, ma senza riproduzioni a colori, libri in bianco e nero fotocopiati. Lo facevo inizialmente per “staccare” dalla gente che avevo in cella, tra i quali si salvava solo un ragazzo del posto. Con la scusa di sottrarlo all’influenza dell’ambiente, ottenni per me e per lui una cella più piccola, a piano terra, con meno luce, ma senza certa gente. Lì finchè stetti con lui dipinsi dei ritratti, di una ragazza che amavo, di parenti e bimbi di detenuti. Qualche volta disegnai anche all’aria, a matita, dei ritratti. Disegnare mi aiutava a mantenere la creatività e la fantasia, doti essenziali in ogni rivoluzionario di professione (e forse è per carpire questa fantasia, che mi torturano con il controllo mentale).  Studiavo nel frattempo un po’, Brecht, i Grundrisse, ricevevo qualche testata proletaria ed operaia, scrivevo ai miei compagni e ad una compagna delle Br prigioniera che poi sposai, ad una mia cugina con cui avevo un rapporto sentimentale e che mi veniva a trovare ogni tanto quando poteva, facevo quel che potevo, in quel carcere ero l’unico compagno, ma in certe occasioni ho fatto del bene per la comunità, come quando creai le condizioni per buttar fuori un pedofilo grande e grosso di cui un po’ tutti avevano un po’ di paura fisicamente.  Iniziai a dipingere più seriamente dopo che il mio compagno di cella fu scarcerato, e restai solo in cella, - a parte per due giorni nel giugno 1988 quando mi misero in cella un confidente o almeno così credetti, glielo feci capire che non mi piaceva, e tornai solo - iniziavo a studiare bene pesi e valori dei colori delle campiture che rappresentavo, le composizioni di allora erano anche molto complesse, ma artigianale il compasso, artigianali le tecniche. A questa pratica fui spinto anche perché le uniche “geometrie” che vivevamo erano i rettangoli delle celle, dei passeggi, e le circonferenze delle “colonne” ove stavano, esternamente alla struttura portante, i cessi.  Inoltre, dopo l’uccisione di un consulente del primo ministro da parte di un’organizzazione diversa da quella per cui ero carcerato, nell’aprile 1988, mi fu imposto, ad eccezione dell’aria dei passeggi e delle docce, di restare sempre da solo, anche a colloquio. Protestai, ma il magistrato di sorveglianza obiettò alla mia denuncia che non c’erano prove che volessero “studiare” e non solo registrare, ciò che dicevo a colloquio. Quell’intuizione di qualcosa di strano, fu forse giusta. E fa ricordato che il terrificante tappo che faceva il direttore era quello che nel 2000 faceva il Provveditore in Piemonte. Uno molto aggressivo, uno che mi minacciò, appena arrivato, di farmi sparare con pallottole dum dum dal muro di cinta, se ci avessi provato.  A proposito di quell’intuizione, una volta, infatti, una guardia, prendendo in consegna delle tempere che dovevo dar fuori, senza nemmeno guardarle, mi disse, mentre mi accompagnava a colloquio: “lei ha molta fantasia”. Ci restai, ma non dissi nulla, non parlavo mai con le guardie, se non rarissimamente.  Cominciai a discutere un po’ delle cose che dipingevo, per lettera, con parenti ed amici di Venezia. A un compagno mandai un ritrattino da una foto, del suo bimbo, che per secondo nome porta ancora quello di nascita di Lenin.

Quando uscii, per ultimo nella mia istruttoria veneta confluita nel processo all’Unione di Roma, andando ai domiciliari ad istruttoria conclusa, e proprio in quel periodo le Br furono sbaragliate, riflettendoci, pensai che occorreva ripartire da zero, ora che si era sgretolato il mito che il pentitismo fosse finito con Savasta, e che quindi l’organizzazione che guidava la lotta armata non era più in grado di assolvere i compiti che si era assunta di fronte al proletariato.  Non ritenni quindi di essere in colpa, all’epoca che la pensavo ancora molto simile a loro, se mi dedicavo un po’ all’arte, e quindi strinsi rapporti e lavorai molto, in circa un anno o poco meno di domiciliari, tant’è che nella mia corrispondenza con Alberta, era interessata anche all’arte, e così anche compagni ed avvocati, come Attilio, che venivano a trovarmi, ne erano contenti. Non mi sentivo in contraddizione, perché disegnavo o dipingevo solo ritratti, o astrazione, perché dietro l’astrazione mi muovevo in uno spazio ideologico che si può intendere con “materialismo ed empirocriticismo” di Lenin, e con l’avanguardia sovietica artistica degli anni ’20 (El Lisitsky e Rodcenko, di cui lessi i testi).  Però quando Stefano, un compagno di Venezia che dipingeva e lavorava da grafico, mi propose di partecipare, appena liberato, ad una mostra “Con l’Intifadah”, assieme ad altri giovani artisti anche della Palestina e Libano,  mi impegnai in una grande tela di 2 metri, in juta, che lui stesso mi regalò, che rappresentava un villaggio palestinese in fiamme, la bandiera palestinese impugnata, un mitra, il deserto, fatto stesso dipingendo con gialli, terre di siena, ombre, e sabbia. Riprese la vita di fuori, e potei dipingere ed impegnarmi alternativamente politicamente oltre che nel lavoro, tra gli studenti (pantera del 90) e gli occupanti di un centro sociale a Venezia, tra le mostre che andavo a vedere e quelle cui partecipavo, le conferenze artistiche, le mostre artistiche collettive politiche che poi organizzai (90 e 91), contro la guerra in Iraq e per la Palestina libera dal giogo sionista, contro l’EXPO veneziana che avrebbe distrutto ancor più di cento anni di invasioni barbariche, quel poco di tessuto sociale che esisteva ancora nella mia città, così come potei dar corso a varie ricerche artistiche. Ma era un fare che non poteva avere successo: non avevo cambiato campo.

E nel mondo artistico, è la più spietata tra le borghesie, con qualche eccezione intellettuale che si ritaglia qualche spazio di indipendenza relativa, ad imporre chi deve avere fortuna e chi no.

In quel periodo, grazie ad una serie di conoscenze che avvenivano a chi frequentava mostre ed inaugurazioni di altri pittori, non sempre fortunose né positive,  conobbi una attrice teatrale passata in disgrazia dopo che non era andata più a genio ad un ministro spocchioso e pulcioso (almeno così lo dipingevano le caricature) della mia città, molto potente. Ovviamente le divenni amico, anche perché era molto bella. E qualche volta, io che vivevo a piano terra a Venezia, e che non avevo una vita affettiva regolare essendomi sposato una compagna già carcerata da una decina d’anni e condannata all’ergastolo, ci andavo insieme, sin da prima di conoscere Clara, che poi mi aiutò molto nel mio produrre artistico, e non solo in questo ovviamente. Sicchè grazie a questa attrice conobbi Armando, un compagno artista nato nel 1910, che durante la guerra aveva la responsabilità della stampa clandestina dell’Unità, e che si era ritirato dalla militanza politica dopo che togliatti e trombadori avevano tradito il Realismo, quel movimento artistico che aveva dato forma e immagine alle lotte sociali, alla Resistenza, alla Liberazione dal nazifascismo. Armando avrei potuto conoscerlo anche attraverso un regista di teatro che aveva lavorato con Basaglia al superamento dei manicomi a Trieste, e infatti successivamente ci trovammo alcune volte insieme.  Armando era molto interessato non solo alle iniziative che promuovevo, e a cui aderì un paio di volte con dei quadri in esposizione, uno dei quali mi regalò, ma anche alla ricerca artistica ed alla qualità dei lavori che facevo.  Vedemmo delle mostre insieme, anche fuori Venezia, e ogni tanto lo andavo a trovare.  Dette continuità e motivi aggiuntivi alla mia ricerca artistica. Mi fece capire che essere pittori non corrisponde ad essere borghesi, lui che ancora pagava l’affitto ad 80 anni, nonostante la celebrità, e tantomeno a livello ideologico, chè anzi, la pittura oggi era divenuta una cosa molto rivoluzionaria, specie se non prettamente figurativa, proprio perché era passata di moda.  E che ai valori ed alle forme della forza dinamica, che si possono esprimere in una tela, si può dare un taglio tutt’altro che futurista od ingenuo, che si può attrarre domande e spingere le persone a porsi delle domande anche solo con un quadro che non dice nulla solo a chi non ha potuto educare anche in questo senso la propria intelligenza. Idee che condividevo, a cui mi ero avvicinato durante la carcerazione bellunese.

Fu con lui che discussi per la prima volta del ciclo di dipinti “Memoria” (1992), - uno dei quali, rappresentante la fraternità finanche nella morte, di due prigionieri di Auschwitz, è in questa esposizione – tele che nascevano dal “ricordo” dei lager (ove era stato uno zio partigiano) e della guerra di Bosnia con i suoi campi sbattuti in televisione; di quella guerra mediatizzata volevo evidenziare l’inutilità e la follia dei conflitti interetnici VOLUTI dall’imperialismo occidentale, il senso della morte, il significato comune a tutti gli uomini, della morte dei prigionieri, per questo lavorai molto sull’espressione, sui costati, sulla terra, per rendere la plasticità e comune natura di ogni corpo devastato dalle condizioni inumane di detenzione.  Qualcosa cambiò, di nuovo come da ragazzino ai tempi del Cile, in me, dipingendo quelle tele partecipai di più intimamente e socialmente – come uno schiaffo all’estetica purulenta dei fifì dei ricchi -, ma non la esposi che il 25 aprile. Si apriva una contraddizione “di mercato” tra il mio dipingere realismo (“E’ successo qualcosa”, disse Armando) e la necessità di “essere” presente, con le proprie “opere” che comunque erano esteticamente fondate. La crisi economica si iniziava a sentire, anche per dei piccoli produttori di software gestionale, che era il lavoro che avevo ripreso dopo la detenzione, e l’interesse per quella vita a Venezia, sciamava. La guerra imperialista incombeva, ed il resto è storia.

Armando poi venne a trovarmi in carcere a Padova, nel ’94, capì che sarebbe stata lunga e non interferì con le mie scelte. Ma mi spinse a non abbandonare la matita ed i colori. Cosa che non sempre ho potuto fare, nella trincea di questa detenzione durissima, ma che quando ho potuto rispettare, ne ho tratto aiuto e stimolo, soprattutto senso di un campo proprio, ove il potere non poteva entrare a che fare.  Non c’è nulla da perquisire, in una tela dipinta !

Nel 2001-2002-2003 produssi dei murales componibili, dopo che un nazista di comandante sardo mi aveva fatto ridipingere un murales fatto in cella ricopiando una cartolina dei compagni spagnoli in cui da un tronco reciso spunta un germoglio di fronte al sole; all’epoca mi trovavo, ancora al centro di una lotta ideologica sotterranea ma nemmeno troppo, interna al carcere, che durava da quando tra i prigionieri Br si era espressa una posizione ortodossa ignara della situazione concreta della lotta di classe e di ciò che comportava nella vita delle masse questo, e di ciò che questo rappresentava sul piano di quella che loro chiamavano “fase della ricostruzione”. In quel periodo la lotta feroce dello Stato per farmi recedere dalla militanza, divenne tortura esplicita, umiliazioni, dileggio, violenza, lavaggio del cervello; ciononostante mai ho cessato, in carcere, di essere promotore di lotte, raccolte firme, denunce, proteste, e di essere verso l’esterno orientato come baricentro all’internità al proletariato ed al movimento comunista, e questo nonostante l’etichetta élitarissima sul piano giuridico di “partecipe - organizzatore” delle Br-pcc.

Armando avrei dovuto vederlo a Opera, quando produssi un cd rom su di lui, che invio con questo testo ai compagni perché sia consultabile. Invece a Opera ci furono repressione e abbattimento del lavoro che avevo messo in piedi. Era autorizzato a venire a Biella, ma non potè. Mi morì nell’aprile 2004 ed è il mio cruccio più grande, non aver potuto rivederlo in vita.

L’Armando che ricordo non è solo l’elegante pittore anziano che discetta solo e sempre di Leoncillo o di qualche giovane promessa di sesso nobile che aveva conosciuto, e, con rabbia ed amarezza, di trombadori, ma in particolare del compagno anziano e dubbioso che sorride e mi dice dei “cento fiori” e del poema “Lenin” di Majakowskji, della stampa clandestina dell’”Unità” nella guerra, delle emozioni della carcerazione e dell’isolamento che patì, degli affreschi di Parma, sicuro stimolo per la futura professione di architetto della figlia, che all’epoca bimba, assisteva con la madre, alla stesura di questi manifesti della lotta di classe e della fatica del Lavoro, Unico Creatore. Di un compagno che non si immischia per come le cose sono andate, che c’è stato, e che non ci sarà nel ciclo nuovo, ma che nel suo lascito porta con sé delle motivazioni anti-revisioniste che sono sia pur ingenuamente poste, alla base della maturazione che il nuovo quadro rivoluzionario ha avuto dagli anni sessanta in poi.

Avrei voluto andare ai suoi funerali anche se in manette, ma al solito lo seppi tardi. Non smise mai di scrivermi e di rappresentarmi che il dipingere mio non era un vezzo ed era necessario a me ed al mio benessere, anche se detenuto. A Biella avrei voluto essere insieme ai compagni spagnoli, gli unici prigionieri in Europa in questi ultimi decenni che abbiano praticato il lavoro comunitario ed artistico, soprattutto nel carcere di Soria negli anni ’80, prima della morte in solidarietà con i compagni tedeschi, e contro la dispersione, di Martin Sevillano. Armando era un pittore famoso, da anziano, ma non era più celebrato dal potere culturale (basilarmente economico), se non in quell’ambito locale veneto e friulano che sia pur per sopravvivenza di ceto, dà ogni tanto voce ai senza-voce emersi dall’anonimato proletario, forse anche solo per difendere il proprio orticello. In realtà era un militante comunista non più in attività, non revisionista, troppo vecchio per partecipare ai nostri anni settanta, ma non per darci qualcosa con le sue tele, che abbiamo visto anche noi proletari e non solo i borghesi fannulloni, e con le sue parole (basti ricordare le “puntine” polemiche delle sue parole nelle interviste dei tre lunghi servizi di RAI-3 Regione nel 1981, anno critico, in cui lui non pronunciò mai la parola “terrorismo” che sarebbe stata utile forse a guadagnarsi qualche nuovo collezionista. In precedenza, gli USA lo mollarono quando lui si qualificò in maniera continuista con la ideologia comunista, all’inizio degli anni ’50, e smisero di comperare sue tele. L’URSS lo mollò molto più tardi, quando, come mi disse lui, “Wojtila è riuscito a buttar giù quel poco di socialismo che era rimasto”.  Armando era molto amico di Bepi, uno storico dell’arte veneziano, socialista di sinistra, che odiava la deriva del psi degli anni ’80, e che aveva fatto pure lui il partigiano a Venezia. Fu Bepi a dirmi, io pensavo che scherzasse, 16 anni fa, di volermi presentare ad una mostra d’arte, che io non immaginavo ancora di poter fare. Non fece a tempo, ma in quell’anno di domiciliari mi dette molti preziosi consigli e spunti di riflessione. Lui chiamava la mia “arte povera” ed io nella mia ignoranza specifica, non volevo avere a che fare con correnti un po’ esibizioniste un po’ élitarie, che a Milano ed altrove negli anni ’60 soprattutto avevano iniziato ad esprimersi.  Più tardi, quando oramai era morto, capii che la mia era proprio “arte povera”. Oggi un mio quadro è anche in una fondazione a nome di questo insigne storico, ma per me lui rimane solo Bepi, un settantenne morto di cuore in una società infame, che girava Venezia con una sciarpa colorata di quelle che si vedono a volte portate da ragazze di pelle scura o da giovani rasta. Un uomo che pensava sottilmente all’intelligenza, che amava l’intelligenza, e che non amava il potere. Oggi che uomini così un po’ alla volta non ce n’è più nel nostro paese, la borghesia ha fatto il suo tempo.

Occorre spazzarla via. Se serve, anche con l’espressione artistica,  ricca di idee e non solo di sentimenti.

Per questi ed altri motivi ho avuto molti stimoli a dipingere e anche per questo ho meglio che potevo resistito e resisto al “trattamento” inumano ed infame che la borghesia continua a riservarmi con il “controllo mentale a distanza”.

Ma non possono fermare né la rivoluzione, né l’arte. Non è insomma l’arte, come dice un certo Gimpel, ad essere feccia, ma l’arte borghese, la sua ideologia, il suo mercato. Per questo occorrerebbe che nel proletariato ci fosse più interesse per l’arte. Per riprendercela tutta, in ogni campo, anche nella pittura.

Paolo Dorigo, militante comunista prigioniero marxista-leninista-maoista