Ernesto L. Francalanci, testo per la personale prevista alla Bevilacqua la Masa di Venezia, dicembre 2004

 

La pittura s-confinata di Paolo Dorigo

L’ordine carcerario si scontra con il caotico pulsare delle vite confinate. Impossibile conciliazione tra la forma dell’architettura e la forma del desiderio.

La macchina segregatrice proietta pieghe ad angolo vivo sui corpi: è l’orrore dell’angolo retto, presente in tutti i particolari dell’architettura penitenziaria. Anche le ombre sono a scacchi, vi si impedisce ogni curva, ogni devianza, ogni arte infatti vi sembra preclusa. La pianta dell’edificio, la cella, la finestra; il soffitto, il letto, il tavolino; il foglio, lo specchio, le sbarre; il corridoio, la porta, lo spioncino. Tutto è in-quadrato.

In questa geometrica dimensione Paolo inizia a dipingere geometriche forme: il carcere è quello di Venezia (1985) e poi quello di Belluno (1988). La ricerca proseguirà, poi, dal settembre dell’88 al luglio dell’89 agli arresti domiciliari; la prima mostra, nell’ottobre ’89, è tutta “geometrica”. Tiene un diario critico della sua ricerca. Pensa che tali forme, debitrici della cultura astratta di matrice soprattutto costruttivista, lo liberino dall’apparente facilità dell’informale, di cui ha avuto maniera di esercitare le sue prime conoscenze in ambiente veneziano, soprattutto attraverso la magistrale lezione di Mazzariol (la colta pittura “spazialistica” di de Luigi, così come, d’altro canto, l’irruenza espressiva di Vedova) e dalla felicità narrativa del figurativo (la continua vicinanza affettuosa di Pizzinato).

La fuga dal realismo - stile con cui Paolo, per altro, si esercita in alcune opere marcatamente figurative ed espressionistiche - non rappresenta affatto una fuga dalla realtà, è bensì corsa verso l’al di là del reale, verso l’oltrepassamento del puro ri-vedere, verso il luogo invisibile che ci libera dal contingente, dall’obbligo di riconoscersi in un forzato qui ed ora.

Paolo si rinchiude nella geometria. Manifesta un desiderio di fuga dalla libertà espressiva, imprigionando la pittura in un sistema d’ordine. Imprigionato, imprigiona l’arte nel poter essere: nel dover essere icona del possibile e dell’utopia, del luogo che nulla ha a che fare con qualsiasi immediata riconoscibilità. Tradisce la fredda geometria carceraria con la calda geometria del colore e del ritmo. Il ritmo di questa pittura si scontra con la sofferenza del quotidiano misurare lo spazio di segregazione e il ripetitivo tempo delle giornate. Altro numero, altro spazio, altra misura. Altro spirito. In questo spirito predomina la figura palese o nascosta della diagonale: esattamente quella caduta obliqua delle forze e dell’energia, che permette l’infinito rinnovarsi della vita e delle forme (solo lo scontro obliquo degli atomi determina, affermava Eraclito, la variabilità eterna di tutto ciò che è: da qui, come sappiamo, lo scontro tra Mondrian e Van Doesburg, artisti a cui Paolo guarda con attenzione).

Paolo tende a produrre icone modernamente astratte. Sterile risultato sarebbe pensare le opere geometrico astratte di Paolo soltanto come ricerche sul colore e sulla forma, anche se proprio a questo tema (“Forma-colore”) intitola la sua prima mostra.

La geometria pittorica di Paolo ha altre motivazioni, da ricercarsi, secondo me, in un’adesione concettuale  all’astrazione costruttivista dell’arte dei primi decenni del secolo passato. Il risultato è, per l’appunto, la produzione di icone astratte volutamente inattuali. Ecco, dunque, il precipitare di questa pittura d’ordine, nel pieno del postmoderno, nell’inattualità della modernità e, poi, in quale modernità!

Ripensiamo a quali testi possono ancora aiutarci a ricordare il significato del concetto culturale di modernità (e che, direttamente o indirettamente, possano essere stati nel bagaglio ideologico di Paolo): in primis,  Habermas, secondo cui una definizione corretta di modernità poteva darsi solo a partire dall'ipotesi di Max Weber di un preciso nesso di identità tra i concetti di modernità e di "razionalismo occidentale" (tesi che riprende l'assunto hegeliano di un'intima relazione tra modernità e razionalismo: Weber definiva infatti razionale il processo di disincantamento per via del quale in Europa la cultura “profana” sarebbe scaturita dal disfacimento irreversibile dell’immagine religiosa del mondo).

Nell'interpretazione sviluppata, a sua volta, da Adorno, nella sua Ästhetische Theorie, la caratteristica estetica della modernità sarebbe stata determinata dalla sua stessa costrizione alla sovversione del senso e della forma. Non scriveva infatti Adorno che i segni dello sfacelo sono il sigillo di autenticità dell'arte moderna? Di quell’arte, quindi, che non può non farsi che critica del presente (in ciò, soprattutto, la sua inconciliabilità con l’arte postmoderna).

In fin dei conti l’utopia politica di Paolo non è forse basata sull’ipotesi di una perdurante razionalità illuministica (il “pensiero in costante progresso”, come la definivano, nella loro Dialettica dell’illuminismo, Horkheimer e Adorno), capace di sconfiggere la complessità e le contraddizioni della storia e della politica mediante una logica estremizzante, che non concede spazio alla mediazione e che crede nella possibilità di cambiare il mondo mettendo a nudo un suo supposto ed eterno principio razionalistico?

Per tutto ciò la ricerca estetica di Paolo vuole esser una scelta ideale di campo, una scelta stilistica e morale nello stesso tempo, realizzando delle icone astratto-geometriche, quali s’erano viste solo nel momento storico delle avanguardie artistiche. Un ritorno nella modernità, dunque, nel pieno del tempo postmoderno.

Ma quest’astrazione non può non rispondere anch’essa al tragico paradosso che già allora, nei primi decenni del secolo scorso, significava una scelta di fuga dal mondo nella ricerca illusoria di una più profonda realtà e d’una più immediata verità in esso riposte.

È la caduta dei grandi racconti, religione, scienza, morale, a far sì che si distolga lo sguardo dalle cose esteriori e lo si rivolga verso se stessi: questa affermazione così attuale non è tuttavia pronunciata nel tempo disilluso dei nostri giorni, ma nella stagione inaugurale dell'avanguardia, e precisamente da colui che sarà il massimo teorizzatore della componente spirituale dell'arte, Wassily Kandinskij.

Quanto più è spaventoso questo mondo, come oggi - scriverà nei suoi diari Paul Klee, solo pochi anni dopo -, tanto più astratta è l'arte.

La grande, complessa e contraddittoria "invenzione" dell'astrattismo si coniuga così, già dal suo esordio, con la coscienza della fine di un'epoca storica e con l’entrata in crisi di ogni fondante racconto religioso, scientifico e morale.

Acquista pertanto particolare rilevanza la precorritrice affermazione di Worringer, il quale in Astrazione ed empatia, del 1908, aveva già dichiarato che la scelta dell'astrazione nell'arte non poteva essere determinata che dalla perdita "storica" del mondo.

È dunque su queste premesse che esordia quella che potremmo definire come la "tragedia spirituale" dell'astrattismo, vale a dire il tentativo di mettere in forma, sia pure con differenti soluzioni formali, da Kandinskij a Klee, da Mondrian a Malevic, la tensione tra l’irrapresentabile luogo dello spirito e la resistente persistenza della realtà materiale: il contenuto religioso dell'arte del passato si traduce in loro nell'irrisolvibile relazione tra la metafisica e la fisica, tra ciò che sta oltre il reale e ciò che sta dentro la tenace resistenza del visibile.

Vera finalità dell’astrattismo è quella di dare figura allo scontro tra il rappresentabile e l'irrapresentabile, tra il dicibile e l’indicibile. Un progetto così complesso e spiritualmente coinvolgente non poteva essere sostenuto che cercando di fondere insieme estetica ed etica, atto artistico e modello di vita.

Grave sarebbe, quindi, pensare al lavoro artistico di Paolo, che a quelle esperienze fa riferimento,  come ad un’evasione. La sua ricerca, che consta di un numero elevato di opere, è sintomaticamente inarrestabile e tanto più trascorre il tempo della detenzione tanto più queste opere scandiscono il tempo dell’impegno.

Scrive Paolo nel 1991, interrogandosi sul progetto di giungere ad una nuova “figurazione” attraverso la scomposizione dell’immagine: “diventa importante rendere, attraverso l’incontro-scontro dialettico tra i colori, la necessità di costruire oltre la forma, di edificare attraverso il superamento (ecco perché la direzionalità trasversale, verso l’alto) dello stato delle cose presenti, di lavorare alla distruzione delle umane certezze”.

Il passaggio all’ultima produzione pittorica di Paolo coincide con la fine di questo periodo di carcerazione e con la ripresa della vita libera. Il periodo più recente di Paolo, nuovamente imprigionato, presenta opere che, caratterizzate da una sorta di intreccio di larghe pennellate policrome, testimoniano il superamento di ogni rigidità costruttiva, quasi che la geometria si sia ammorbidita ed elasticizzata. In tali opere i colori sono amalgamati tra loro e stesi, modulo per modulo, in scansioni ritmiche.

La geometria appare ora non più confinata in figure centrali, ma diffusa su tutto il campo pittorico, a costituire la trama generale, il ritmo dei moduli, la cadenza misurata del gesto. Nessuno sfondo incompiuto, ma solo il pieno, denso, intrecciarsi dei colori. Tutto lo spazio è dipinto: il vuoto è bandito, l’orrore del nulla è esorcizzato. Il vuoto morale del carcere produce magmi roventi di desiderio.

Colori controllati, ma, tuttavia, selvaggi, fauve, con un effetto musicalmente barocco.

Icona misurata, eppure informale, impura, vulcanica.

Qui il tempo è signore: nella durata e nel timing. Pretende una percezione lunga, non disattenta. Invoca uno sguardo contemplante e non frettoloso. Richiede un esperimento del tempo come continuum, come esistenziale, come fenomenico. Un tempo-colore, che qualcuno potrebbe definire “veneziano”, naturalistico e tonale, che traspare dall’amalgama sempre cangiante  e urlante dei pigmenti.

Le caratteristiche stilistiche e formali della pittura di Paolo (da lui stesso, per gran parte di esse  definite “controcorrente”, ma con un riferimento ideologico, più che artistico) trovano in qualche modo corrispondenza con le scelte politiche da lui fatte, le quali si misurano nella disperata ricerca di una soggettività che appartiene, in un certo senso, alla logica di un minority report, di un rapporto di minoranza, quella forma del politico, che pone il dito sulla contraddizione stessa della democrazia come espressione quantitativa delle maggioranze.

Nell’attuale società-spettacolo l’arte può ancora tentare di ostacolare il progetto diffusivo dell’estetica, scontrandosi con la bellezza generalizzata, opponendosi alla comunicazione e chiudendosi nell’enigma. Solo così all’arte sarebbe possibile sopravvivere alla sua stessa s-definizione, assumendosi il compito di un recupero della differenza, vale a dire di quella critica dissenziente che è capace di contrastare il fall down atomico delle immagini estetiche. La caparbia insistenza dell’artista a dipingere - in un’epoca che non richiede più il tempo lento dello sguardo meditativo, analitico, interpretativo dell’arte moderna, ma il veloce sguardo del consumo - ci pone di fronte ad un paradosso: il mondo contro cui dipingere non è più il mondo della realtà, ma quello del “deserto del Reale”, già tutto risolto in immagine.

In questo mondo-immagine, ogni individuo si specchia. Il soggetto, a cui le avanguardie artistiche rivendicavano un ruolo irrinunciabile, si trasforma, nella postmodernità, nella personalità narcisistica dei neoconservatori, centrata sul rispecchiamento continuo tra forma estetica  delle merci e apparenza esistenziale del consumo, non più esercitato sull’utile e il necessario.

È il mondo irreale di questa estetica diffusa, come manifestazione estrema della perdita del valore, che evidentemente è nel mirino politico e ideologico di Paolo. Non si spiegherebbe altrimenti una scelta di campo così anacronistica, così ancora manuale, così totalmente esistenziale, come questo dipingere con caparbia misura la policroma tela, tenendo conto che stiamo parlando di un informatico, di un uomo, che, per professione, faceva il programmatore e con grande successo, avendo realizzato dei sistemi di notevole rilevanza tecnologica.

È questo mondo irreale (rispetto ai veri bisogni dell’umanità), tutto trasformato in immagine, vale a dire in forme di apparenza, dunque, che va contrastato e a cui va contrapposto un linguaggio di forme volutamente incomunicanti. Di forme che parlano di un mondo sempre e comunque inventato, autoreferenziale, anarchico.

Cominciamo a capire meglio, dunque, il significato della pittura di Paolo: una specie di dimostrazione di come un pensiero forte possa essere espresso da uno strumento, in fin dei conti, debole, come è quello di un dipinto, in cui, alla fine, non è più dote essenziale l’intrinseca bellezza formale. Poiché, infatti, il fine ideale è quello di realizzare una pittura come forma di resistenza, il risultato estetico si evidenzia soprattutto nella ridondanza esplosiva e calda di una gestualità energetica dispendiosa, caratterizzata da ritmo e scansione, ripetizione e modularità, casualità ed incidente, occasione e gratuità, lucidità e ludicità.

E, soprattutto, non venga mai dimenticato, una pittura che, nutrendosi di tempo, consuma il tempo stesso, il tempo, sofferente e interminabile, che è davvero infinito momento presente dei momenti presenti, e passati e futuri rinchiusi nella cella così come nel confine del dipinto.

Arte versus comunicazione, dunque, negli intenti di Paolo: questo, in effetti, il vero segreto dell’arte, la quale non si pone mai il fine di comunicare, bensì quello di interrogare. Siamo noi gli interrogati dall’arte: essa, eterna sfinge, chiede al viandante, che momentaneamente si ferma davanti ad essa, di riflettere, di fermare il tempo automatico della sua esistenza. Non più automa, ma di nuovo soggetto, lo spettatore assiste, ad ogni nuova opera, al manifestarsi dell’enigma. Et quid amabo nisi quod aenigma est, scriveva, in un famoso autoritratto de Chirico, sulla cornice del quadro, nel luogo di soglia stabilito dalla stessa pittura.

La pittura stabilisce il confine tra il suo luogo e lo spazio dell’esistenza, realizza un confronto tra il paradiso artificiale della sua figura e la dura realtà del quotidiano, costruisce la prova della differenza, visibile, immediata e cruciale con la vita. Qui s’impone un rovesciamento dell’assunto wittgensteiniano per il quale “seria è la vita, allegra è l’arte”: seria è l’arte, implacabile segnale di un pensiero oppositivo continuo critico e implacabile sulla vita, che trascorre troppo disattenta.

Il ritorno all’astratto ha questa giustificazione. Il suo tempo percettivo è faticoso, lento, presuppone un concetto di durata: di durata esistenziale, fenomenologica. Dunque un richiamo alla modernità, ad un tempo lento e misurato, che contraddice simul-taneità e simul-azione, le caratteristiche intrinseche della nostra postmodernità.

Non dunque, come esprime la radice stessa di simul-, “nello stesso tempo” e “al posto di”: ma “ora, in questo momento” e “nient’altro che questo soggetto”. In questa nostra storia, in questo nostro luogo, in cui tutti siamo imprigionati, l’arte, resistendo alla sua sparizione, diventa il simbolo stesso della libertà.

Nella cella della prigione la finestra inquadra la libertà. Tra tutte le opere che ne fanno figura, una in modo particolare mi viene alla mente: Room for St. John of Cross (Stanza per san Giovanni della Croce, 1983) dell’artista americano Bill Viola. Un cubo, costruito al centro di una più grande stanza immersa nel buio, ha una piccola finestra su un lato. Affacciandosi ad essa, si può vederne l’interno, illuminato: le pareti bianche, un tavolino di legno, una brocca di metallo, un bicchiere, un piccolo monitor. Il monitor trasmette l’immagine a colori di una montagna innevata. Dietro il cubicolo (l’infima cella nella quale Giovanni della Croce era stato tenuto prigioniero dalla Chiesa e nella quale egli comporrà la maggior parte delle sue poesie), sulla parete di fondo della stanza, compare realistica, come fosse vista al di là di una vetrata, l’immagine  della stessa montagna, ma quest’immagine è in bianco e nero. Bianca o nera – vuol dirci Bill Viola – è la realtà, è la triste banalità quotidiana, che solo l’arte e la poesia possono colorare, dandovi senso. Solo l’arte e la poesia sono capaci di trasfigurare il mondo e lenire la malattia mortale dell’esistenza.

 

ELF 19 12 2004