GIUSEPPE MAZZARIOL, BEPI
(da una Sua lettera a Paolo Dorigo), edizione 5, 19-11-2005:
Giuseppe
Mazzariol, per tutti Bepi, nel 1989, pochi mesi prima di morire sul bianco
biliardo
“Penso anch’io come pensi tu che non vi sia cultura degna di questo
nome senza una profonda adesione ai bisogni e alle aspirazioni degli uomini che lavorano, soffrono e sono soggetto primario di
storia”(link ad immagine opera di Armando Pizzinato)
“: la cultura come fatto elitario, isolato, decontestualizzato dal sociale è,
al meglio, un divertissement intelligente, seducente ma storicamente
inoperante; e spesso viene usato dal potere come alibi. Peraltro, il tradimento
dei chierici è oramai conosciuto come fatto ricorrente nella storia europea.”
Non mi interessa ciò che mi offende, ma ciò che amo e mi ama, questo
nell’arte e nei sentimenti. (e ciò che scrivo
posso sempre dimostrarlo)
Non è giusto né bello farsi belli sui
morti, ma neppure calunniare e subornare falsità. Un giorno in un caffè un
testa di cazzo che da anni aveva abbandonato ogni velleità rivoluzionaria, ma
di ciò non gliene facevo colpa, commentava con me il ricovero mortale di Bepi,
avvenuto a Padova per un semplice controllo (ma perché i compagni vanno sempre
negli ospedali delle città cattoliche ?
Armando Pizzinato a farsi forare il ginocchio sano, Bepi a fare un
controllo che si rileva un intervento al che muore in breve tempo). Vero è che mi lamentai anche del fatto che
dovevamo andare a vedere il Canova insieme, tra fine giugno e inizio luglio
1989 venne a trovarmi ai domiciliari, e sembrava sapesse che stavano per
liberarmi (una sentenza di Cassazione rendeva vano il richiamo alla
pericolosità del reato per impedirmi la libertà provvisoria dopo la
scarcerazione di tutti i coimputati); poche settimane prima aveva messo per
iscritto una dichiarazione, pareva sapesse che il testo critico che voleva
scrivermi per quella personale d’esordio che LUI voleva, perché io di esporre
non m’ero nemmeno immaginato, e m’era rimasta quella, così finì che quella
dichiarazione della sua scelta (cosa verissima) dei quadri da esporre, andò in
un catalogo fatto senza grandi pretese e costato 4 milioni di lire, certo non
finanziato da Assessorati o Fondazioni . . .
Sicchè questo testa di cazzo evidentemente
riportò la cosa in maniera sbagliata al critico che curava sul Gazzettino le
mostre, e finì che cercò di farmi passare per uno che speculava su una persona
morta e su una carta che serviva ad altri scopi (quali ? aspettavo la sentenza
di Cassazione, non certo una bonaria pacca sulla spalla dai miei nemici,
casomai quella carta sarebbe dovuta servire a chiedere al giudice istruttore da
parte di Bepi di potermi accompagnare, detenuto, alla mostra del Canova a
Verona).
Non portai avanti la faida, e non pensai
all’origine di questa tipica calunnia veneziana. Mi accontentai della
solidarietà di Emma e di Bianca, e dell’articolo che giustamente sulla Nuova
apparve con una precisazione giusta e veritiera, di Giulio Ghirardi, altra
persona che vale e che poco o nulla conta nella palude veneziana.
Avevo, è vero conosciuto Bepi perché era amico
di mio padre, ma fu Bepi, ad interessarsi a me e a solleticare la mia
sensibilità artistica, fu lui, e non io, a difendere il mio DIRITTO ad essere
aiutato a farmi un mestiere, quando qualcun altro in ambito familiare voleva
legare questa possibilità ad una impossibile abiura, e fu Bepi a venirmi a
trovare in diverse occasioni in detenzione, fu Bepi l’unico uomo che mi regalò
delle rose, e fu Bepi a discutere con me delle alte sfere della cultura
veneziana che non gli interessavano se non perché gli toccava in certe
occasioni, fu Bepi a far le scale di casa mia, malato di cuore, innumerevoli
volte, io ero ai domiciliari, quasi quasi ironicamente sembrava rischiare
d’incespicare con la sua sciarpa tutt’altro che formalmente rispettosa dei
valori istituzionali delle cariche che rivestiva. Era un compagno, insomma,
anche se principalmente un democratico, ed era compagno proprio perché era
democratico nella società emergenziale.
Venezia vive di turismo e di bigiotteria,
ed ha bisogno di artisti da comò.
Bepi per carità scriveva per molti, ma
comunque amava più la bellezza di ciò che spesso molti nascondono nei recessi
dell’interesse.
Non vi fu mai, da parte mia e nei suoi
confronti, come verso Armando, interesse pubblicitario, ma interesse a
discutere, conoscere (della guerra partigiana mi raccontavano loro senza
bisogno di chiedere, io li cercavo su cose che conoscevo meno, e l’ironia verso
le merde, nomi e cognomi, non la censuravano mai nei loro racconti), e
verificare la bontà o meno di certe mie ricerche con chi se ne intendeva. Vi
era però, e forse certuni fraintendevano con la solita malizia veneziana, una
specie di reverenza per certi luoghi, ove regna il silenzio e la luce, e che
son luoghi, pure fossero chiese, ove entro in punta di piedi.
Forse anche per questo m’è stata fatto
l’onore di permettermi di condurre in chiesa e fuori dalla chiesa, la sua bara.
Perché di uomini importanti non ne ho amati
che pochissimi, e Bepi era tra questi.
Lui, mi disse prima di recarsi sotto le
fatali mani dei medici, avrebbe scritto del mio dipingere in termini alti, e
qualificati eticamente e culturalmente, e in termini tecnici, avrebbe scritto
di “arte povera”, spiegandosi alla mia precedente contestazione epistolare, di
modo di farmi capire, a me profano militante approdato all’arte dopo almeno
quindici anni dai miei disegnini bimbi, ma non infantili nella loro
“formidabile fantasia”.