Recensioni – Prefazioni –
n.3 (dopo recensioni ai libri di Ceccoli e Arenas, 2001)
PREFAZIONE DI
Paolo Dorigo
AL ROMANZO
ERA DI MAGGIO
di Anonimo Cumano,
detenuto
ergastolano a Spoleto,
romanzo e
prefazione scritte nel 2004
Questo è un ottimo romanzo di memorie, ed è scritto
da un pittore. E si vede.
Si tratta di un romanzo autobiografico ma intinto
dai colori di un artista capace di dipingere in campiture semplici ma
sostanziose il reale vissuto d’un popolo di emarginati ai bordi della metropoli
partenopea degli anni sessanta e settanta.
È un libro che è un po’ uno specchio sociale d’un
tempo e d’un luogo e dei vissuti che hanno circondato la crescita d’un Uomo
culturalmente approdato sin da giovane ai valori dell’egualitarismo e
dell’impegno, ma escluso dalle circostanze della vita dalla notorietà e dal
recupero sociale.
“La lunga stagione dell’adolescenza ce la portiamo dietro fino alla fine dei nostri giorni; l’incanto dei sogni a forma di progetti basterebbero a colmare gli spazi, le differenze, le latitudini e le longitudini che ci separano. Uomini! Criminali... malvagi... capaci di tutto. Uomini! Clown... divertenti... capaci di niente. Abbiamo costruito confini che soffocano l’immaginazione creativa riducendo l’esistenza ad un percorso ad ostacoli senza gioia.”
Un autore alle prime armi che ben conosce, la
cultura antica e la controcultura, che legge e si impegna nello studio e nel
teatro così come nell’evidenziare ciò che non va nelle cose, ma che sa anche
divertire e coinvolgere sin dalle prime battute, che sa portarti nel vissuto
del racconto, un po’ come Meneghello in Libera nos a Malo, un po’ come
Pratolini in Metello.
Vi è poi un dato di fondo che traspare da ogni
inciso, da ogni descrizione, da ogni pastello di paesaggio umano, ch’è
filosofico senza essere asfissiante, che non è di atteggiamento quand’è
tangente per un attimo personaggi antichi o popolari, né di citazionismo –in
questo autore esordiente del tutto assente perché la sua vita gli basta e non
ha bisogno di pontificare e partecipare
alla corrida dei reciproci balletti delle citazioni e delle recensioni,
cosicché cita se stesso ad ogni inizio di capitolo, come nelle fiabe di un
tempo– bensì semplice ricchezza della vita dei semplici, dei proletari, del quartiere
… quell’oggetto oggi così raro e misterioso per i cittadini post-moderni di
oggi. Già, il quartiere, il borgo, il vivere collettivo, oltre la dimensione
della famiglia – impresa, quel mangiare quel che c’è spartendo il pane,
che ancora oggi è di casa nel meridione come nelle carceri, mentre pare
scomparso nelle regioni del benessere.
Nell’area partenopea dove è cresciuto l’autore, in
quel quartiere, erano di casa i Rom, popolo zingaro decimato dal
nazifascismo e represso anche in Unione sovietica. Così alla vita sociale del
quartiere si aggiunge nel racconto il vivere dell’emarginazione per
definizione, degli abitanti della baraccopoli. Crescere nelle baracche è per un
bimbo un segno d’inequivocabile discriminazione per tutta la vita. Eppure qui
c’è una trasmissione di sentimenti e di vitalità che è forse molto più
educativa di tante opere famose. Il ritmo delle baracche non è il tempo
raffermo dei salotti bene, e così il racconto staglia le persone dentro un
ambiente continuamente mobile e libero, per quanto povero.
La Napoli dell’amico Cumano è gemella della mia
città, Venezia, è città importante nella storia italiana dopo l’unità ma anche
nella storia passata del dominio straniero che proprio per questo ha dato un
contributo alla natura di capitale culturale del meridione, anch’essa città
luogo d’ogni lingua e cultura.
L’atteggiamento di fondo dell’autore non è campanilista o riduttivo,
apre con un colpo di zoom la vita semplice dei personaggi di vita vissuta
raccontati, e la descrive senza arrampicarsi nelle descrizioni a tinte forti di
tanti giovani talenti riconosciuti dai critici oggi spadroneggianti.
Non servono all’autore le cifre di cronaca nera dei
quartieri malfamati, le “sgommate d’auto rubate”, le “vetrine infrante in
centomila pezzi”, le teste tagliate e gli inseguimenti –che oggi possiamo
vedere comodamente distesi davanti alla televisione perché la polizia di Los
Angeles ne ha fatto un business– per il lavoro di propria ricostruzione di vita
in quest’opera prima, a Cumano le parole
servono a far pensare:
“Negli anni che passano, non
si fa altro che tentare di tener sotto
controllo quella parte di noi che inchioda alla sconfitta; un vuoto capace di
alterare il quotidiano, rendendo infermi, fino al punto di non lasciar vivere in
pieno il presente, continuando a recitare un ruolo che è assegnato dalla
condizione sociale, e che non si ha la forza o la fortuna di modificare.”
Non è un caso isolato, una frase fortunata pescata a
difficoltà: è anzi un presente riflettere con la testa alla vita nell’atto di
regalare al lettore, atto generoso e non di comodo o avventurista di chi nella
vita ha frequentato solo salotti borghesi salvo fare qualche viaggio all’estero
passando per le latrine disperanti di qualche metropoli e poter poi dire così
d’aver provato l’ebbrezza del vivere duro.
Anzi certi richiami al ruolo femminile in casa sono
tutt’altro che negazione dell’identità femminile, rappresentano il reale
vissuto di donne del popolo la cui dignità e identità è anche nell’accettazione
del modo di vita domestico, piegato però dalla loro soggettività e padronanza,
come nei paesi dell’altra sponda del Mediterraneo, e l’autore ne descrive
l’aspetto e il portato con quel compiacimento tipico del mondo in cui vive ed è
vissuto senza dover ricorrere agli espedienti della pornografia letteraria.
La vita è esperienza e filosofia solo quando la
coerenza si staglia nella pena della rinunzia, diversamente sono parole senza
peso. In questo racconto la polemica non
traspare come in queste mie parole, ma è evidente a chi ne sappia
cogliere un segno di differenza che, se l’autore saprà ripetersi in altri
viaggi consapevoli, potrà qualificare che anche nel suo caso non vi è adesione
alla tendenza letteraria attuale data da quel un carattere di identificazione
voluto dai grandi padroni dell’editoria, bensì valorizzazione dei sentimenti
che stanno alla base della vita della gente, come traspare dall’insegnamento di
Franzuà:
“Farai fatica ad accettare le ragioni degli altri e
capiterà di ritrovarti solo e tradito da chi più hai amato, solo perché avrai
ceduto ad un momento di debolezza dettato dalla passione che tutto domina.
Migliaia di destini s’intrecceranno con il tuo e farai fatica a dipanare una matassa sempre più intrigata, tanto da perderti nei sogni e nelle speranze pur di non affrontare la realtà, che tutto impoverisce, compresa la fede.”
Questo scrivere non è però filosofeggiare a mò di
chi vende una merce raffinata ma sterile: riprende il sapere popolare e lo
inserisce in un contesto raccontato che è profondo sentire, che è più di un
canovaccio di memoria. Ma riesce a mantenere una leggerezza nel racconto, che
avvince e non pesa.
Direi quasi che pare un superamento del Nanni Balestrini di Vogliamo tutto, perché senza incorrere nell’enfasi narrativa della lotta di classe, la rappresenta egualmente, nelle qualità delle persone, nella loro semplice solidarietà, nella denuncia delle ottusità (“Era mai possibile che gli esseri umani si dovessero valutare secondo le proprie inclinazioni sessuali ?”), come nella loro resistenza; il ripudio e il racconto della guerra per come è vissuta dalla gente, il personaggio che è considerato un mago:
“sapeva anche leggere e interpretare il significato più profondo di un messaggio sublime”.
Le corde vibranti del corpo recettivo alla musica …
“Poche note di un piano... una musica, possono scatenare emozioni tali”.
E ancora, i problemi sociali più elementari, tutt’altro che garantiti nel mezzogiorno d’Italia di quegli anni (e ovunque nel mondo d’oggi):
“Allora io gridavo forte: Nessuno può vendere l’acqua! Nessuno può privarci delle nuvole e di tutte le forme che esse contengono! Svegliatevi! Svegliatevi!”
Altrove il racconto pare commuovere, ma non è abile e sapiente strumentare d’uno scafato scrittore di grido:
“Matteo intanto aveva appoggiato la testa sulle gambe del narratore assopendosi. La mano ruvida e massiccia dell’uomo si trasformò come per incanto in una carezza leggera, intrisa d’energia buona, e accarezzò con delicatezza i neri capelli del ragazzino.”
È poesia, e si vede.
Per questo, è un racconto che dice molte cose anche leggendolo come un insieme di racconti brevi. La sua trama è nel sangue del meridione d’Italia, della Napoli che Cumano racconta vissuta, e che lontana soffre, dalla sua condizione che grida vendetta al cospetto di Colui che per molti è l’unica possibile autorità, come nelle parole del prete del rione:
“Gli uomini possono essere
vittime e carnefici, eroi e vigliacchi, indipendentemente dal destino loro
assegnato; le cose divine nulla hanno a che fare con le miserie e le ricchezze
di noi tutti”, e “io vengo a seppellire Cesare, non a
lodarlo. Il male che gli uomini fanno sopravvive loro; il bene è spesso sepolto
con le loro ossa; e così sia di Cesare.”
Un’Autorità tuttavia che non può impedire all’animale uomo che è la Società di scavare nelle viscere del dolore, e che quindi non tutto può:
“- Tu credi che un Dio
onnipotente possa essere distratto? - rispose Franzuà con aria quasi divertita.-
Dio distratto? E che Dio sarebbe?!… - Allora è possibile che Dio non sia
onnipotente! –”
Paolo Dorigo