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Marco Sacchi

CRISI  E  ARMAMENTI

 

Il  capitalismo  di  fronte  alla  crisi  mette  in  moto  tutta  una  serie  di  misure  di  varia  natura  che  vanno  dall’inflazione,  alla  disoccupazione  (con  l’utilizzo  di  mano  d’opera  a  buon  mercato  proveniente  dai  paesi  dipendenti)  all’esportazione  di  capitali  ecc.  Ma  il  metodo  più  estremo  per  salvare  il  capitalismo è  quello  “convulsivo”:  guerra  verso  l’esterno.

 

Dalla  crisi  del  1929  alla  Seconda  Guerra  Mondiale.

 

Dopo  il  crack  della  Borsa  del  1929,  si  potenziò  l’intervento  dello  Stato  nell’economia  sia  in  Europa.

E’  in  questo  periodo  che  nei  circoli  degli  economisti  accademici  anglo-americani,  con  in  testa  Keynes,  si  affermò  l’idea  di  dare un  governo  all’economia  capitalistica.  Keynes  sosteneva  che  la  stagnazione  era  dovuta  alla  mancanza  di  investimenti  produttivi da  parte  degli  industriali;  per  questo,  come  via  di  uscita  dalla  crisi,  propugnava  l’aumento  della  spesa  pubblica,  anche  in  condizioni  di  deficit  statale,  al  fine  di  sostenere la domanda  totale  per  i  beni  di  investimento  e  consumo:  manovrando  questa  domanda  e  mettendo  degli  “incentivi  a  spendere”  si  poteva  mantenere  un  livello  di  produzione  che  limitasse la  disoccupazione.

Il  presidente  degli  U.S.A. F. D. Roosvelt,  -  sotto  la  spinta  delle  lotte di  enormi  masse  di  lavoratori  e  di  disoccupati  prodotte  dalla  crisi  (1°)  -  varò  un  grande piano  di  investimenti  per  l’espansione e  l’ammodernamento  delle  infrastrutture,  nell’intento  di  sostenere  la  domanda  globale  e  riavviare  il  ciclo  espansivo  dell’economia (2°).

Queste  misure  si  rilevarono,  di  fatto  insufficienti  a  sconfiggere  la  crisi.

Gli  USA  e  tutto  il  mondo  capitalistico  uscirono  dalla  crisi  solo  in  seguito  alle  immani  distruzioni  operate  dalla  Seconda  Guerra  Mondiale.

Infatti,  se  si  esamina  la  dinamica  degli  avvenimenti  politici  che  si  sono  succeduti  a  partire  dalla  crisi  del  ’29  in  avanti  si  nota  che  il  mondo  è  stato  scosso  da  eventi  di  grande  portata.  Si  inizia  con  la  rivoluzione  spagnola  che  portò  alla  caduta  della  monarchia  (aprile 1931)  all’avvento  di  Hitler  in  Germania (gennaio  1933)  all’apertura  delle  campagne  militari  dell’imperialismo  giapponese  in  Cina  fino  alla  guerra  di  Etiopia  (1935)  e  alla  guerra  civile  spagnola  (1936-1939)-

 

Nel  tentativo  di  salvare  l’ordinamento,  lo  Stato  Capitalistico,  questo  comitato  d’affari  della  borghesia  imperialistica,  cercando  di  uscire  dalla  crisi  del  1929-33  attraverso  l’intervento  statale  ha  sviluppato  l’industria  delle  armi,  mettendo  in  crisi  la  pace  mondiale  e  favorendo  l’ascesa  del  fascismo.  M.  Kaleki,  in  un’acuta  analisi  contenuta  in  un  articolo  presentato  alla  Marshall  Society  di  Cambridge  del  1942  (Aspetti  della  piena  occupazione  .  Edito  da  Celuc  Libri  1975)  diceva:  “Durante  la  grande  depressione  degli  anni  ’30,  in  tutti  i  Paesi  tranne  che  nella  Germania  nazista,  si  è  registrata  la  netta  opposizione  del  mondo  degli  affari  contro  ogni  esperimento  tendente  ad  utilizzare  la  spesa  pubblica  per  espandere  l’occupazione  (…)  ma  se  durante  le  fasi  recessive,  il  massimo  desiderio  degli  imprenditori  è  quello  di  subentrare  presto  in  una  fase  di  veloce  espansione:  perché  dunque  non  accettano  di  buon  grado  il  boom  “artificiale”  che  il  Governo  è  in  grado  di  offrire?

Le  ragioni  possono  venire  distinte  in  tre  categorie:  (1)  l’avversione  per  l’interferenza  statale,  in  quanto  tale, nel  campo  dell’occupazione,  (2)  l’avversione  per  il  tipo  di  orientamenti  impressi  alla  spesa  pubblica  (investimenti  pubblici,  sostegno ai  consumi) (3)  l’avversione  per  i  mutamenti  sociali  derivanti  dal  perdurare  della  piena  occupazione  (…)  in  un  regime  di  piena  occupazione  permanente,  la  minaccia  del  licenziamento  perderebbe  la  sua  efficacia  di  misura  disciplinare.  La  posizione  del  padrone  non  avrebbe  più dei  contorni  netti,  mentre  i  lavoratori  acquisterebbero  una  maggiore  sicurezza  in  se  stessi  e  una  crescente  coscienza  di  classe.  (…).

Una  delle  più  importanti  funzioni  del  fascismo,  nella  forma  che  attualmente  riveste  nel  sistema  nazista,  consiste  nel  rimuovere  le  obiezioni  dei  capitalisti  contro il  pieno  impiego.  L’avversione  per  la  spesa  pubblica,  sia  sotto  forma  di  investimenti  pubblici  che  di  sussidi  al  consumo,  viene  superata  concentrando  la  spesa  negli  armamenti.

Il  fatto  che  gli  armamenti  costituiscano  la  spina  dorsale  della politica  fascista  per  la  piena  occupazione,  viene  ad  esercitare  una  profonda  influenza  sul  suo  carattere  economico.  Un  riarmo  su  larga  scala  non  può  prescindere  dall’espansione  delle  forze  armate e  dalla  predisposizione  di  piani  per  una  guerra  di  conquista,  ciò  che,  per  competizione,  induce  al  riarmo  anche  gli  altri  Paesi. 

Questo  fa    che  l’obiettivo  principale  della  spesa  cessi  gradualmente  di  essere  il  pieno  impiego  per  identificarsi  con  la  garanzia  di  massimi  risultati  nel  campo  degli  armamenti.  Un’ “economia  degli  armamenti”  implica,  implica,  in  particolare  dei  consumatori  assai  più  limitati di  quanto  dovrebbero  essere  in  una  situazione  di  pieno  impiego.

Il  sistema  fascista esordisce  sopprimendo  la  disoccupazione,  sia  sviluppa  determinando  una  “economia  degli  armamenti”  dominata dalla  penuria,  e  sfocia  inevitabilmente  nella  guerra”.

L’ordine  hitleriano  era  riuscito  ad  aprire ai  capitalisti  tedeschi colpiti  dalla  grande  recessione  vaste  prospettive  di  profitti. Un  mese  dopo  l’ascesa  al  potere,  Hitler  rivolgeva  un a nota  di  politica  industriale  alla  Federazione  Tedesca  dell’Industria  Automobilistica  presieduta  da  F. Porsch.  I  provvedimenti  contenuti  prevedevano  la  costruzione  rapida di  infrastrutture,  agevolazioni  fiscali  e  sovvenzioni  all’esportazione,  la  messa  a  disposizione  di  manodopera (3)  e  di materie  prime  a  basso  costo,  oltre  che  di  crediti  rilevanti.

Decine  di  migliaia  di  imprese  approfittarono  del  grande sviluppo  dell’industria  degli  armamenti,  dell’esproprio  della borghesia  ebraica  e  dai  saccheggi  della  Wermacht.  Parallelamente  la  nuova  legislazione  del  lavoro  significò  la  totale  liquidazione  delle  istituzioni  della  classe  operaia  edificate  in  oltre  un  secolo  di  lotte. 

La  politica  di  intervento  dello  stato  nell’economia  della  Germania  nazista  (come  quella  dell’Italia  fascista  e  quella  del  Giappone)  è  stata una  variante  del  Capitalismo  Monopolista  di  Stato  e  come  tale  tendente  al  rafforzamento  della  proprietà  privata.

Ovviamente  quanto  detto  sopra,  vale  non  solo  per  i  paesi  della  coalizione  hitleriana.

La  partecipazione  dello  Stato  Borghese nell’economia  fu  determinata  da  fattori  endogeni  quali  la  crisi  generale  del  sistema  capitalista  e  da  fattori  esogeni tra  i  quali  in  primo  luogo  i  primi  successi  dell’U.R.S.S.  nella  realizzazione  del  primo  piano  quinquennale  e  nell’eliminazione  della  disoccupazione.

 

Il  secondo  dopoguerra.

 

Nell’immediato  dopoguerra,  anche  grazie  al  Piano  Marshall  che  permise  di  investire  i  capitali  eccedenti  americani  nella  ricostruzione  delle  industrie europee  distrutte  dalla  guerra,  l’economia  americana  era  una  macchina  che  filava  a  tutto  vapore:  “Con  la  fine  del  conflitto,  l’economia  americana  si  venne  a  trovare  nella  spiacevole  situazione  del  tuffatore che  spiccata,  la  corsa  sul  trampolino,  si  accorge  che  non  c’è  più  acqua  nella  piscina.  Era  necessario  riconvertirle,  cioè  passare  alla  produzione  di  pace;  era  soprattutto  necessario  che  la  spesa  privata,  compressa  durante  tutto  il  profitto,  aumentasse in  breve  tempo  in  misura  sufficiente  per  permettere  alle industrie  belliche  di  non  ridurre  il  ritmo  produttivo  e  con  esso  l’occupazione;  tutto  ciò  mentre  il  ritorno  dei  giovani  alla  vita  civile  poneva  il  problema  di  trovare  loro  un  lavoro.

Negli  anni  dell’immediato  dopoguerra,  1945-48,  l’economia  americana  fu  convertita  alla  produzione  civile  senza  seri  problemi.  Non  avendo  subito  danni  fisici  durante  la  guerra,  gli  Stati  Uniti  raggiunsero  un  livello  di  prosperità  molto  elevato.  La  domanda  dei  consumatori,  spinta  anche  dall’aumento  del  numero  delle  famiglie,  dovuto  al  ritorno  dei  soldati,  era  molto forte,  particolarmente per  i  beni  che  non  erano  denaro  liquido.

La  domanda  delle  imprese  per  investimenti  era  stata  molto  scarsa  durante  la  guerra,  in  modo  anche  nel  settore  industriale  vi  era  una  forte  domanda  arretrata”  (O.  Ekstein  “Economic  Policy  in  the United States  from  1949  to  1961”).

La  Guerra  di  Corea  (1950-1953),  nell’immediato dopoguerra portò  a  una  “forbice”  nell’apparato  industriale  U.S.A.  tra  l’industria  bellica  completamente  dipendente  dalla  spesa  statale  e  le  industrie  escluse  da  contratti  per  le  spese  militari.  Durante  la  presidenza  Eisenhower  lo  stanziamento  per  le  spese  militari  era  di  40  miliardi  di  dollari;  alla  fine  del  suo  mandato  Eisenhoer  denunciò:  “…nei  Consigli  dello  Stato  occorre  guardarsi  dall’acquisizione  di  autorità  non  delegata,  ricercata  con  malizia,  da  parte  del  complesso  militare-industriale.  Le  possibilità  di  un  tragico  spostamento di  potere  esistono  e  sono  destinate  a  perdurare”. 

Fu  Eisesenhoer  a  coniare  il  termine  “complesso  militare-industriale”.

L’economista J.  Robinson  in  Collected  Economic  Papers Vol.  III  pag.  103  -  112  in  “Oltre  la  piena  occupazione”:  “I  paradossi  di  Keynes  -  costruire  delle  piramidi,  scavare  delle  buche  nel  terreno  -  vennero  presi  alla  lettera. E’  stato  stimato  che  negli  Stati  Uniti  nel  1958  le  spese destinate  a  ciò  che  eufemisticamente  viene  chiamata  “difesa”  ammontata  a  più  dell’11%  del  prodotto  mazionale  lordo,  e  che  nel  Regno  Unito essi  si  avvicinavano  all’8%,  cifre  che,  in  ciascuno  dei  due  paesi,  sono  pressappoco  uguali  al  volume  degli  investimenti  industriali  produttivi.  Ciò  significa  che  arrestando  questa  corsa  al  riarmo  si  potrebbe  grosso  modo  raddoppiare  la  capacità  produttiva  del  sistema  industriale,  senza  per  questo  imporre  alcun  sacrificio  straordinario    creare  delle  pressioni  inflazionistiche  maggiori  di  quelle  già  sperimentate  in  passato. Ed  anche  s e una  simile  politica  viene  ufficialmente  ripudiata,  appare  assai  evidente che  l’amministrazione  degli  Stati  Uniti  fa  affidamento  sull’intensificazione  delle  spese  militari  come  correttivo  contro  ogni   minaccia  di  recessione”.

In  sostanza  lo  Stato  della  borghesia  imperialista  americana  -  reduce  dalla  crisi  del  ’29  e  da  una  guerra  mondiale  -  capì  abbastanza  rapidamente  la  funzione  anti-ciclica  della  produzione  bellica,  ovvero  la  possibilità  di  contrastare  i  rallentamenti  ciclici  usando  gli  investimenti  militari  come  volano  per  l’intera  economia. 

Ma  la  produzione  bellica,  prima  o  poi,  in  determinate  condizioni  porta  alla  guerra.  Le  guerre,  infatti,  permettono  di  distruggere  capitali  e  aprire  la  strada  a  una  nuova  fase  di  espansione.  L’obiettivo  della  borghesia  rimane  sempre  il  profitto  e  non  la  distruzione  di  capitali;  quindi  la  guerra è  funzionale  allo  sviluppo  capitalistico,  ma  lo  sviluppo  capitalistico  tende  a  portare  alla  guerra  tra imperialismi  concorrenti  per  la  spartizione  del  mercato  mondiale. 

 

Le  crisi  americane  degli  anni  ’60  e  ’70.

 

Gli  Stati  Uniti  si  trovano  in  crisi  da  molto  tempo  prima  che  gli  europei  se  ne  rendessero  conto.  Kennedy  fu  eletto  presidente  sulla  base  di  una  piattaforma  bellicista.  Appena  eletto  denunciò  la  crisi  nel  suo  messaggio  inaugurale  del  1961:  “L’attuale  stato  della  nostra  economia  è  preoccupante.  Assumo  l’ufficio  sulla  scia  di  sette  mesi  di  recessione,  di  tre  anni  e  mezzo di  economia  fiacca,  di  sette  anni  di  sviluppo  ridotto,  e  di  nove  anni  di  caduta  del  reddito  agricolo..  A  parte  un  breve  periodo  del  1958,  la  disoccupazione  registrata  è  la  più  alta  della  nostra  storia.  Dei  cinque  milioni  e mezzo  di  americani  che  sono  senza  lavoro,  più  di  un  milione  sono  circa  di  un  posto  di  lavoro  da  più  di  quattro  mesi…  in  breve  l’economia  americana  è  nei  guai.  Il  più  ricco  paese  industrializzato  del  mondo  è  quello  che  ha  il  minore  tasso  di  sviluppo  economico”.

Negli  anni  ’60  vi  fu  un  grande  aumento  della  produzione  negli  USA.  La  politica  adottata  fu  quella  del  “burro  e  cannoni”  cioè  iniziare  la  Guerra  del  Vietnam,  finanziare  la  corsa  per  la  conquista  dello  spazio  e  nello  stesso  tempo  finanziare  alcune  spese  sociali.  Questo  portò  a  un  aumento  vertiginoso  della  spesa pubblica 

 

 

PRINCIPALI  DATI  DELL’ECONOMIA  AMERICANA  DAL  1960  AL  1971 - 

Medie  annue  dei  trienni,  in  miliardi  di  dollari

                       Spesa  pubblica                      Investimenti  privati  all’estero

 

 

Trienni         Totale     Militare   Non  militare      Diretti      Di  portafoglio

 

1960-62          108,1      48,1        60,0                   0,15          0,8

 

 

1963-65          129,4     50,3       79,1                     2,6            0,8

 

 

1966-69          178,8    70,5        108,3                   3.3            1,0

 

 

1969-71          221,3    74,9         146,4                   4,2           1,2

 

 

L’incremento  della  spesa  statale  degli  anni  ’60  sfociò  negli  anni ’70 nel  deficit  pubblico.  Così  testimoniava  di  fronte  al  Sottocomitato  sulla  Finanza Internazionale  e  sulle  Risorse  della  Commissione Finanze  del  Senato  Americano  Dewen  Daane,  membro  del  Consiglio  dei  Governatori  del  Federal  Riserve  System  il  30  maggio  1973:  “L’anno  scorso  (il  1972)  come  sapete  abbiamo  avuto  un  deficit  commerciale  di  7  miliardi  di  dollari  e  un  deficit  delle  partite  correnti  e  dei  movimenti  di  capitale  di  lungo  termine  di  più  di  9  miliardi  di  dollari”.

Inoltre,  la  maggiore  produttività  dell’Eiropa  e  del  Giappone  rispetto  agli  USA  negli  ’50  e  ’60  modificò  profondamente  i  rapporti  di  forza  economici tra  i  paesi  capitalisti  e  portò  alla  disgregazione  del  sistema  monetario  internazionale  stabilito  nel  1944  a  Bretton  Wood.

La  produttività  degli  USA  è,  infatti  calata  dal  3,2%  medio  annuo  del  1946-1968  all’1,9%  del  1968-1972  (e  allo  0,7%  del  1972-1979),  mentre  l’Europa  e  il  Giappone  mantenevano,  in  generale  tassi  di  sviluppo  più  alti  di  quelli  americani.  Le  quote  di  mercato  perse  dagli  USA (meno  23%  negli  anni  ’70  rispetto  agli  anni  ’60)  sono  state conquistate  quasi  per  intero  dalla  Germania  Federale  e  dal  Giappone.

 

La  corsa al  riarmo  negli  anni ’80.

 

Il  manifestarsi  della  crisi  capitalista  negli  anni  ’70  comportò  un  aumento dell’aggressività  dell’imperialismo  americano,  in  particolare  nel  confronti  dei  paesi socialisti e  dei  paesi  che  tentavano di  liberarsi  dal  gioco  imperialista  (come  il  Nicaragua,  l’Angola ecc.).

Gli  anni  ’80  furono  caratterizzati  da  un’enorme  spesa  militare  degli  USA.  L’amministrazione  Reagan  spese  per  un  totale  di  2.200  miliardi  di  dollari  per  il  settore  militare,  e  nel  1984  superò  il  bilancio  militare  del  1969, l’anno  di  massima  spesa  per  la  Guerra  del  Vietnam.  Mai  sino  allora  il  bilancio  militare  statunitense  aveva  registrato  un  aumento  del  50%  in  periodo  di  pace.

Circa  il  50%  dei  fondi  destinati  dal  Pentagono  all’acquisto  di  armamenti  era  andato  ai  20  maggiori  contrattisti,  che  avevano  monopolizzato  la  produzione  dei  più  dei  più  importanti  sistemi.  Si  era  così  consolidato  ulteriormente  il  monopolio  che  i  colossi  dell’industria  avevano  costruito  negli  ultimi  decenni.  Alcune  esempi:  la  General  Dynamics  aveva  ricevuto  il  contratto  per  la  produzione  dei  cacciabombardieri  F-111  nel  1962,  quando  era  stata  cancellata  la  produzione  dei  B.58 e,  una  volta terminata  la  produzione  degli  F-111,  aveva  ricevuto  nel  1974  il  contratto  per  la  costruzione  dei  cacciabombardieri  F.14.  Alla  McDonnel  Douglas,  una  volta  cessata  la  produzione  degli  F-14,  era  andata  nella  1970  il  contratto  per  la  produzione  degli  F-15.  Alla  Lookhed il  contratto  per  gli  aerei  di  trasporto  C.54,  una  volta  cessata  la  produzione  dei  C.141.  Inoltre,  la  Loockehed  per  trent’anni  aveva  fornito  alla  Marina  tutti  i  missili  balistici  dei  sottomarini  dai  Polaris  ai  Poseidon,  dai Trident I  ai  Trident  II. 

I  costi  principali  sistemi d’arma  avevano  continuato  a  crescere,  superando  le  previsioni  di  bilancio.  Il  bombardiere  Stealth  B-2,  prodotto  dalla  Northorop,  aveva  raggiunto  il  costo  di  circa  600  miliardi  di  dollari  (all’incirca  700  miliardi  di  lire  dell’epoca)  e  l’Aeronautica  ne  chiedeva  172  per  un  costo  complessivo  di  75  miliardi  di  dollari.

Rilevava  la  rivista  “Time” del  27/02/88  in  un  servizio  intitolato  “Il  pentagono  in  vendita”:  “Spendendo  160  miliardi  di  dollari  l’anno  in  colossali  forniture  il  Dipartimento  della  Difesa  statunitense  è  divenuto  la  più  grande  e  importante  impresa  d’affari  del  mondo”. 

Nel  1983  fu  varato  il  programma  denominato  Iniziativa  di  Difesa Strategica  (S.D.I.).  Originalmente  tale  progetto  prevedeva  la  realizzazione  di  un  complesso  sistema  a  tre  stadi,  noto  come  “scudo  spaziale”  capace  di  intercettare  i  missili  balistici  intercontinentali (I.C.B.M. =  Intercontinental  Ballistic  Missile)  con  base  di  lancio  a  terra  con  base  di  lancio  a  terra  e  i  missili  balistici  con  base  di  lancio  sottomarina  (S.L.B.M. =  Submarine Launche  Missile)  e  le  loro  testate  nucleari,  durante  tutte  le  fasi  della  loro  traiettoria. 

L’architettura  della  SDI  prevedeva  una  serie  di  piattaforme,  dotate  di  vari  tipi  di  sensori  e  armi,  e  sistemi  di  intercettazione  con  base  a  terra:  alcune  piattaforme  avrebbero  avuto  la  funzione  di  identificare  e  tracciare  i  missili  in  fase  di  lancio,  elaborare  con  i  computer  di  bordo  i  dati  per  la  loro  intercettazione;  altre,  la  funzione  di distruggere  i  missili,  nella  prima  e  seconda  fase,  con  armi  a  energia  diretta  (raggi  X,  fasci  di  particelle  neutre);  altre,  la  funzione  di  distruggere  i  veicoli  di  rientro,  nella  terza  e  quarta  fase,  con  armi  a  energia  cinetica  (missili  intercettori  con guida  terminale,  lanciati  da  piattaforme orbitanti  o  da  rampe  a  terra).

Da  parte  di  molti  scienziati  e  esperti  di  questioni  strategiche,  si  metteva  in  evidenza  che  uno  stato  in  possesso  di  uno  “scudo  spaziale”,  anche  se  imperfetto,  avrebbe  potuto  lanciare  un  attacco  nucleare  di  sorpresa,  sapendo  che  lo  “scudo”  sarebbe  stato  in  grado  di  neutralizzare  uno  scoordinato  colpo  di  rappresaglia.  Inoltre,  le  armi  ad  energia  cinetica,  che  apparivano  le  più  fattibili  per  uno  spiegamento  a  breve termine rispetto  a  quelle  a  energia  diretta,  avrebbero  potuto  essere  usate  per  distruggere  i  satelliti  militari  dell’avversario  che,  “accecato”,  sarebbe  stato  più  vulnerabile  in  un  attacco  nucleare. 

I  circa  300  satelliti  attivi,  dei  170  sono  militari  (dati  del  1991  tratti  dal  libro  “Tempesta  del  deserto”  di  D. Bovet -  M. Dinucci,  edizioni  ECP)  svolgono  importantissime  funzioni  militari  e  civili:  tra  quelle  militari  vi  sono  la  raccolta  di  informazioni,  le  comunicazioni,  l’allarme  precoce  contro un  attacco  ecc. Costituiscono  quindi  un  sistema  nevralgico  di  primaria  importanza.  Le  prime  armi  anti-satellite (ASAT  =  Anti-Satellite)  sono  state  costruite  e  sperimentate  negli  Stati  Uniti  nel  1959,  quelle  sovietiche  nel  1969;  da  allora  i  programmi  ASAT  sono  proseguite. 

 

Le  conseguenze  economiche  e  sociali  della  politica  di  riarmo  negli  anni ‘80

 

Uno  degli  effetti della  spesa  militare  sull’economia  statunitense  negli  anni  ’80  è  stato  il  fenomeno  del  rigonfiamento  artificiale  dei  costi:  essendo  divenuto  il  Dipartimento  della  Difesa  uno  dei  principali  acquirenti  di  macchine  utensili  e  uno  dei  maggiori  promotori  di  ricerca e  sviluppo,  la  sua  disponibilità  di  mezzi  di  pagamento  aveva  contagiato  l’intera  industria  delle  macchine  utensili,  inducendo  una  lievitazione  dei  prezzi  del  settore,  con  la  conseguenza  di  una  perdita  di  competitività,  una  minore  propensione  agli  investimenti  e  la  perdita  di  posti  di  lavoro nell’industria. (4°)

Con  un  deficit  del  bilancio  federale  che  alla  metà  degli  anni  ’80  superava  già  i  100  miliardi  di  dollari  annui,  l’amministrazione  Reagan  ricorse  ai  mercati  finanziari  internazionali  e,  per  attirare  negli  USA  capitali  stranieri,  operò un  elevamento  dei  tassi  di  interesse:  questo  richiamò  negli  USA  capitali  crescenti,  soprattutto  europei e  giapponesi,  ma  la  maggiore  domanda  di  dollari  sui  mercati  valutari  faceva  salire  la  quotazione  della  moneta  statunitense,  con  la  conseguenza  che  molti  prodotti  statunitensi, come  le  macchine  utensili,  tessili  e  agricole divenivano  meno  competitivi. Dato  che  per le  stesse  aziende  statunitensi diveniva  più  conveniente  importare  tale  prodotti,  il  deficit  della  bilancia  commerciale  degli  Stati  Uniti  cresceva  fino  a  superare  i  150  miliardi  di  dollari  annui poco  dopo  la  metà  degli  anni  ’80.  Il  peso  della crisi  ricadeva  su  ampi  settori  dell’economia  interna.  L’industria  manifatturiera perdeva  nel  periodo  1980-85  2.300.000  posti  di  lavoro  (International  Herald  Tribune  10.06.85),  93.000  aziende  agricole  -  informava  il  Dipartimento  dell’Agricoltura (“The  Associated Press”  del  11/03/85)  erano  insolventi  o  sull’orlo  del  fallimento  e  ciò  provocava  il  fallimento  di  centinaia  di  banche  agricole.  Ampi  strati  della  popolazione,  colpiti  dalla  crisi  economica  e  dal  taglio  della  spesa  pubblica,  vedevano  peggiorare  la  loro  situazione,  mentre  aumentava  il  numero  dei  disoccupati,  dei  senzatetto,  degli  emarginati.

Documentava  la  rivista  Time  del  10.10.88:  “Dal  1977  al  1988  il  reddito  delle famiglie  che  costituivano  il  20  per  cento  più  povero  della  popolazione,  calcolata al  netto dell’inflazione,  è  calato  di  oltre  il  10  per  cento.  Il  numero  di  persone  che  vivono  al  di  sotto  della  linea  di  povertà.  Sceso  dai  40  milioni  del  1960  ai  23  milioni  scarsi  nel  1973,  è  risalito  a  35  milioni  nel  1983,  restando  da  allora  tale  livello.  Nel  frattempo,  per  l’1 per  cento  più  ricco  di  tutte  le  famiglie,  il  reddito  è  salito  vertiginosamente  dal  ’74,  da  174.000  dollari  a  304.000  dollari  l’anno.  Dice  il  democratico  californiano  George Miller,  membro  del  Congresso  e  Presidente  di  comitato  che  si  occupa  dei  problemi  delle  famiglie:  “Stiamo  creando  qualcosa  che  somiglia  a  un  manubrio  per  il  sollevamento  dei  pesi:  i  poveri  sono  più  poveri  e  c’è  ne  sempre  di  più.  I  ricchi  sono  più  ricchi  e  c’è  ne  sempre  di  più.  E  la  classe  media?  Dato  che  una  sua  parte  cade  in  povertà  un’altra  si  arricchisce,  essa  si  sta  restringendo”

Il  deficit  di  bilancio  da  150  a  oltre  150  miliardi  di  dollari  annui  (Newsweek,  15/10/90),  il  debito  federale  è  arrivato  nel  1990  a  12.409  dollari  per  abitante rispetto  ai  3.889  dollari  di  dieci  anni  prima  (Time  del  15/10/90),  un  indebitamento  pubblico  e  privato  complessivo  tale  da  rendere  il  debito  pro-capite  statunitense  70 volte  maggiore  di  quello  del  Terzo  Mondo. 

Scriveva  W. Pfaff  sul  Los  Angeles  Times  del  30/11/91:

“L’indebitamento  e  il  relativo  declino  della  competitività  degli  Stati  Uniti  diminuiscono  la  capacità  di  leadership. La  leadership  globale   degli  Stati  Uniti  oggi  si  basa  fondamentalmente sulla  loro  potenza  militare”.

 

Il  commercio  mondiale  delle  armi. 

 

Verso  la  fine  degli  anni  ’60,  la  Guerra  del  Vietnam  e  l’insieme  degli  impegni  mondiali  presero  a  gravare  in  maniera sempre  più  pesante  sulle  risorse  degli  Stati  Uniti,  dando  il  loro  contributo  all’inflazione  e  al  disavanzo  della  bilancia  dei  pagamenti.  In  questo  contesto  vendere  armi  all’estero  e  venderne  il  più  possibile,  si  configurò come  il  tentativo  di  “scaricare”  all’estero  una  parte  delle  difficoltà  interne  dell’economia  americana,  tentativo  che  non  poteva  non essere  favorito  dal  consolidamento  delle  economie  dell’Europa  e  del  Giappone  e  dal  rapido  arricchimento,  dopo  il  1973,  dei  paesi  produttori  di  petrolio  del  Medio  Oriente.  Così  alla  fine  degli  anni ’60 il Pentagono prese a impegnarsi in  un aggressiva  politica  di vendite  militari  all’estero.

A  metà  degli  anni ’60  il  ricavato  delle  vendite  di  armi  era  sul  miliardo  di  dollari annui,  a  metà  degli  anni ’70  era  salito  sui  10 miliardi di  dollari  annui,  nel  1980  aveva  raggiunto  i  15  miliardi di  dollari  annui.  Se  il  contributo  alla  riduzione  del  disavanzo della  bilancia  dei  pagamenti  fu  uno  dei  motivi  che  indussero  il  ministero  degli  USA a  prendere l’iniziativa  della  vendita  di  armi,  esistevano  agli  inizi  degli  anni ’70  altri  motivi. Le  imprese  produttrici  si  trovavano  in  quel  periodo  con  una  notevole  capacità  in  eccesso  per  effetto  dell’imponente  domanda  di  armi  verificatosi  durante  la  Guerra  del  Vietnam; grazie  ad  essa,  infatti  sia  l’occupazione  sia  la  capacità  produttiva  militare  si  erano  espanse rapidamente.  Ma  quando,  verso  la  fine  della  guerra,  quella  domanda diminuì rapidamente,  le  imprese  impegnate  nella  produzione  militare  riuscirono  a  ridurre  l’occupazione,  ma  non  ridussero  la  capacità produttiva. 

Nel  quadro  della  crescente  instabilità  internazionale,  tutti  i  principali  paesi  del  Medio oriente  utilizzarono  i  maggiori  introiti per  acquistare  armi  nell’intento di  costituirsi  come  potenza  militare  regionale. I  dati  parlano  chiaro: nel  1991  l’Arabia  Saudita  ha  chiesto  di  poter  acquistare  armamenti  dagli  Stati Uniti per  20 miliardi  di  dollari. Contemporaneamente  Israele ha  rivendicato  maggiore assistenza militare da  parte  statunitense.  L’Egitto,  dal  canto  suo  ha  subordinato  il  suo  appoggio  militare  all’operazione “Tempesta  del  Deserto”  ad  una  fornitura statunitense per  un  valore  di  6  miliardi  di  dollari.  Tutto  questo  ha  reso  effervescente il  mercato  clandestino delle  armi  e  alimentato  gli  scambi  petrolio-armi realizzati  a  livello  internazionale  sfruttando le  triangolazioni finanziarie e  commerciali.

Di  fatto,  il  meccanismo petrolio-armi  si  era  già  attivato  da  molto  tempo.  Del  resto,  molte  importanti  banche  probabilmente  evitano  il  tracollo  anche  grazie a  questi  meccanismi;  infatti,  la  “stabilità istituzionale”  di  molte banche sembra  discutibile,  quando  esaminando  i  crediti  concessi  a  paesi  del  Terzo Mondo.  Se  si  confrontano  i  loro  prestiti  con  il  loro  capitale,  si  trova  che  nel  1984  tutte  le  nove  maggiori banche  statunitensi avevano  collocato  prestiti  ai  Messico, Brasile,  Argentina  e  Venezuela per  un  ammontare  superiore al  loro  capitale netto.

Solamente  una  di  esse le  supera,  la  britannica Lyods,  che  nel  1984  aveva  impegnato  in  prestiti  a  questi  quattro  debitori il  165%  del  suo  capitale,  mentre  la  Midland le  batteva  tutte  con  un  vertiginoso 205%.

Viceversa,  la  banca  americana  con  il  maggiore  scoperto,  la  Manufactures  Hannover, nel  1984  doveva  farsi  rimborsare dai  maggiori  debitori  “solamente”  il  173%  del  suo  capitale.

Nel  periodo  compreso  tra  il  1980  e  il  1989,  l’ammontare  complessivo  delle  esportazioni  petrolifere dei paesi  arabi dell’OPEC questi  paesi  hanno  investito  il  38%  delle  loro  rendite  in  petroldollari nell’acquisto di  armamenti per  un  totale  di  426  miliardi  di  dollari. Il  solo  Iraq,  nel  decennio  considerato,  ha  acquistato  grandi  sistemi  d’arma  per  un  ammontare  di  25  miliardi di  dollari,  cifra  che  non  computa gli  acquisti irakeni  di  attrezzature  militari  di  supporto,  delle  munizioni  e  delle.  Nel  periodo  1971-1985  Iraq, Iran,  Arabia  Sudita,  Kuwait,  Emirati Arabi Uniti,  Qatar  e  Baharain  hanno  assorbito  il  23,2%  delle  esportazioni  totali  dei  maggiori  sistemi  d’arma  verso  i  paesi  del  Terzo Mondo.

 

La  prima  Guerra  del  Golfo  (1991)

 

Sono  state  diverse le  cause  che  hanno  scatenato  la  Guerra del  Golfo del  1991.  Una  di  queste  è  stata  l’esigenza  dell’imperialismo USA  di  riprendere  sotto  controllo l’Iraq,  che  cercava   di  diventare  uno  dei  più  grandi  produttori  mondiali  conquistando  militarmente  i  pozzi  di    del  Kuwait  (cosa  che  gli  avrebbe  permesso  di  influire  sul  prezzo  del  mercato  mondiale  del  petrolio).

Il  prezzo  del  petrolio  ha  avuto  una  storia  relativamente  tranquilla  dalla  seconda metà  dell’ottocento  fino  ai  primi  anni  ‘7°  del  XX° secolo  quando,  i  6  paesi  del  Golfo  membri  del  Golfo  fecero  raddoppiare  il  prezzo  medio  del  greggio,  portandolo  a  superare  per  la  prima  volta  i  10  dollari  a  barile.  L’aumento  del  costo  del  barile significava  da  un  lato,  un  fetta  più  grossa  per  gli  “sceicchi”  (ovvero  la casta  semifeudale  dominante  nei  paesi  arabi,  per  lo  più  legata  all’imperialismo americano) e  dall’altro,  costi  di  produzione  maggiori  per  gli  europei  e  i  giapponesi,  più  dipendenti  dalle  importazioni  petrolifere  che  non  gli  U.S.A. (le  cui  merci  guadagnarono  di  fatto  in  competitività  nella  concorrenza sul  mercato  mondiale).  Intanto  la  nazionalizzazione  delle  compagnie  petrolifere attuata  in  alcuni  paesi  arabi (quali  l’Algeria  e  la  Libia)  e  l’embargo  selettivo  sull’export di  petrolio  attuato  verso  gli  U.S.A. e i  paesi  europei  sostenitori  di  Israele,  il  mondo  arabo  iniziava  a  scrollarsi  di  dosso,  il  sistema   di  saccheggio  impostogli  dall’imperialismo.  Si  manifestava  così  pure  a  questo  livello  la  forza  raggiunta  dal  moto  nazionalrivoluzionario d’Asia  e  d’Africa  che  l’insurrezione  iraniana  del  1979  ravvivò.  (5°)

L’aumento  del  prezzo  del  petrolio  (quintuplicato  in  due  anni  e  poi  raddoppiato nei  successivi  8 – 9  anni)  concorse  con  il  ciclo  mondiale  delle  lotte  operaie del 1969-1972  ad  accrescere  i  costi  di  produzione  dei  capitalisti  europei  e  giapponesi  nel  momento  in  cui  finiva  un  trentennio  di  sviluppo  e  più  acuto  diventava  il  bisogno  del  capitale  ad  abbassare  i  costi  di  produzione.

Nei  25  anni  successivi  al  1973,  prese  corpo  la  controffensiva  dei  paesi  imperialisti  tesa  a ridurre  la  rendita  petrolifera e  il  potere politico-economico dell’OPEC.  Le  conseguenze  si  sono  viste: l’OPEC è  stata  in  sostanza  ridimensionata. L’Iraq è  stato  scagliato  con  l’Iran.  La  Libia,  il Sudan  e  la  Siria sono  stati  continuamente  sotto  tiro.  E  infine  nel  1991  arrivò  la  micidiale  operazione  contro l’Iraq.

La  guerra  del  golfo  fu  necessaria  all’imperialismo  U.S.A. per  riprendere sotto  controllo  il  costo  del  petrolio.  Ed  è  esattamente  quel  che  è  successo  dopo  la  distruzione  dell’Iraq  se  è vero  che  in  “termini  reali  in  dollari  del  1973,  il  prezzo  medio  del  greggio  OPEC  è  risultato,  nei  primi  mesi  del  1998 a  3,81 dollari  a  barile,  è  cioè  circa  un  terzo soltanto  di  quello  che  era  il  suo  prezzo storico  del  1982 (9,87 dollari  a  barile). (“Arabians Trends” dicembre  1998).  Se  si  considera  che  un  barile  e  poco  meno  di  160 litri,  questo  vuol  dire  che  il  greggio,  il  primo  motore  dell’industria,  dei  trasporti  e  della  vita  urbana del mondo  intero, viene  attualmente a  costare  ai  paesi  imperialisti  non  più  di  40/100  lire  a  litro.

Questa  rapina  è  vitale  per  gli  imperialisti  americani (che  sono  i  massimi  consumatori  mondiali  di  energia  per  usi  industriali  e  domestici)  in  quanto  consente  loro,  di  conservare un  livello  di  consumi  interni  altrimenti  impossibile  data  la  contrazione  del  potere  d’acquisto  dei  salari.  E’  anche  attraverso  i  proventi  di  questa  rapina  che  i  paesi  imperialisti  cercano  di  evitare  la  recessione, preservare  la  pace  sociale (6°)  e  finanziare  gli  eserciti  che  devono  terrorizzare  le  masse  sfruttate  delle  “periferie”  mondiale.

Un’altra  causa  della  Guerra  del  Golfo  è  stata  rappresentata  dalla  necessità  dell’imperialismo U.S.A. di  controllare  manu-militare il  Golfo per  indirizzare  il  flusso  dei  petroldollari verso  il  mercato  finanziario  americano. Gli  U.S.A. possono  così  sottrarre ai  paesi  europei  e  ai  giapponesi una  notevole  quantità  di  capitali  finanziari,  riequilibrando temporaneamente la  loro  disastrosa  situazione  debitoria   dei  partner  europei  e  giapponesi.

La  Guerra  del  Golfo stata  la  prima  applicazione  della  teoria  denominata M.I.C. (Mid  Intensity Conflict).  Questa  teoria  è  nata  con  la  fine  della  “Guerra Fredda” dalla  necessità  di  mutare  la  dottrina  strategico-tattica in  conseguenza  del  crollo  dell’U.R.S.S.

Il  New  York  Times del  07/02/’90 riportava   la  notizia  che  il  Sottosegretario   alla Difesa  Dick  Cheney  aveva  predisposto  un  documento  programmatico  che  stabiliva  le  regole  dell’impiego  del  potenziale  militare U.S.A. nel  periodo  1992-1997:  in  tale  documento  si  raccomandava  di  porre  l’accento  sull’eventualità  di  conflitti  armati con  potenze  regionali  quali  Siria  e  l’Iraq.  La  dottrina  del  M.I.C. presuppone  a  livello  militare  l’impiego  di  forze  di  rapido  intervento,  armate  dei  nuovi  mezzi,  potenti  e  flessibili,  risultato  dell’applicazione  della  tecnologia avanzata  ai  mezzi  di  distruzione.

Questa  dottrina  ha  imposto  alle  forze  armate  degli  Stati  Uniti  una  revisione  della  loro  strategia,  in  quanto  esse  erano  preparate  principalmente  ad  affrontare  un  conflitto  ad  Alta  Intensità,  ossia  una  guerra  fra  NATO  e  Patto  di Varsavia,  e  secondariamente un  conflitto  a Bassa  Intensità  contro  i  movimenti  di  liberazione  del  Terzo Mondo  (alcuni  esempi  di  applicazione  sono  stati,  nell’America  Centrale  degli  anni  ’80 in  Nicaragua, in  Salvador  e  nel  Guatemala).

E’  in  questo  periodo  che  assumeva  crescente  importanza,  per  la  “presenza  avanzata”  statunitense,  il  fianco  sud  della  NATO,  in  particolare  la  rete  di  basi  nel  meridione  d’Italia,  da  Gioia  del  Colla  a  Taranto,  da  La  Maddalena  a  Sigonella.   Tale  presenza,  costituita  da  forze  sia  convenzionali  che  nucleari,  sarebbe  stata  ulteriormente  potenziata,  come  confermavano  i  Ministri  della  Difesa  della  Nato  il  12  dicembre  1991.  Venuta meno la  “minaccia  dell’Est”  si  individuava  ora  la  “minaccia dal  Sud”  per  giustificare  soprattutto  il  potenziamento del  ruolo  strategico  del  meridione d’Italia,  naturale  base  di  lancio  e  supporto  degli  interventi  militari  in  Medio Oriente, Nord  Africa  e  nei Balcani. 

In  questo  quadro  si  inseriva  il  nuovo  modello  di  difesa  italiano,  presentato nel  novembre 1991.  Tenendo  conto  della  vulnerabilità dell’economia  italiana,  dipendente  dall’importazione di  materie prime  e  dall’approvvigionamento  petrolifero,  il  nuovo  modello  di  difesa  passato  dalla “Difesa  avanzata”  alla  “Presenza  avanzata  con  il  compito  aggiuntivo  di  “difendere gli  interessi  esterni  e  contribuire alla  sicurezza internazionale”  nelle  aree  di  crisi.

Il  nuovo  modello  di  difesa  richiede  un  esercito  più  professionale,  con  conseguente  riduzione  della  leva,  e  nuovi  armamenti:  dai  Tornado, dotati  di  nuove  capacità  di  interdizione  dei  sistemi  di  comunicazione e  delle  difese  aere nemiche,  a  una  seconda  miniportaerei con  aerei  a  decollo  verticale,  idonea  a  operare  in  aree lontane.

Inoltre  la  Guerra  del  Golfo  è  stata  un  banco  di  prova  delle  tecnologie  della  ricerca  militare  degli  anni  80,  pensiamo  alle  cosiddette  “bombe intelligenti”  o  agli  Scud  e  ai  Patriot;  infatti,  essa  ha  contribuito  a  rilanciare  l’iniziativa  della  Difesa  StRATEGICA  S.D.I. (le  cosiddette “Guerre Stellari”)  dando  nuovo  impulso  alla  ricerca  nel  settore  militare. La  Guerra  del  Golfo,  accrescendo  la  già enorme  spesa  militare  di  300  miliardi  di  dollari  annui  e  vanificando  con  il  rilancio  della  produzione  bellica  i  tagli  previsti  al bilancio  della  difesa,  aggravò  il  deficit  federale,  a  ulteriore  scapito  della  spesa  sociale  e  delle  condizioni  economiche  delle  fasce  più  povere  della  popolazione.

Riferiva  il  corrispondente  del  Corriere  della  Sera  in  un  articolo  del  02/11/’91 che  titolava “Una  situazione  così  pesante  non  si  ripeteva  dai  tempi  della  Guerra  del golfo”:  “La  settimana  di  lavoro  è  stata  più  corta  perché  la  produzione  ristagna,  le  richieste  di  sussidi  di  disoccupazione  sono  aumentate.  La  situazione  è  nera”. 

In  Francia  i  costi  della  Guerra  del  Golfo  venivano  calcolati  dal  giornale  l’Expansion  (Medicine  et   Guerre  Nuclèare  n.  2  1991)  in:  3 – 6  miliardi  di  franchi  quale  costo  dell’operazione  Daguet  ossia  la  partecipazione  delle  forze  armate  francesi  all’Operazione Tempesta  del Deserto,  5,5  miliardi  quale  perdita  delle  esportazioni  verso  il  Kuwait e  l’Iraq,  16  miliardi  quale  aggravio  delle  imposte  petrolifere,  40  miliardi  in  seguito  al  mancato  pagamento  di  debiti  da  parte  dell’Iraq;  60  miliardi  in  seguito  alla  mancata  esportazione  di  prodotti  francesi  nei  paesi  arabi:  50-100  miliardi  in  seguito  al  rallentamento  della  crescita  del prodotto  interno  lordo. 

Il  totale  delle  perdite  sono  state  circa  tra  i  175  e  oltre  i  227  miliardi  di  franchi,  per  compensare  il  deficit,  il  governo  decideva  una  serie  di  tagli  ai  bilanci  della  Sanità,  dell’Assistenza  sociale,  dell’Istruzione ed  altri  per  un  ammontare  valutato  di  30  miliardi  di  franchi.  L’unico  a  non  essere  intaccato  è  stato  il  bilancio  della  difesa,  che  era  già  forte  ascesa  con un  incremento  del  30%  destinato  alle  forze nucleari.

 

Le  spese  militari  U.S.A.  negli  anni ‘90

 

“Prevedo  di  rivedere  la  nostra  politica sugli  armamenti  e  di  affrontare  la  questione  con  l’altro  grande  Paese  venditore  di  armi  nell’ambito  di  uno  sforzo  a  lungo  termine  per  ridurre  la  proliferazione  delle  armi”.  Questa  fu  la  promessa  elettorale  di  Clinton in  fatto  di  armi,  a  Guerra  del  Golfo  appena  conclusa.

Ma  dopo  un  anno  di  presidenza  Clinton,  le  vendite  di  armi  erano  di  fatto  già  raddoppiate:  il  governo  USA   aveva  ritenuto  opportuno  non  contrastare  il  positivo  effetto  che  la  Guerra  del  Golfo  aveva  avuto  sull’economia  americana  attraverso  il  rilancio  delle  commesse  militari  (in  particolare  per  quanto  riguardava il  settore  aerospaziale,  l’elettronica,  l’informatica ecc.).

Dal  1993  al  1997  il  governo  statunitense  ha  venduto,  trattato  o  concesso  armi  per  l’equivalente  di  190  miliardi  di  dollari.  Per  riconoscenza,  l’industria  delle  armi  ha  finanziato  la  campagna  elettorale  1998  del  Partito Democratico  con  una  cifra che  si  aggira  sui  2  milioni  di  dollari.

Le esportazioni  mondiali  di  armamenti  costituiscono  una  percentuale molto  ridotta  della  produzione  globale  degli  armamenti:  meno  del  3%  della  produzione  di  armi  viene,  infatti  esportata.  Per  le  industrie  militari  U.S.A. (che  pure  raggiungono  il  55%  del  totale  mondiale)  le  esportazioni  di  armi  rappresentano  un  affare  minore  - anche  se  non  trascurabile  -  rispetto  alle  colossali  commesse  nazionali  assicurate  dal  Pentagono  (il  quartiere  generale  delle  forze  armate  americane).  Le  esportazioni  di  armi  -  al  di    del  valore  economico  -  hanno  comunque  anche  una  valenza  politica,  nel  senso  che  si  inseriscono  nella  strategia  complessiva  del  governo  U.S.A.  per  assicurare  condizioni  favorevoli  ai  profitti  delle  multinazionali  americane su  scala  mondiale (ad  esempio,  sia  l’amministrazione  Bush  S. sia,  in  seguito,  l’amministrazione Clinton  hanno  ampiamente  sfruttato  il  ruolo  preponderante  degli  U.S.A.  nella  vittoria  su  Saddam  Hussein  per  aumentare  la  quota  di  mercato  delle  compagnie  americane  in  Medio  Oriente  a  scapito  delle  compagnie  francesi  e  inglesi).

Passando  alle  spese  per  la  R&S  (ricerca  e  sviluppo)  militare,  tra  il  1992  ed  il  1995  gli  U.S.A.  hanno  speso  162  miliardi  di  dollari,  ossia  il  doppio  di  quanto  spendono  tutti  gli  altri  stati  (in  altri  termini,  circa  il  2/3 del  totale  mondiale).  Tale  cifra  spiega  e  riassume  il  predominio  mondiale  militare  degli  U.S.A.  a  livello  mondiale (almeno  nelle  guerre  convenzionali… non  ci  può  scordare  la  vittoriosa  guerra  di  liberazione  nazionale  del  Vietnam  sugli  imperialisti  americani e  l’attuale  pantano  iracheno  in  cui  si  sono  cacciati  gli  U.S.A  e  i  loro  alleati).

Nel  1997,  l’85%  delle  spese  mondiali  per  la  difesa  era  assicurata  da  22  paesi  “ad  alto  reddito”:  a  loro  volta  gli  U.S.A.  rappresentavano  il  50%  di  quella percentuale  (ovvero  generavano  il  42,5%  delle  spese  militari  mondiali).

Nei  primi  giorni  del  gennaio  1999,  in  un  discorso  per  radio  Clinton  annunciò  nuovi  stanziamenti  per  le  spese  militari  per  100  miliardi  di  dollari  nell’arco  di  6  anni  (circa  170  miliardi  di  lire  al  cambio  dell’epoca),  dichiarando  che  le  “forze  armate  meritano  un  riconoscimento  per  le  complesse  missioni  con  straordinaria  precisione,  come  il  recente  bombardamento  di  Baghdad”  (7°)

Si  trattava  del  massimo  incremento  del  bilancio  del  Pentagono  dal  1991 (8°):  il  24  marzo  1999  iniziò  la  guerra  di  aggressione  degli  imperialisti NATO/USA   e  europei nei  confronti  della  Repubblica Federale Jugoslava.  (9°)

I  bombardamenti  sulla  Jugoslavia,  effettuati  quasi  esclusivamente  con  materiali  bellici  americani;  hanno  comportato  il  consumo  di  circa  la  metà  dell’arsenale NATO;  conseguentemente,  è  iniziato  un  nuovo  ciclo  di  commesse  miliardarie  (in dollari)  per  il  complesso  militare-industriale  americano,  che  ha  funzionato  da  volano  per  l’intera  economia  U.S.A. allontanando  lo  spettro  del  ristagno  paventato  dagli  economisti borghesi per  il  secondo  semestre  del  1999.

 

Crisi  economica,  necessità  dell’integrazione  europea  e  riarmo

 

Una  delle  conseguenze  della  crisi  economica  è  l’esasperazione della  concorrenza,  per  decidere  che  debba  fare  le  spese  dell’eccedenza  del  capitale (10°),  essendo  l’attuale  crisi  economica  una  crisi  di  sovrapproduzione  di  capitale.  La  causa  di  essa  sta  nel  fatto  che  nell’ambito  del  modo  di  produzione  capitalistico  a  un  certo  punto  si  crea  un  conflitto inconciliabile tra  la  produzione  di  plusvalore  e  la  realizzazione  del  valore  prodotto.  I  capitalisti  dovrebbero  investire  tutto  il  plusvalore  estorto,  anche  così  facendo  il  tasso  di  profitto  diminuisce  o    non  aumenta (11°).  Se  i  profitti  attesi  non  aumentano o  diminuiscono,  i  capitalisti  cessano  l’accumulazione,  con  la  conseguenza di  non valorizzare  tutto  il  plusvalore  estorto.  Diminuisce  il  capitale  impegnato  nella  produzione e  aumenta  il  capitale  impegnato  nella  sfera  finanziaria che  diventa  la  parte  più  grande  del  capitale  (si  pensi  che  secondo  stime  correnti  il  mercato  dei  titoli  aveva  raggiunto  nel  1994  i  14.000  miliardi  di  dollari  U.S.A.,  ossia  il  doppio  del  P.I.L.  che  aveva  all’epoca  gli  U.S.A.).  Il  capitale  finanziario  tende  a  crescere  e  la  crisi  assume  la  veste  di  crisi  finanziaria.  I  movimenti  propri  del  sistema  finanziario diventano  essi  stessi  un’ulteriore  fattore  di  sconvolgimento  del  capitale  impegnato  nella  produzione  di  merci  e  una  via  attraverso  cui  la  crisi  compie  il  suo  cammino.

Ne  deriva  un’enorme  accelerazione  del  processo  di  concentrazione  dei  capitale  che  tentano  di  raggiungere  la  “massa  critica”  indispensabile  per  reggere  lo  scontro  con  i  concorrenti (11°).  Tale  processo,  nel  corso  degli  ultimi  anni,  ha  trovato  una  proiezione nello  sforzo  di  ciascuna  grande  potenza  imperialistica di  costituire  aree economiche  integrate,  al  cui  interno  si  cerca  di  portar e al  minimo  la  concorrenza  tra  i  capitali,  in  modo  da  concentrare  i  propri  sforzi  nella  lotta  contro  i  concorrenti  esterni.  In  tal  senso  si  sono  mossi  gli  U.S.A.,  che  hanno  cercato  attraverso  il  Nafta  di  costituire  un’area  di  libero  scambio.  Allo  stesso  modo  il  Giappone,  il  secondo  grane  polo  imperialista,  si  muove  da  tempo  per  sottomettere  alla  propria  influenza  un’area  del  Pacifico  dai  confini  sempre  più  ampi  e  che  rappresenta  un  punto  focale  dello  scontro  interimperialistico. 

Confrontarsi  con  queste  due  aree  a  dominanza  giapponese  e  statunitense è  divenuto  impossibile  senza  gettare  sul  piatto  della  bilancia  un  potenziale  economico  del  medesimo  ordine  di  grandezza:  i  paesi  europei,  con  la  Germania  in  prima  fila  debbono  quindi  abbandonare  ogni  ambizione  di  contare  nelle  relazioni  internazionali  per  la  lotta per  la  supremazia  se  continueranno  ad  agire  in  ordine  sparso  senza  avere,  presi  singolarmente,  una  capacità  economica  paragonabile  a  quella  dei  concorrenti.  Dentro  questo  quadro  dei  rapporti  mondiali  sta  quindi  l’esigenza  materiale  dell’integrazione europea. 

Nella  concorrenza  con  l’imperialismo  U.S.A.,  i  paesi  imperialisti  europei  si  stanno  dotando  di  mezzi  adeguati  per  avere  una  voce  in  capitolo  sulle  questioni  internazionali,  soprattutto  dopo  la  guerra  contro  la  Jugoslavia,  che  è  stata  per  i  governi  europei  un  vero  e  proprio  schiaffo  militare oltre  che  politico,  in  quanto  lo  strapotere  della  forza  militare  americana  rispetto  a  quello  europea è  risultata  schiacciante agli  occhi  dei  vari  governi  europei  che  si  sono  accodati  all’imperialismo  U.S.A. nell’aggressione  alla  Jugoslavia.

Nel  vertice  di  Helsinki  che  si  tenne  il  10  e  11  dicembre  1999,  il  Consiglio  Europeo,  prese la  decisione  di  creare  un  corpo  d’armata  totalmente  europeo. 

Per  permettere  lo  svilupparsi  di  questo  progetto,  occorre  un  incremento  dei  fondi  destinati  alla  ricerca  e  allo  sviluppo  per  l’ammodernamento  degli  eserciti.

Conseguentemente  a  queste  decisioni  e  alla  guerra  contro  la  Jugoslavia le  maggiori  industrie  europee  stanno  facendo  affari  d’oro: il  gruppo  tedesco-statunitense  Daimler Chrysler Areospace (DASA)  e  quello  francese  Areospatiale-Matai  hanno  dato  vita  alla  EDAS  (European  Atronautic Defense  and  Space)  un  colosso  che  vale  un  fatturato  potenziale  di  oltre  25  miliardi  di  dollari,  il  primo  in  Europa  e  terzo  al  mondo.  Poi  c’è  la  costituzione  di  Astrium  che  rappresenta  il  matrimonio  tra  la  stessa  Dailmer e  la  franco-britannica  Matra Marconi  Euro,  che  dovrebbe  operare  nel  comparto  spaziale.

Il  progetto  Eurodifesa  quindi  è  avviato  dal  punto  di  vista  politico  e  economico:  il  problema  principale  dal  punto  di  vista  militare  è  che  gli  eruppi  devono  fare  salti  mortali  per  raggiungere  o  quanto  meno  avvicinarsi  agli  standards  di  armamenti  dell’esercito  americano.

L’apparato  bellico  americano  risulta  sempre  il  più potente  che  c’è  nel  mondo:  alla  fine  degli  anni  ’90  possedeva  8.239  carri  armati,  26.000  mezzi  corazzati  di  vario  tipo,  5.703  pezzi  di  artiglieria,  4905  aerei  da  combattimento,  2.157  elicotteri  d’attacco.  234  navi  da  battaglia,  una  flotta  che  comprende  12  portaerei  e 138  corazzate  e  incrociatori.  A  tutto  bisogna  aggiungere  l’arsenale  nucleare:  33.550  ordigni  che  possono essere  lanciati  dai  sottomarini,  dalle  navi,  dagli  aerei  o  con  i  missili  balistici. 

Se si  confronta  queste  cifre  con  quelle  dei  paesi  europei  che  vogliono  creare  l’Europs  risulta  in  maniera  eclatante  la  supremazia  americana,  l’Italia,  Francia,  Gran  Bretagna,  Germania  e  Spagna  possono  mettere  assieme:  6495  carri  armati,  3.725  cannoni,  2032  aerei,  875  elicotteri  e  486  navi. 

 

Alcune  osservazioni  conclusive

 

Quanto  si  qui  esposto  conferma  che  più  aumenta  la  crisi: 

-          più  lo  stato  imperialista  dominante (gli  U.S.A.) diventa  aggressivo  per  cercare  di  mantenere  la  supremazia

politico-militare  mondiale  in  funzione  dei  profitti  delle  sue 

multinazionali.

-          più  aumentano  le  tensioni  tra  i  paesi  imperialisti  concorrenti 

per  assicurarsi  quote  di  profitto  sui  mercati  mondiali  e  più

la  guerra  commerciale  tra  gli  imperialisti  concorrenti  tende  a

a  trasformarsi  in  una  nuova  guerra  interimperialistica  per  la

spartizione  dei  mercati  mondiali.

Come  si  diceva  all’inizio,  la  guerra  rappresenta  una  valvola  di  sfogo  per  le  contraddizioni  del  modo  di  produzione  capitalistico,  poiché essa  distrugge  i  mezzi  di  produzione  (macchinari,  uomini  e  valore-capitale)  eccedenti    e,  quindi,  con tali  distruzioni  apre  la  strada  ad  un  nuovo  periodo  di  accumulazione  capitalistica.

Davanti  alla  tendenza  alla guerra  imperialista  sempre  presente,  compito  dei  comunisti  non è cero  propagandare    pacifismo  e    nonviolenza,  ma  dichiarare  guerra  alla  guerra,  alla  guerra  del  capitale  bisogna  opporre  la  guerra popolare   contro  esso,  per  la  sua  definitiva  eliminazione.

Per  questi  motivi  è  necessario  costruire  e rafforzare un Partito Comunista fondato sul marxismo-leninismo-maoismo che  è  l’unico  strumento  che  può  permettere  alla  classe  operaia  e  alle  masse  popolari  di trovare  una  via  di  uscita  positiva  dalla  crisi  generale  del  capitalismo,  in  direzione  del  socialismo. 

“O  la  rivoluzione  fermerà  la  guerra,  o  la  guerra  farà  sorgere  la  rivoluzione”  (Mao  Tsetung) 

Note 

  Negli  Stati  Uniti  tra  il  1936  e  il  1937  ci  furono  oltre  mille  occupazioni  di  fabbrica  con  la  partecipazione  di  mezzo  milione  di  operai  e  6912  scioperi  che  coinvolsero  1.861.000  operai.

  Merita  di  sottolineare  che  le  differenti  soluzioni  politiche  che  il  capitalismo  assunse  di  fronte  alla  crisi  degli  anni  ’30  (New  Deal  negli  Stati  Uniti,  Nazionalsocialismo  in  Geramnia)  erano,  caratterizzate dell’elemento  comune  dell’intervento  dello Stato  nell’economia.

3° Tutte  le  maggiori  aziende  tedesche  durante  la  Seconda Guerra Mondiale approfittarono  della  manodopera  dei  campi  di  concentramento per  ridurre  i  costi  di  produzione.

Ad  esempio  la  I.G. Farben  impiantò  ad  Auschwits  una  fabbrica  di  gomma  sintetica.

Secondo  la  storica  Anni Lacroix  Riz  dai  12  ai  14  milioni  di  lavoratori  stranieri  in  gran parte  ebrei  e  prigionieri  di guerra  sono  stati  utilizzati dalle  aziende tedesche  durante  la  Seconda  Guerra  Mondiale.

  La  lievitazione  artificiale  dei  prezzi  delle  industrie  produttrici  di  macchine  utensili  non  ha  fatto  altro,  in  realtà,  che  aggravar4e  una  situazione  dipendente  dalla più  elevata  composizione  organica  del  capitale  americano  e  dalla  conseguente  minore  competitività  delle  merci  americane  rispetto  ai  concorrente  europei  e  giapponesi.

  Questo  moto  fa  parte  di  un  processo  che  ha  visto  il  nostro  secolo  ricco  di  guerre  e  rivoluzioni  da  parte  delle  nazioni dipendenti  contro  il  dominio  dei  paesi  imperialisti.  La  lotta  antimperialista è  stata  sempre  (a  partire  dal  Messico  del  1911-1938  e  nell’Iran dalla  “rivoluzione costituzionale”   di  Mossaqued del  1951-1953  alla  rivoluzione del  1979)  parte  costituente  dello  scontro  di  classe  locale  e  internazionale.

Sull’importanza  delle rivoluzioni  nei  paesi  dipendenti  vedere  le  tesi  II°  Congresso  dell’Internazionale  Comunista del  1920,  che  mettono  in  evidenza  che  una  delle  caratteristiche  dell’imperialismo  consiste appunto nella  divisione  del  mondo  tra  una  minoranza  di  stati  oppressori  e  una  larga  maggioranza  di  stati  oppressi.

  Si  è  visto  cosa  è  successo  nell’estate  del  2000,  quando  il  greggio  ha  raggiunto  i  37  dollari  al  barile,  ci furono  proteste  in  tutta  Europa  dalla  Spagna  alla  Scandinavia,  con  blocchi  dei  porti (Barcellona),   scioperi  dei  camionisti,  dei  pescatori  ecc. 

  A  metà  del  1998,  in  una  sola  note  sulla  irakena  furono  scagliati  dalle  navi  americane  280  missili  Tomahawk,  tanti  quanti  quelli  scagliati  nella  prima  guerra  del  golfo.

  E  del  massimo  incremento  salariale  dal  1982  (quando  Reagan  iniziò  la  cosiddetta “deregulation”  dell’economia  americana).

  Bisogna  ricordarsi  che  lo  smembramento  della  Jugoslavia  iniziò  nei  primi  anni ’90,  dopo  che  il  Fondo  Monetario  Internazionale  -  di  fatto  controllato  dagli  U.S.A.  -  aveva  negato  alla  Repubblica  Federale  Jugoslava un  credito  di  grande  entità;  a  tale  diniego  fecero  infatti,  immediatamente  seguito  la  secessione  della  Slovenia  e  della  Croazia,  subito  riconosciute  dal  Vaticano  e  dalla  Germania.

10°  Diceva  Marx,  “Diminuzione  del  saggio  di  profitto  e  accumulazione  del  capitale  sono  semplicemente  diverse  manifestazioni  di  uno  stesso  processo:  ambedue  sono  manifestazioni  dell’aumento  della  produzione  del  lavoro” (Il  Capitale  Vol. 1°  Cap.  22).

11°  Il  plusvalore  viene  prodotto  solo  dal  lavoro  umano.  Tanto  più  alto  è  la  quota  di  macchine  e  di  investimenti  tecnologici  (il  capitale  costante)  nel  processo  di  produzione,  tanto  minore  è  il  tasso  di  profitto.  Dato  che  la  molla  del  processo  di  processo  di  produzione  capitalistico  è  il  profitto,  ogni  progresso  tecnologico  tende  a  trasformarsi  per  i  lavoratori  nel  suo  contrario:  invece  di  facilitare  il  lavoro  e  ridurre  la  fatica,  esso  porta  al  licenziamento  di  una  parte  dei  lavoratori e  a  un  aumento  dello  sfruttamento  per  coloro  che  restano,  “liberalizzazione” e  “flessibile”  sono  vocaboli  di  moda  in  questo  contesto. 

SACCHI  MARCO (scritto del 2000)

 

 

Sullo stesso argomento in questo sito: scritto di Paolo Dorigo dell’aprile 1982 (pdf, 37 pagine)