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Petrolchimico di Porto
Marghera: la sentenza del 15.12.2004 della corte d’appello di Venezia oggetto: centinaia di operai ammalati e
uccisi dal cvm/pvc presso il petrolchimico e la montefibre di porto marghera
COSE CONTRO CUI
LA CLASSE OPERAIA LOTTAVA SIN DAGLI ANNI ’60-INIZIO ’70 E CHE L’ESPERIENZA DELL’ASSEMBLEA
AUTONOMA DEL PETROLCHIMICO, DI LAVOROZERO, CONTROLAVORO, AUTONOMIA, E COMITATO
OPERAIO DEL PETROLCHIMICO, RIPRODUSSERO NELLA COSCIENZA E NELLE LOTTE PER LA
MANUTENZIONE E LA QUINTA SQUADRA E CONTRO IL COLLABORAZIONISMO SINDACALE DELLA
TRIPLICE DI ALLORA
Questa sentenza pronunciata il 15
dicembre 2004 riforma parzialmente quella nefasta di primo grado che aveva
mandati assolti tutti gli imputati. Essa arriva ad oltre 10 anni
dall’esposto-denuncia presentato alla Procura della Repubblica di Venezia da
Medicina Democratica, tramite il caro compagno Gabriele Bortolozzo,
responsabile della Sezione Veneziana dell’Associazione e operaio del
Petrolchimico di Porto Marghera, deceduto nel 1995, mentre fermo ad un
semaforo, veniva travolto da un autotreno.
La Confederazione Unitaria di Base
(C.U.B.) e il Sindacato Chimici A.LL.C.A.-C.U.B., in questi dieci anni, si sono
concretamente impegnati assieme a Medicina Democratica, all’interno ed
all’esterno delle aule giudiziarie, per affermare verità e giustizia,
contribuendo così a ridare dignità e visibilità alle vittime, gli operai (e
loro famigliari) del Petrolchimico e della Montefibre di Porto Marghera.
Una sentenza che porta un barlume
di giustizia.
Le vittime, ovvero le parti civili
costituite, per affermare i propri diritti dovranno intentare cause civili in
relazione ai reati prescritti e non prescritti.
Circa le inaccettabili condizioni
di lavoro (letteralmente mortali!) esistenti nel Polo chimico di Porto Marghera
(Petrolchimico e Montefibre), al di là degli evidenti limiti insiti nella
sentenza per le numerose prescrizioni dei reati e per le attenuanti generiche
concesse, va sottolineato che essa fa emergere una significativa verità.
Infatti, nonostante l'intervenuta
prescrizione, viene sancita – anche a livello giudiziario - l'esistenza
del nesso di causalità fra l'esposizione lavorativa alle sostanze tossiche
e cancerogene, in primis CVM/PVC, e l'insorgenza nei lavoratori della malattia
di Raynaud, delle epatopatie, degli angiosarcomi del fegato, di altre neoplasie
e di infortuni/malattie professionali; inoltre, la stessa
sentenza evidenzia l'omessa collocazione degli impianti di
aspirazione nonchè l'avvenuto inquinamento delle acque della Laguna di Venezia
per lo sversamento nella stessa degli scarichi idrici inquinati derivanti dagli
impianti/processi del Petrolchimico, il tutto in violazione del DPR
962/1973 (Legge speciale per Venezia).
Concesse le attenuanti generiche,
gli imputati Bartalini, Calvi, Grandi, Gatti, D'Arminio Monforte, sono stati
condannati alla pena di anni uno e mesi sei di reclusione ciascuno, nonchè
al pagamento in solido delle spese processuali dei due gradi di giudizio.
Scorrendo, uno per uno, i
nomi delle centinaia di operai, uomini in carne ed ossa, uccisi dal CVM al
Petrolchimico ed alla Montefibre di Porto Marghera, non si può certo dire che
sia stata fatta giustizia.
Non va comunque taciuto che questa
sentenza cancella l'ignominia della sentenza di primo grado che aveva mandati
assolti tutti gli imputati – i boiardi della chimica italiana – con l'aberrante
affermazione: "il fatto non sussiste".
Non va neppure taciuto che quanto
si è riusciti a far emergere in tema di nesso di causalità fra esposizioni
lavorative negli impianti della filiera produttiva del Cloro/1,2 - DCE/CVM/PVC
del Polo chimico di Porto Marghera e le patologie neoplastiche e non
neoplastiche causate ai lavoratori addetti (ferme le peculiarità delle diverse
realtà produttive), potrebbe avere riflessi positivi nei processi penali
aperti relativi alle malattie e morti operaie nonchè all'inquinamento
ambientale, causati da altri impianti Petrolchimici come, per esempio, quelli
di Brindisi, Manfredonia, Ravenna, Ferrara, Mantova, Priolo, Porto Torres
ed altri.
Al di là dei suoi limiti, questa
sentenza d’appello riveste una notevole importanza sotto il triplice profilo
socio-culturale, politico-sindacale e giuridico. Essa costituisce per le
lavoratrici e i lavoratori (e non solo per essi!) un contributo tangibile per
il rilancio della mobilitazione e della lotta per l’abolizione delle produzioni
di morte (nel nostro caso il CVM/PVC e più in generale le sostanze cancerogene)
e per affermare i diritti inalienabili alla salute, alla sicurezza,
all’ambiente salubre, nonché per il rigoroso rispetto dei diritti umani, in una
parola per affermare la democrazia nella sua più estesa accezione.
La Confederazione Unitaria di Base
– C.U.B. e il Sindacato chimici A.LL.C.A. – C.U.B. attraverso la partecipazione
a questa storica esperienza hanno maturato e accumulato un notevole patrimonio
di conoscenze che verrà messo a frutto nelle future iniziative sindacali per la
tutela e la promozione della salute e dell’ambiente salubre nei luoghi di
lavoro e in ogni dove della società.
Da ultimo, ma non per
importanza, ringraziamo pubblicamente il Pubblico Ministero, Dr. Felice
Casson, per l'impegno civile profuso e per l'invalutabile lavoro giudiziario
condotto ininterrottamente per oltre dieci anni.
Analogo ringraziamento va all'Avv.
Luigi Scatturin – (e agli altri nostri Difensori e Consulenti Tecnici) – che in
modo disinteressato ha coordinato il Collegio di Difesa di Medicina
Democratica, dei Sindacati A.L.L.C.A. e C.U.B. e delle altre Parti Civili
associate, partecipando fattivamente a tutte le udienze del processo di primo e
secondo grado con qualificati contributi professionali.
Alla pubblicazione delle
motivazioni della sentenza, la C.U.B. e l’A.LL.C.A.– C.U.B. si impegnano a
promuovere un convegno a Milano per fare il consuntivo di questa storica
esperienza umana, civile, culturale e giuridica, e per trarre dalla stessa
utili indicazioni per le future lotte sindacali.
Milano, 20 Dicembre 2004
La sentenza del 15.12.2004 della
corte d’appello di Venezia
FATTO E DIRITTO
Con sentenza in data 2/11/2001 del Tribunale di Venezia, gli
imputati venivano assolti, nei termini in epigrafe riportati, in ordine ai
reati ascritti in rubrica.
Circa il primo capo d’imputazione, ricordava il predetto
giudice in premessa della sentenza che, così come già esposto dal P.M. nella sua
esposizione introduttiva illustrata all'udienza del 29 maggio 1998, le indagini
avevano preso avvio a seguito di un esposto presentato da Gabriele Bortolozzo
componente del comitato di redazione della rivista Medicina Democratica, che
segnalava la produzione presso il petrolchimico di Porto Marghera di una
sostanza chimica denominata CVM riconosciuta cancerogena dalla organizzazione
mondiale della sanità (OMS) e dalla Comunità Economica Europea che aveva
provocato la morte per tumore di 120 lavoratori, addetti alla lavorazione nella
filiera del cloro, che indicava nominativamente. Un altro esposto era stato
trasmesso all'autorità giudiziaria dallo stesso Bortolozzo in data 6/5/1985 in cui già allora
denunciava il pericolo derivante dalla
esposizione al cloruro di polivinile,
ma che non aveva dato seguito a nessuna indagine e di cui era stata disposta la
archiviazione.
Dai primi elementi raccolti e da una consulenza orientativa
affidata al professor Carnevale risultava che
37 dei 120 lavoratori segnalati
dal Bortolozzo erano affetti da patologie correlate alla esposizione al
CVM-PVC. Si sviluppava allora un’ampia attività di indagine con acquisizione
della documentazione scientifica in materia ed espletamento di specifici
accertamenti, pervenendo il P.M. alla conclusione che sulla base degli
esaminati studi sperimentali ed accertamenti medici effettuati nelle industrie di lavorazione di tali sostanze, sarebbe risultato che i
primi sospetti di tossicità risalivano agli anni '40 e '50 e che la cancerogenità era stata segnalata per la prima volta dal dottore Gian Luigi
Viola, medico di fabbrica della industria Solvay di Rosignano, nel 1969.e
confermata dagli studi sperimentali che
la Montedison affidò al professor
Cesare Maltoni, noto oncologo, i cui primi
risultati furono comunicati ai committenti nel 1972 e alla comunità scientifica
nel l974, quando oramai era stata data notizia della morte di lavoratori
addetti alla produzione di CVM
dipendenti della società statunitense Goodrich per angiosarcoma epatico,
identico tumore individuato dal professor Maltoni nei suoi esperimenti sui ratti. Sia in America che in Italia si
rivalutarono alloro le patologie tumorali di taluni lavoratori nel frattempo
deceduti che vennero riclassificati come angiosarcomi epatici, rara forma
tumorale che venne associata alla esposizione al c v m.
Tale esposizione venne altresì correlata dalla agenzia per
il cancro (IARC) nelle monografie pubblicate nel 1974, 1979, 1987, ai tumori al
fegato, ai polmoni, all'encefalo, e al sistema emolinfopoietico, individuando
evidenze anche per i tumori della
laringe in particolare per i lavoratori addetti all'insacco del PVC che erano,
insieme agli autoclavisti, i più esposti al cvm. Pur a fronte di tali evidenze,
secondo il P.M., e nonostante le pressioni sindacali, protrattesi fino al 1977, che ebbero come risultato
l'indagine dell‘Istituto di Medicina del Lavoro di Padova e che invocavano una
drastica riduzione della concentrazione del c v m negli ambienti di lavoro, la
Montedison non operò quegli interventi sugli impianti necessari a raggiungere
tale obiettivo, anche approfittando della crisi economica che indusse il
sindacato alla moderazione sui temi della nocività e della salute a fronte del ricatto occupazionale .
Né le successive
vicende societarie, che porteranno nel 1987 Enichem a subentrare a Montedison
nella gestione degli impianti di produzione del c v m, determinarono
sostanziali mutamenti . Si sosteneva in particolare che i risultati degli
accertamenti disposti sui sistemi di controllo per monitorare l'ambiente di
lavoro, attuati dall’azienda mediante la installazione dei gascromatografi
monoterminali, avevano evidenziato la loro inadeguatezza e inaffidabilità,
poiché era risultato possibile alterare i dati con assoluta facilità, sicché
l'abbattimento dei valori di concentrazione che appariva dai tabulati di tali
apparecchiature era da considerarsi fittizio, non essendo neppure giustificato
dagli interventi effettuati sugli impianti ritenuti del tutto insufficienti e
inadeguati.
E così, nel primo capo di imputazione vengono
contestati i reati di lesioni e di omicidio colposo plurimi anche come
conseguenza della omissione dolosa di cautele e di dispositivi diretti a
prevenire il verificarsi di eventi
lesivi o di danno dei singoli lavoratori
esposti alla produzione del CVM - PVC (art. 437 co2 c p) nonché il reato
di disastro innominato (art. 434 co2 e 449 c p) per la gravità, l'estensione e
la diffusività del pericolo per la pubblica incolumità e, in particolare, per
la vita e l'integrità fisica della collettività operaia del petrolchimico.
Veniva altresì contestato il delitto di strage colposa che secondo l’accusa
doveva ritenersi punito dall'articolo 449 in riferimento all'articolo 422
codice penale. Si attribuiva in particolare rilevanza unitaria a condotte
protrattesi per circa trent'anni (dal 1969 al 2000), mediante la contestazione
della cooperazione colposa tra gli imputati che avevano ricoperto posizioni di
garanzia e altresì mediante la contestazione della continuazione.
L’ ipotesi accusatoria sceglieva quindi un modello
unitario di qualificazione della fattispecie concorsuale nella forma colposa ex
art.113 cp, ponendosi quindi l’obbiettivo di dimostrare non solo che tra gli
imputati vi era piena e reciproca consapevolezza di condotte inosservanti i
precetti volti a prevenire gli eventi tipici, ma altresì che gli effetti
penalmente rilevanti delle proprie condotte si ricollegavano a quelli causati
dalle condotte di chi precedentemente aveva rivestito un ruolo di garanzia, nel
comune perseguimento di un medesimo disegno criminoso che portava alla con
contestazione della continuazione (interna ed esterna) tra tutti i reati,
assumendosi che “il disastro è unico e riguarda sia il primo che il secondo
capo di accusa in quanto l’attività di industria ha esplicato i suoi effetti
dannosi sia all’interno che all’esterno della fabbrica”, e con addebito agli
imputati della previsione dell’evento ex art. 61 n°3 cp.
A fronte di tale generale quadro di accusa, le difese
degli imputati, sempre come ricordato dal Tribunale, ponevano in rilievo che
successivamente alla pubblicazione delle monografie di IARC del 1978 e del 1987
era stata pubblicata nel 1991 da Simonato e altri , sempre nell’ambito di detta
Agenzia, uno studio multicentrico europeo i cui risultati epidemiologici
differivano dalle precedenti indicazioni cui aveva fatto riferimento il PM e
concludevano affermando che l'ipotesi relativa agli effetti cancerogeni sul
polmone, sul cervello e sul sistema emolinfopoietico non risultava confermata.
Precisavano ulteriormente le difese che sia l'organizzazione mondiale della
sanità che la commissione europea avevano concluso che l'unico organo bersaglio
del c v m è il fegato e l'unico tumore associabile all'esposizione a tale
sostanza è l' angiosarcoma epatico.
Anche per i tumori al polmone associati ad
esposizione al PVC, cui in particolare erano interessati gli insaccatori, i
risultati degli studi e cui si era riferito il pubblico ministero non sarebbero
stati confermati da studi successivi. Si contestava comunque che gli studi
epidemiologici cui aveva fatto riferimento prevalentemente il pubblico
ministero fossero sufficienti all'accertamento del nesso di causalità che
necessitava di una legge di copertura scientifica universale o di elevata
significatività statistica.
Si sosteneva infine che, allorquando ebbe a
manifestarsi la cancerogenità e tossicità del CVM, tra la fine del 1973 e gli inizi del 1974, gli impianti ebbero a
subire urgenti e rilevanti modifiche.
Si concludeva affermando che proprio i risultati di tali interventi
determinarono sin dal 1974 una drastica riduzione delle concentrazioni: dai 500
ppm degli anni 50- 60 sino raggiungere nel 1975 concentrazioni al di sotto del
valore soglia : dapprima fissato in 50 ppm e successivamente stabilito in 3
ppm con DPR n° 962 del 1982 .
Concentrazioni che risultavano documentate dai
bollettini di analisi e dai tabulati dei gascromatografi installati in
quell'anno (1975) la cui affidabilità era confermata anche dai dati rilevati nei mesi precedenti mediante i
misuratori personali che indicavano un trend in progressiva diminuzione. La
configurazione della imputazione ha poi indotto le difese a individuarne le
caratteristiche in una sorta di “massificazione delle condotte”, espresse in
termini impersonali e cronologicamente indifferenziati, che “si compattano
attraverso meccanismi di accumulo, concentrazione e sovrapposizione in guisa
tale da far emergere non singoli, specifici comportamenti ascrivibili a questo
o a quel soggetto, ma a una sorta di politica di impresa riferibile all’ente
societario in quanto tale”.
Questi, puntualizzava il Tribunale, i temi dibattuti
nel corso della lunga istruttoria dibattimentale, durante la quale,
relativamente al 1° capo di imputazione, sono stati sentiti numerosi consulenti
introdotti dalle parti processuali, esperti non solo in epidemiologia e in
medicina legale, ma altresì in biologia, in genetica molecolare, in
tossicologia, in chimica industriale, in ingegneria impiantistica; inoltre sono
stati escussi numerosi testi in particolare sulle condizioni ambientali dei
luoghi di lavoro, sulle modificazioni
impiantistiche intervenute e sui
risultati ottenuti.
Il Tribunale, nell’affrontare le problematiche poste
dal primo capo di imputazione, ha ritenuto di trattare separatamente, pur a
fronte di condotte casualmente orientate, il problema del nesso di
condizionamento tra le condotte e gli eventi contestati e gli addebiti di colpa
rimproverati, occupandosi preliminarmente dell'accertamento del nesso causale
tra esposizione a CVM-PVC e l'insorgenza delle malattie e dei tumori agli
organi o apparati che sono stati individuati come " il bersaglio " di tali sostanze.
Si è soffermato quindi sulle caratteristiche chimiche
e tossiche e cancerogene del CVM-PVC, ritenendo che, sulla scorta dell’evidenza
probatoria e valutati gli studi e conoscenze scientifiche che negli anni si
erano sviluppate, all'inizio della produzione industriale del PVC,
mediante la polimerizzazione del
monomero, la principale preoccupazione
che si nutriva era legata alla idoneità della sostanza gassosa di
causare miscele esplosive con l'aria a concentrazioni di circa 30.000 ppm; per
contro era considerato scarsamente
tossico tanto che fu impiegato come gas
anestetico ed utilizzato come propellente per spray fino ai primi anni '70, e
che in tale contesto di conoscenze furono condotti i primi studi sulla
tossicità del cvm che ebbero attenzione agli effetti conseguenti ad esposizioni
a dosi molto elevate. Analiticamente quindi si soffermava su quelle che erano
le conoscenze scientifiche degli anni ‘60 – ’70, richiamando già i primi studi
negli anni ’30 negli Stati Uniti e poi gli studi in Europa -Mastromatteo e altri 1960, Torkelson 1961,
Popow 1965, Suciu e altri 1967 - e soffermandosi sugli gli studi di VIOLA e
MALTONI.
Pier Luigi Viola era un medico di fabbrica della
Solvay di Rosignano, che presentò nel 1969 a Tokyo, nell'ambito di un congresso
di medici del lavoro, i dati relativi ad una sperimentazione sugli animali in
cui aveva individuato lesioni polmonari, emorragia addominale, lesioni al
cervello, fegato ingrossato, lesioni osteolitiche e alterazioni degenerative
del tessuto connettivo; lesioni di uguale
genere vennero osservate in ratti esposti a 30.000 ppm per 12 mesi in un
successivo studio realizzato con il prof. Caputo dell'Istituto Regina Elena di
Roma. Tali studi di Viola sugli animali erano stati provocati dalla
osservazione sui lavoratori addetti alla pulizia delle autoclavi di casi di
osteolisi e di alterazioni vascolari alle estremità, tipiche del fenomeno di
Raynaud, dato emergente dal rapporto
Suciu e altri pubblicato nel 1967 dopo che già a metà degli anni
sessanta erano state accertate e pubblicizzate insorgenze nelle fabbriche
americane di Sindromi di Raynaud e acrosteolisi causate dal contatto con la
sostanza.
A parte tali patologie, riteneva però il Trtibunale
che detti studi ancora non acclarassero scientificamente la cancerogenità per
l’uomo del cvm-PVC, cui si pervenne solo a seguito degli studi del prof.
Maltoni incaricato proprio da Montedison dopo l’allarme lanciato da Viola, ed a
seguito dell’accertamento, nel gennaio 1974, presso la Goodrich Company di tre
casi di angiosarcomi in operai addetti alla produzione del cvm, e, nei mesi
successivi, di altri casi presso altre industrie americane.
La valutazione degli studi e diffusione delle
conoscenze scientifiche in quegli anni (1970-1974), e delle testimonianze sul
punto, porta il Tribunale a ritenere:
1) che determinanti per la conoscenza della cancerogenità
furono i risultati sperimentali di Maltoni (e non quelli di Viola reputati
inadeguati sia per il numero ridotto degli animali sia per le elevate
esposizioni sia per i risultati che avevano individuato i tumori nella pelle e
nei polmoni e non già angiosarcomi);
2) che le alte esposizioni degli anni '50 - '60
avevano provocato, oltreché effetti tossici ( svenimenti e nausee) anche casi
di acrosteolisi tra gli addetti alla pulizia delle autoclavi e il dottor Viola
era stato incaricato di approfondire sperimentalmente le cause di tale malattia
senza mai essere ostacolato in queste ricerche neppure quando pervenne alla
scoperta delle lesioni tumorali che, anzi, furono il dato preoccupante che
sollecitò l'approfondimento affidato a Maltoni;
3) che i dati degli esperimenti di Maltoni
circolarono tra il gruppo europeo e il gruppo americano che fu altresì autorizzato a visitare il
laboratorio di Maltoni e a controllare i protocolli sperimentali;
4) che i risultati, ancorché parziali, furono
comunicati all'esterno da Maltoni non solo alla comunità scientifica al
convegno di Bologna dell' aprile del 1973, ma altresì a tutte le istituzioni
pubbliche, e che le clausole di riservatezza, poste per finalità di controllo
tra il gruppo europeo e il gruppo americano, non resistettero all'evidenza e si ridussero alla fine in una moratoria di
15 giorni richiesta dagli europei per una contemporanea comunicazione dei
risultati alle istituzioni governative e ciò ancora prima che la Goodrich
evidenziasse i primi casi di angiosarcoma accertati su propri dipendenti
deceduti;
5) che già si poneva al centro dell'attenzione la
individuazione di soglie di non effetto per l'uomo cui le imprese dovevano
adeguarsi (Maltoni in udienza ha precisato questo aspetto, affermando che in un
processo stocastico quale è la cancerogenesi teoricamente una soglia
biologicamente accettabile non esiste anche se può essere ricercata una soglia
socialmente accettabile).
Tali elementi, secondo il Tribunale, smentivano
altresì la tesi del P.M. del patto di segretezza tra le industrie del settore
in ordine alla diffusione della notizia della cancerogenità del cvm, patto che
non avrebbe in realtà avuto la finalità di occultare i dati della ricerca, ma
era piuttosto finalizzato ad un reciproco controllo tra le imprese interessate
in ordine alla pubblicizzazione dei dati per evitare il rischio di essere posti
fuori mercato o comunque di ritrovarsi in gravi difficoltà operative a seguito
di iniziative unilaterali e non concordate.
E comunque la clausola di riservatezza sarebbe rimasta di fatto inosservata come
risulterebbe inequivocabilmente dagli avvenimenti, oltre che dalle documentate
e riscontrate dichiarazioni di Maltoni, posto che lo stesso diffuse
pubblicamente i risultati delle sue ricerche nel convegno di Bologna tenutosi
nell'aprile del 1973 di cui furono partecipi la comunità scientifica e le
pubbliche istituzioni.
Osserva dunque il Tribunale come dal 1974 ha inizio
un’ampia revisione delle diagnosi per
decessi di lavoratori dell’industria di polimerizzazione con tumore al fegato e
vengono accertati casi di angiosarcoma che per la sua rarità era anche di
difficile identificazione. A tal punto resterebbe acclarato che: il cvm è
oncogeno per l’uomo, onde gli interventi delle Agenzie (EPA, WHO, ACGH, IARC
che classificano appunto il CVM come sostanza cancerogena per l'uomo e la
inseriscono in categoria 1) e la fissazione di limiti di esposizione lavorativa
richiamati in sentenza.
In particolare, ricorda il Tribunale come in Italia,
dove i contratti collettivi di lavoro erano soliti recepire i valori indicati
dalla A.C.G.I.H. (America Conference Governemental Industrial Hygienists) - che
sino a tutto il 1974 mantiene un valore di 200 ppm come media giornaliera - nel
contratto collettivo di data 12/12/1969 si raccomanda un MAC di 500 ppm e in
quello successivo del 31 ottobre 1972 viene indicato come proposta da adottarsi
il valore di 200 ppm come valore limite di soglia riferito alla media delle
concentrazioni per una giornata lavorativa di 7 o 8 ore per una settimana di 40
ore e tale valore viene adottato anche nel contratto collettivo di data 17
aprile 1976 anche se la definizione di un valore adeguato alla accertata
cancerogenità per l'uomo è in corso di individuazione .
Solo con il contratto collettivo del 23 luglio
1979 il limite di soglia TLV-TWA viene
fissato in 5 ppm . Tale valore è definito come la “concentrazione media
ponderale in una normale giornata lavorativa di 8 ore o in una settimana di 40
ore, a cui praticamente tutti i lavoratori possono essere ripetutamente
esposti, giorno dopo giorno, senza effetti”. Si precisa inoltre che il Ministro
del Lavoro nell'aprile del 1974- su proposta e sollecitazione del prof Maltoni-
aveva emanato una raccomandazione di non superamento del valore di 50 ppm TVL
come valore di riferimento tendenziale. E solo con la direttiva CEE n°
610/78 recepita con DPR n°962/82 i
valori vengono ridotti a 3 ppm peraltro come media annuale.
Passa quindi in rassegna il Tribunale gli studi
epidemiologici e sperimentali in materia e la loro valutazione scientifica in
primo della IARC cui hanno fatto principalmente riferimento i consulenti del
P.M., ma poi attestandosi sui successivi studi epidemiologici che mettevano in
discussione le comclusioni di IARC 1987.Si ricorda come IARC avesse effettuato
tre diverse valutazioni della cancerogenità del CVM , nel 1974, nel 1979 e nel
1987 e tale sostanza è stata oggetto anche di rapporti interni nel 1975 e nel 1989 e le conclusioni di
ques’ultimo anticipano i risultati dello studio epidemiologico multicentrico
europeo del 1991 coordinato dal dott. Simionato al quale, nel corso
dell'istruttoria dibattimentale, è sopravvenuto l'aggiornamento curato da Ward
nel 2000 e di cui ha riferito in aula il dott . Boffetta che ne è coautore.
La monografia del 1974 prende in esame, ai fini della
valutazione del rischio cancerogeno
nell'uomo, i risultati delle sperimentazioni di Maltoni e di Viola cui si è già fatto riferimento.
Riferisce che la prima associazione tra esposizione al c v m e lo sviluppo del cancro è stata avanzata da Creech e Jonnshon nel
1974 che avevano osservato tre casi di angiosarcoma del fegato in operai che
lavoravano a contatto con questa sostanza (si tratta dei lavoratori dellaGoodrich).
Riferisce inoltre che
dall'esame dei registri medici e da una analisi del materiale patologico erano
stati scoperti altri dieci angiosarcomi
in lavoratori addetti alla lavorazione del c v m e il tempo intercorso tra la
prima esposizione e la diagnosi del tumore andava dai 12 ai 29 anni e la durata
complessiva dell'attività aveva comportato una esposizione di 18 anni (Heath e
altri 1974). Precisa inoltre che nello stesso stabilimento erano stati
accertati 48 casi di malattie del fegato non maligni in esposti mediamente da oltre vent'anni e che dalla biopsia era
stata riscontrata una fibrosi portale e noduli della fibrosi subcapsulare.
Altri studi
avevano accertato, tra la metà e la fine degli anni ‘60 l'insorgere
di acrosteolisi generalmente
localizzata nelle falangi distali delle mani negli addetti alla pulizia delle
autoclavi. Nei lavoratori addetti a tali mansioni, i più esposti alle alte
concentrazioni, in uno stabilimento per la produzione di PVC in Germania,
sottoposti a test di funzionalità epatica e a esame istologico dei frammenti di
biopsia epatica, è stata rilevata splenomegalia , epatomegalia e fibrosi portale ovvero fibrosi della
capsula del fegato . Sulla base di tali dati - che erano quelli conosciuti alla
data del 26 giugno1974 - la valutazione dell'agenzia era la seguente:
“considerata l'estrema rarità dell’angiosarcoma del fegato nella popolazione
comune, il riscontro di 16 casi in lavoratori esposti al c v m prova che c'è
una relazione causale".
In conclusione la prima valutazione sulla base dei
pochi dati sperimentali e della scarsa casistica di osservazione sull'uomo
indicava una relazione causale tra l'esposizione al c v m e l’angiosarcoma
epatico e la presenza di fibrosi
portale e subcapsulare ; infine individuava
l‘insorgere di acrosteolisi nei lavoratori addetti alla pulizia delle
autoclavi.
La successiva monografia pubblicata nel febbraio del
1979, sulla base di ulteriori ricerche sperimentali e, in particolare, di studi
epidemiologici, così concludeva per quanto riguarda i risultati sperimentali in
topi, ratti e criceti: " il cloruro di vinile si rivelava cancerogeno in
tutte e tre le specie e produceva tumori in vari siti compreso l’angiosarcoma
del fegato...... È stata dimostrata la relazione dose –risposta”. Per quanto
concerne l'uomo si affermava che " i vari studi tra loro indipendenti, ma
i cui risultati si confermavano a vicenda, hanno dimostrato
che l'esposizione al cloruro di vinile comporta un aumento del rischio cancerogeno
negli umani riguardante il fegato, il cervello, i polmoni e il sistema emolinfopoietico".
Si concludeva pertanto per la cancerogenità del c v m
per l'uomo indicando quali organi preferiti il fegato, il cervello, i polmoni e
il sistema emolinfopoietico. Per quanto riguarda l'effetto dose-risposta si
affermava che "nonostante dai
gruppi di lavoratori esposti ad alte dosi di c v m si sia avuta la prova della
cancerogenità del c v m per l'uomo, tuttavia non si ha la prova del fatto che
esiste un livello di esposizione al di sotto del quale non si verifichi un
incremento del rischio di cancro nell'uomo". Si affermava infine che gli
studi esistenti sul p v c non erano sufficienti a stabilire la cancerogenità di
tale composto.
Con la valutazione del 1987 si afferma che in un gran
numero di studi gli epidemiologici hanno comprovato il rapporto causale
esistente tra il cloruro di vinile e l'angiosarcoma del fegato . Numerosi studi
inoltre confermano che l'esposizione al cloruro di vinile causa altre forme di
cancro e cioè il carcinoma epatocellulare, tumori al cervello, tumori al polmone
e tumori del sistema linfatico- ematopoietico. Si afferma inoltre che in uno
studio (Waxvejler) l'esposizione alla polvere di PVC è stata associata all'aumento della incidenza del tumore al
polmone e gli autori hanno pensato che
il responsabile fosse il c v m intrappolato.
Peraltro l'agenzia continua a classificare il PVC nel
gruppo 3 per la inadeguata evidenza di cancerogenità sia per l'uomo che per gli
animali da esperimento.
Osserva peraltro il Tribunale come tali conclusioni
di IARC 1987, alle quali i consulenti medico-legali della accusa si sarebbero
principalmente riferiti ai fini di ritenere le patologie discusse correlabili o
meno con l'esposizione a c v m o PVC,
siano state poste in discussione dagli
studi epidemiologici successivi. In particolare dallo studio multicentrico
europeo coordinato da IARC e condotto da Simonato e altri (1991) e dallo studio
sulle coorti americane condotto da Wong (1991) i quali saranno successivamente
aggiornati rispettivamente da Ward (2000) e da Mundt (1999).
Nell’analizzare tali studi il tribunale ricorda come
nel primo si fosse concluso che non sussiste alcuna associazione tra
esposizione a cvm e i tre organi bersaglio diversi dal fegato (polmone,
cervello, sistema linfatico), mentre per il cancro del fegato l’analisi basata
sulle variabili temporali ha rivelato eccessi statisticamente rilevanti nel
periodo di assunzione 1945 - 1954 e 1955- 1964 mentre è stata osservata una
diminuzione del rischio per quelli assunti negli ultimi anni ‘60 e nei primi
anni '70 anche se viene precisato che il tempo di osservazione è troppo corto
per poter valutare il rischio per i lavoratori assunti recentemente.
La mortalità da cancro del fegato, secondo il tipo di
lavoro, distingue i lavoratori addetti all'autoclave fra i " sempre "
e gli " altri " e dimostra che l'aumento del rischio è concentrato
fra coloro che hanno lavorato all'autoclave in ogni momento (" sempre"). Ma si evidenziava
altresì che per i lavoratori con 15 o più anni dalla prima esposizione (15 anni
di latenza) un aumento del rischio statisticamente significativo compare anche
per quelli classificati come " altri ". Onde l’'analisi dei decessi
da cancro del fegato basata sulla esposizione cumulativa rivela un rischio
crescente con l'aumento dell'esposizione e con una consistente relazione
esposizione – risposta, e per tutti i decessi da cancro al fegato la latenza
varia da 16 a 33 anni con una media di 24 anni mentre la durata media
dell'esposizione è di 18 anni (da 16 a 33 anni).
In proposito riteneva il Tribunale importante
rilevare che l'anno di assunzione e' soprattutto ricompreso nell'ambito degli
anni anni 50 (solo 6 negli anni 60 e 2 negli anni 40); e che veniva rilevata
una tendenza verso una diminuzione del rischio per quelli assunti negli ultimi
anni ’60 e nei primi anni ’70, sebbene si precisi che il tempo di assunzione
era ancora troppo corto per poter valutare il rischio per i lavoratori assunti
recentemente. Inoltre sono molto chiare le relazioni esposizione - risposta fra
l'esposizione cumulativa al c v m e rischio di cancro del fegato e angiosarcomi. Distinguendo, invece, l'
angiosarcoma dalle altre neoplasie del fegato il rapporto di queste ultime era
pressoché sovrapponibile all'atteso.
Questa osservazione assume, secondo il Tribunale,
particolare rilievo nella controversa discussione in ordine alla associazione
cvm-epatocarcinoma, e si ricorda che nelle considerazioni conclusive si afferma
che i risultati dello studio confermano l'associazione fra cancro del fegato e
l'esposizione al c v m: l'eccesso di mortalità-quasi il triplo con 24 osservati
e 8.4 attesi (RSM 2,86)- è associato con la durata dell'impiego e con il
livello delle esposizioni e i risultati sono rafforzati dalle analisi di
regressione che indicano che il rischio di cancro del fegato dipende
significativamente dall'esposizione cumulativa e dagli anni trascorsi dalla
prima esposizione.
Si osserva poi come l'aggiornamento dello studio
multicentrico europeo (di Ward - Boffetta e altri 2000).ha esteso per gli anni
90 l'accertamento dello stato in vita dei lavoratori di 17 delle 19 aziende
incluse nello studio: l'aggiornamento della mortalità e dell'incidenza varia
dall'anno 1993 all'anno 1997. ed è stata pressochè identica a quella attesa
(RSM 0,99), leggermente inferiore a quella dello studio precedente. Nessun angiosarcoma si è verificato tra gli
operai assunti dopo il 1973 e non si era verificato alcun decesso per cancro
del fegato prima che fossero trascorsi 15 anni dalla prima esposizione.
Inoltre, neppure nel predetto aggiornamento della corte
europea si è rilevata alcuna
associazione tra esposizione al c v m e mortalità per cancro del polmone,
sottolineandosi tuttavia che quando le analisi vengono ristrette a quei
soggetti che avevano soltanto ricoperto mansioni relative all'insacco si
nota un trend significativo per il cancro del polmone con l 'aumentare
dell'esposizione cumulativa al cvm. Si aggiunge che lo studio non ha rilevato
prove di un aumento di mortalità dovuta a tutte le malattie del sistema
respiratorio (pneumoconiosi, bronchite, enfisema, asma) e neppure alcuna indicazione di un aumento di
mortalità per malattie respiratorie più specificamente tra i lavoratori addetti
all' insacco o al miscelamento ancorché si precisi che tali risultati non
contraddicono studi incrociati (Mastrangelo e altri) poiché è possibile che gli
effetti respiratori dell'esposizione e al c v m o alla polvere di PVC non
conducano alla morte.
Così, ancora nell’aggiornamento Ward, neppure si
presenta un eccesso statisticamente significativo di cancro al cervello, ed
altrettanto si conclude per i tumori del sistema emolinfopoietico.
Si analizzano poi gli studi della coorte USA, in
particolare Wong -1991; Mundt -2000). L'aggiornamento di Mundt, più
informativo, individua l'esistenza di una associazione tra esposizione a cvm e
aumentata insorgenza di tumori del fegato; indica la insussistenza di una
associazione tra esposizione a c v m e insorgenza di tumori del polmone.
Nel commentare i risultati dello studio, gli autori
affermano che le cause di morte per tumore già segnalate non sono risultate in
eccesso e tra di esse il tumore del polmone e i tumori emolinfopoietici e
altresì le malattie respiratorie quale enfisema e pneumoconiosi. Viene inoltre
precisato che l'associazione tra esposizione a cloruro di vinile e tumore del
polmone non ha trovato alcuna evidenza
e pertanto non è suggerito neppure un piccolo rischio. Per il tumore al
cervello si afferma che la associazione è incerta perché le elevate età al
primo impiego nell'industria del c v m suggeriscono che i lavoratori potrebbero
avere avuto rilevanti esposizioni ad altri cancerogeni prima dell'esposizione
al cvm.
Si afferma in conclusione che lo studio ha confermato
una forte associazione tra durata dell'esposizione lavorativa prima del 1974 e
tumori del fegato per la gran parte dovuta
ad un grande eccesso di angiosarcomi.
Richiama poi il Tribunale gli studi epidemiologici e
sperimentali che hanno affrontato il problema della eventuale associazione tra
esposizione a PVC e insorgenza di tumori, in particolare all'apparato
respiratorio e al polmone, nei lavoratori che abbiano svolto sempre o
prevalentemente la mansione di insaccattori, studi che in conclusione ritiene
indichino che il p v c ha una scarsa o
assente attività biologica e la sua presenza fisica nei polmoni produce
pneumoconiosi benigne.
Partendo dall'ipotesi che l'esposizione a polvere di
PVC possa dar luogo a una aumentata insorgenza di tumori del polmone, avanzata
da Waxweiler (1981) che suggeriva l'idea che l'eccesso osservato fosse da
attribuire non tanto alla polvere di PVC bensì al c v m intrappolato nella
polvere, il tribunale richiama i successivi non confermativi studi di
Storevedt-Heldaas che riscontra un eccesso solo apparente, di Jones ( 1987) che
indica un chiaro difetto per la mansione di insaccattore, di Wu (1989), che
esamina la stessa corte di Waxweiler (quattro impianti di polimerizzazione in
attività da almeno 15 anni in uno stabilimento di sintesi di sostanze chimiche
con un totale di 3635 rispetto ai 1294 lavoratori precedentemente considerati
con almeno cinque anni di esposizione e dieci anni di latenza in aree e
mansioni con esposizione a c v m nel periodo 1942-1973, e che non accerta
nessun eccesso escludendo ogni relazione tra esposizione a polveri di PVC e
tumore del polmone; di Comba- Pirastu e Chellini in cui viene invece
evidenziato un eccesso per la mansione di insaccattori, peraltro con un
andamento per latenza decrescente contrario, secondo il Tribunale, ad una
spiegazione di natura eziologica d’altra parte non avvalorata neppure dalle
sperimentazioni.
Si ricorda poi che in particolare
sugli insaccattori di Porto Marghera sono stati condotti tre studi: una analisi di mortalità degli
insaccattori dipendenti di Montedison Enichem, una analisi di mortalità degli
insaccattori appartenenti a cooperative esterne che hanno lavorato in appalto e
infine su questi lavoratori è stato condotto uno studio di prevalenza sulla
morbilità (Chellini), peraltro subito
ponendosi in rilievo alcuni aspetti che hanno incontrato le maggiori critiche:
da un lato la scarsa informatività di detti studi per la esiguità delle
sottocoorti (208 insaccattori dipendenti e 272 appartenenti alle cooperative) e
dall'altro l'inaccettabilità di una analisi congiunta delle due categorie di
insaccattori stante l'assenza di omogeneità dei selezionati e per di più l'età
media elevata di ingresso al lavoro degli appartenenti alle cooperative e lo
svolgimento di attività plurime con possibili differenti esposizioni.
E comunque i rapporti di mortalità,
presenterebbero un andamento di relazione inversa tra la durata della latenza e
l'insorgenza del tumore che, come detto nei precedenti studi già commentati,
depone per l'insussistenza di una associazione. Lo studio di prevalenza della
dottoressa Chellini ha incontrato critiche ancor più radicali inquantoche' non
era stata effettuata alcuna validazione sulla qualità dei dati anamnestici raccolti, posto che le patologie riportate nelle schede fanno
riferimento a malattie diagnosticate nell'arco della vita, e pertanto non sono
correlate alla attività svolta in qualità di insaccatori, venendo così a
mancare la garanzia dell'antecedenza tra esposizione e malattia.
In questi
studi comunque, si afferma che: per quanto riguarda il tumore epatico (sia esso
angiosarcoma o epatcarcinoma) la mortalità ha superato significativamente
quella attesa particolarmente fra gli addetti alle autoclavi e da questa
osservazione si trae la conseguenza che sia di natura causale anche la
relazione fra esposizione a cvm e epatocarcinoma: tale relazione sarebbe anche
plausibile sul piano biologico e sostenuta da una considerazione di tipo
analogico inquantoche' i due altri agenti conosciuti che inducono angiosarcomi epatici (arsenico e thorotrast)
causano anche essi carcinomi epatici (Popper 1978 ).
Per quanto riguarda la mortalità
per tumore polmonare si è osservato un incremento significativo fra gli
insaccattori in considerazione dell'intensità dell'esposizione a c v m , in
particolare fra il 1950 e il 1970 (non
meno di 50 ppm) e tenuto conto che nell'attività dell'insacco del PVC si era in
presenza di elevati livelli di polverosità (in proposito si citano gli autori
di studi che hanno descritto casi di pneumoconiosi insorti in soggetti esposti
a polveri di PVC e tra questi lo studio di Mastrangelo).
Per quanto riguarda gli altri
tumori che secondo IARC 1987 sarebbero
ricollegabili all'esposizione a c v m si osserva che nella corte Montedison
Enichem di Porto Marghera sono stati individuati due casi di tumore dell'encefalo
(SMR 77) e 9 tumori del sistema emolinfopoietico (SMR 134): si riconosce
peraltro la ignota eziologia dei tumori cerebrali che anche gli studi
epidemiologici più ampi non sono stati in grado di ricollegare a specifiche
esposizioni; si riconosce altresì che la categoria dei tumori del sistema
emolinfopoietico comprende entità che hanno caratteristiche nosologiche assai
diverse per le quali sono diversi anche i fattori di rischio ipotizzati.
Si afferma conclusivamente che i risultati relativi a questi due tipi di
tumore devono essere considerati tenendo conto dell'esiguità numerica delle
osservazioni e delle conoscenze disponibili sulla eziologia.
I suddetti dati sarebbero poi
sostanzialmente confermati dalla memoria depositata dai consulenti epidemiologici
del pubblico ministero contenente un aggiornamento della mortalità al 31 luglio
1999, peraltro non sottoposto al contraddittorio dibattimentale e comunque
esaminata e utilizzata dal Tribunale come un approfondimento, proveniente dalla
pubblica accusa, degli studi precedenti. In particolare, sulla base dell'
incremento nel numero di decessi per tumore epatico primitivo accertato nella
coorte di Porto Marghera alla data del luglio 1999 si ribadisce con questo
ulteriore elemento la sussistenza di un eccesso di tumori epatici diversi dall'
angiosarcoma, sia con riguardo ai lavoratori della coorte nel suo complesso che
in maniera ancora più evidente tra coloro che hanno svolto la mansione di
autoclavisti che notoriamente sono stati esposti alle concentrazioni più
elevate. E così sarebbe stato rilevato un eccesso di tumori polmonari
nell'ambito della coorte, con specifico riferimento alla mansione di
insaccattore esposto alle polveri di PVC.
Circa i fattori di confondimento, sia rispetto ai
tumori epatici che a quelli polmonari, i consulenti del pubblico ministero,
facendo ricorso ad un raffronto tra i lavoratori della coorte e i lavoratori di
altri settori (municipalizzata di igiene urbana e amministrazione provinciale
di Venezia) per quanto riguarda la propensione a bere alcolici e individuando
nei primi stime più basse dei consumi alcolici, affermano che l'assunzione di alcol non poteva spiegare
l'incremento di mortalità rilevato per tumori epatici diversi dall’angiosarcoma
sia nella coorte complessiva e sia, a maggior ragione, nella categoria degli
autoclavisti.
Per quanto riguarda il fumo si è fatto invece
riferimento alla percentuale di fumatori nella popolazione italiana (tra il 53
e 75%) che si stimava mediamente uguale
a quella presente tra gli insaccattori e si concludeva che gli incrementi di
mortalità in tali categorie per tumore del polmone non era spiegabile con
l'abitudine al fumo.
Sempre con specifico riferimento ai lavoratori della
corte di Porto Marghera, il professor Diego Martines, consulente del pubblico
ministero, ha presentato uno studio caso- controllo sui lavoratori affetti da
angiosarcoma epatico, epatocarcinoma, cirrosi epatica, e epatopatia cronica.
Sulla scorta dei dati rilevati e riportati in tabella
si evidenzia che per tutte le malattie considerate il rischio non cresce
gradualmente dalla esposizione minore a quella maggiore, bensì si innalza
bruscamente solo nella categoria con esposizione alta. Inoltre il consulente
sottolinea che tutti i casi di angiosarcoma si sono manifestati in quei
lavoratori che subirono la prima esposizione in un arco di tempo molto
ristretto compreso fra il 1955 e il 1967 e ha altresì evidenziato che i tempi
di latenza media sono di 29 anni e il tempo di esposizione media dei lavoratori
che sono stati affetti da angiosarcoma era di 18 anni.
Per quanto riguarda gli epatocarcinomi nella tabella
numero 4 il consulente rileva 13 casi nella categoria ad alta esposizione 1
caso nella categoria a media esposizione e 2 per casi nella categoria a bassa
esposizione. Peraltro per tutti i 3 casi delle categorie bassa e media
esposizione la riferibilità all'esposizione professionale dell'epatocarcinoma
e' messa in dubbio dallo stesso consulente. I 13 casi di epatocarcinomi ad alta
esposizione presentano un tempo di latenza medio dalla prima esposizione pari a
31 anni (range 22 - 42) e la prima esposizione in tutti questi pazienti si è
verificata in un arco ristretto di tempo compreso tra i 1952 e il 1961.
Due
pertanto le conclusioni da trarre: tutti i casi di angiosarcoma e di epatocarcinoma della coorte di Porto
Marghera riguardano soggetti esposti ad alte esposizioni e il tempo di
calendario è tra gli anni '50 e '60.
Nelle
successive precisazioni a seguito dell’osservazione dei consulenti della difesa secondo i quali dalle stesse suddette
conclusioni emergeva la presenza di una soglia di fatto del rischio, sosteneva
il consulente che l'insorgenza di angiosarcoma
anche dopo esposizioni limitate a c v m veniva ad escludere in linea
generale la presenza di una soglia nell'azione del cloruro di vinile sia per la
diversa suscettibilità individuale (genetico e biochimica) al c v m sia per
l'azione tossica sinergica dell'alcol e del cloruro di vinile, in quanto la
responsabilità del consumo di alcol e dei virus B e C nel determinare la cirrosi epatica e
l’epatocarcinoma andava valutata in uno con l’eventuale effetto aggiuntivo o
primario dell'esposizione al c v m.
Si
insisteva dunque nell’affermare che l'esposizione al c v m è in grado di
stimolare la fibrogenesi conseguente al danno epatocellulare provocato dai
fattori eziologici extralavorativi, quali alcool o i virus B e C , e di
innescare e accelerare tutti quegli eventi che portano alla cirrosi, agendo in
tal caso come fattore concausale.
Ricorda poi il Tribunale gli studi caso-controllo dei
consulenti dell’accusa privata, professor Gennaro e professor Mastrangelo,
volti all’approfondimento della relazione tra mortalità per tumore polmonare ed
esposizione alle polveri di PVC.
In particolare Mastrangelo, sulla scorta dei dati
analizzati e delle valutazioni peraltro analiticamente criticate dai consulenti
della difesa, afferma che il fumo non rappresenta un fattore di confondimento
nella associazione tra esposizioni a polveri di PVC e rischio di cancro
polmonare inquantoché, pur essendo il fumo di tabacco una causa di cancro
polmonare, esso non è risultato correlato con le esposizioni a polveri di PVC
nella popolazione in studio, e si ribadisce il concetto della concausalità
sostenendosi che, anche se tutti i casi
esaminati (eccetto uno) erano fumatori e anche se qualcuno di loro era stato
esposto ad altri cancerogeni polmonari prima di lavorare come insaccatore di
PVC a Porto Marghera, la responsabilità della esposizione a polvere di PVC
rimane comunque per il fatto che la sostanza attiva il penultimo stadio della
cancerogenesi, sicché sarebbe pur sempre un agente concausale.
Ricorda al riguardo il Tribunale come il professor
Mastrangelo, nelle precisazioni che ha ritenuto di fare per iscritto rispetto
alle contestazioni cui è stato sottoposto in sede di controesame dai difensori
degli imputati, evidenzia il suo assunto nel modo seguente: entrambe le
sostanze (c v m ePVC) sono cancerogene e la seconda può veicolare la prima;
entrambe provocano la fibrosi polmonare che può indurre a un eccesso di cancro
polmonare.
Si ricordano altresì le obiezioni dei consulenti
della difesa: non solo il prof. Mastrangelo ha proposto proprie ipotesi non
convalidate scientificamente e ha mosso critiche infondate agli studi
epidemiologici che non evidenziano eccessi significativi di tumore polmonare
associato a cvm/PVC, ma la sua ipotesi principale si basa su premesse
destituite di ogni fondamento, in quanto si osserva che il PVC non è di per sé
considerato una sostanza cancerogena , posto che lo IARC lo classifica nel
gruppo 3 proprio per la inadeguata evidenza di cancerogenità per l'uomo e per
l'animale da esperimento, e ancora meno è dimostrato che esso possa indurre
fibrosi polmonare, sicché non può condividersi che la causa di eccessi di
tumore al polmone possa essere il PVC.
Passando alla problematica del rischio da
esposizione, il Tribunale ha ricordato come accusa pubblica e privata hanno
sottoposto all’attenzione del collegio valutazioni di rischio sulla base di
modelli matematici. Al riguardo si evidenzia che: l' E P A ha divulgato due
diverse stime di rischio per l'esposizione a c v m: la prima nel 1994 e la
seconda nel 2000 in cui il rischio è stato stimato di dieci volte più basso
rispetto alla stima precedente.
Si osserva però che le valutazioni dell‘EPA non
intendono stabilire il rischio effettivo o le conseguenze sulla salute per le
persone, ma piuttosto sui rischi potenziali utilizzando i dati sperimentali
sugli animali, ma anche opzioni di default mediante metodologie matematiche di
estrapolazione lineare alle basse dosi per i cancerogeni oppure estrapolazioni
non lineari (e cioè modelli matematici che ammettono una soglia) per le
sostanze non genotossiche, per cui, essendo il cvm considerato genotossico la risposta e il rischio sono nulli solo per
una dose nulla; egualmente l’Unione Europea e l’Organizzazione mondiale della
sanità assumono esplicitamente il principio di assenza di soglie per i
cancerogeni e in Italia la Commissione Consultiva Tossicologica Nazionale ha assunto identica posizione.
La ragione fondamentale della assenza di soglia per i
cancerogeni genotossici deriva dall'osservazione che la relazione tra
formazioni di addotti e dose di regola
è lineare con la dose e la probabilità che una molecola attiva incontri il
punto critico del DNA è proporzionale al numero di molecole presenti. Un
ulteriore argomento, basato su semplici criteri matematici, è quello che in
presenza di un'esposizione di fondo a cancerogeni, una ulteriore piccola esposizione si andrà a collocare nel tratto
lineare della relazione dose- risposta.
Ma l’OMS stima il rischio cancerogeno anche sulla
base di dati epidemiologici e a tal
fine utilizza il parametro della rischio relativo (RR) definito come il
rapporto tra il numero di casi osservato e atteso nella popolazione esposta;
diversamente il centro tossicologico e ecotossilogico europeo dell'industria
chimica (ECETOC 1998), nel rapporto dedicato al cloruro di vinile, nelle sue
conclusioni, specifica che "sebbene non sia possibile stabilire
definitivamente livelli sicuri di esposizione per i cancerogeni genotossici,
l'evidenza presentata in questo rapporto non suggerisce che l'esposizione
lavorativa ai livelli correnti nel rispetto del limite di 3 ppm comporti rischi significativi per la salute
"; il professor Zapponi, consulente tecnico dell'accusa privata Presidenza
del Consiglio e Ministero dell'Ambiente, partendo dalla premessa che non può
essere identificata una soglia per i cancerogeni genotossici non essendo
possibile definire un livello senza effetto,
passa in rassegna le principali stime,
su dati epidemiologici e su dati sperimentali, di rischio cancerogeno
per il c v m, e nelle considerazioni conclusive trae una prima considerazione:
che queste valutazioni di rischio, pur operate da autori diversi e pur
considerando che le diverse stime si basano su diverse categorie di dati
(epidemiologici e sperimentali), pur tuttavia pervengono a risultati molto
simili.
L'indicazione che se ne trae è che una
esposizione lavorativa presumibilmente
priva di un rischio significativo dovrebbe andarsi a collocare a livelli di
frazione relativamente piccole di 1 ppm e l'uso del modello a soglia, pur in
presenza di un cancerogeno genotossico, ha portato a stime di livelli di
esposizione sicura tra 0.1 a e 0.6 ppm che sono valori di un ordine di
grandezza superiori a quelli stimabili con valutazioni di rischio che assumono
l'assenza di soglia;il consiglio nazionale delle ricerche degli Stati Uniti
(NCR), cui è stato chiesto dal congresso americano di valutare l'operato dell'
EPA per quanto attiene la valutazione del rischio, ne ha innanzitutto
individuato l'ambito di applicazione, assumendo che "le stime del rischio
ottenute non sono stime scientifiche del vero rischio di tumore ma sono utili
ai regolatori per stabilire delle priorità di intervento": si tratta cioè
di stime estremamente conservative che ricomprendono opzioni inevitabilmente
politiche di protezione della salute pubblica.
Si evidenzia conseguentemente che le scelte politiche
portano a opzione di default utilizzate ai fini di aggirare il problema
dell'incertezza sui seguenti problemi maggiormente rilevanti:1) mancanza di
dati scientifici che correlino in maniera quantitativa l'esposizione a sostanze
chimiche con i rischi per la salute; 2) divergenze di opinioni all'interno
della comunità scientifica sul livello dell'evidenza scientifica; 3) mancanza
di una conformità nel riportare i risultati delle ricerche; 4) incertezza dei
risultati prodotti dai modelli teorici.
E così, ogni qualvolta il procedimento di valutazione del
rischio si scontra con elementi in cui
il livello di conoscenza scientifica può risultare incompleto, problematico,
discordante, non convincente, è necessario far ricorso a congetture e
semplificazioni, assumendo per l'appunto opzioni di default di cui le più
importanti sono:
1) gli animali da laboratorio sono un surrogato per
gli esseri umani nella valutazione del rischio dei tumori e i risultati
positivi negli esperimenti sono presi come evidenza della capacità di una
sostanza chimica di causare il tumore negli uomini;
2) gli esseri
umani sono sensibili come le più sensibili specie animali;
3) gli agenti che risultano positivi negli
esperimenti a lungo termine sugli animali e che mostrano anche evidenza di
attività promovente devono essere considerati cancerogeni completi;
4) anche una sola molecola della sostanza chimica ha
associata una probabilità di indurre tumori che può essere calcolata mediante
il modello linearizzato multistadio.
Osserva dunque il Tribunale che in realtà nella
comunità scientifica e' messo in discussione soprattutto l'assioma della
equivalenza alte-basse dosi; ed in proposito si ricorda l’affermazione di un
ricercatore di biologia molecolare (Ames) secondo la quale "vi sono sempre
più prove che la scissione cellulare causata dall'alto dosaggio, piuttosto che
dalla sostanza chimica in se', aumenti il tasso di positività poiché ogni volta
che una cellula si divide aumenta la probabilità che si verifichi una mutazione
e così aumentando in tal modo il rischio di tumori”, e si ricordano altresì gli
studi di Swemberg secondo cui a seguito delle sperimentazioni a basse dosi
effettuate "esiste la prova che bassi livelli di esposizione non sono
cancerogeni né per gli uomini né per i roditori".
Onde nella comunità scientifica si propone una
valutazione realistica del rischio che superi il postulato ritenuto estremo e
irrazionale che "nessuna dose è sicura" proprio alla luce dei
risultati sperimentali negativi alle basse dosi e altresì della osservazione
epidemiologica sulla base degli aggiornamenti delle coorti americane ed europee
da cui risulta che nessun lavoratore esposto per la prima volta c v m
rispettivamente dopo 1968 e dopo il 1972 risulta essere affetto da
angiosarcoma, così da far ritenere che
le esposizioni normativamente imposte e osservate sono sufficientemente
protettive ( Storm-1997).
In
conclusione secondo il Tribunale si può affermare che i criteri valutativi che
stanno alla base della valutazione del rischio, che ricorrono spesso a opzioni
di default, che non solo sono indimostrate, ma falsificate anche dai risultati
cui è pervenuta la comunità scientifica, possono tutt’al più essere utilizzati
a fini precauzionali ma non possono essere richiamati a fini conoscitivi in
particolare per accertare quale sia la dose idonea a produrre effetti oncogeni
sull’uomo.
Ad
analoghe conclusioni di incertezza a livello scientifico ai fini di utilizzo
nell’accertamento probatorio del nesso causale, perviene il Tribunale, dopo
avere analiticamente esaminato le posizioni dei consulenti dell’accusa e della
difesa e gli specifici studi della comunità scientifica internazionale, in
ordine al tema dei meccanismi molecolari e della carcinogenesi, sia
relativamente alla problematica della soglia che alla problematica degli organi
bersaglio.
Quanto
alla soglia, rimarca inoltre il Tribunale i risultati dello studio di Storm e
Rozman ( 1997) che ha esaminato 80 mila lavoratori esposti ai bassi livelli
dopo il 1968 negli Stati Uniti e dopo il 1972 in Europa e non ha osservato
alcun angiosarcoma, e che conclude ammettendo l'esistenza di una soglia che
resta avvalorata dalla considerazione delle informazioni derivanti dagli studi
epidemiologici e dagli stessi registri internazionali dei casi di tumore da cui
risulta per l'appunto che negli Stati Uniti non era stato accertato alcun
angiosarcoma nei lavoratori esposti per la prima volta al c v m a partire dal
1968, pervenendo gli autori alla conclusione che la riduzione delle esposizioni
entro il range e 0. 5 - 5 ppm possa ritenersi adeguatamente protettiva.
Gli
autori mettono anche in discussione l'ipotesi di default che l'uomo abbia una
suscettibilità alla angiosarcoma indotto da c v m pari a quella dei ratti
esposti: infatti non solo l'uomo sarebbe meno sensibile dei ratti ai
cancerogeni genetici in generale a causa della durata di vita più lunga, della
minore velocità del suo metabolismo basale e delle maggiori capacità di
riparazione del DNA, ma anche perché dai risultati sperimentali è stata
osservata un'incidenza di angiosarcomi tra i ratti almeno 100 volte superiore
rispetto all'uomo esposto al c v m e nell'ambiente di lavoro.
Da
parte del Tribunale si constata che tali ipotesi hanno il pregio di essere
compatibili con i dati epidemiologici disponibili, mentre le ipotesi
dell'assenza di soglia e della suscettibilità dell'uomo uguale o minore a
quella degli animali non hanno tale supporto e, anzi, si basano su postulati
che possono avere validità in un ambito prettamente precauzionale, ma sono
smentiti dall’osservazione scientifica, potendosi concludere pertanto che i
risultati delle osservazioni epidemiologiche e dei dati sperimentali proprio
perché convergenti hanno una loro
rilevanza sotto il profilo probatorio della presenza di una soglia di non
effetto del cvm o di una sua idoneità lesiva solo a concentrazioni di una qual
certa entità e che vengono individuati in 10 ppm (Swemberg), atteso che
peraltro dagli studi analizzati non emerge alcun dato dal quale ricavare che le
basse dosi vigenti successivamente alla oncogenità del c v m abbiano avuto un
qualsiasi effetto su incidenza, latenza o progressione dell’ angiosarcoma.
Comunque, sulla base delle opinioni espresse dai consulenti delle parti e dell'ampia
letteratura cui hanno fatto riferimento, il tribunale rileva come gli approdi
scientifici siano ancora parziali e non sempre coerenti con le ipotesi assunte,
sicchè appare difficile poter affermare che si siano raggiunti risultati di
conoscenza in base ai quali poter affermare che sussiste un meccanismo
specifico di azione del cvm nella causazione dei tumori.
Si evidenzia al riguardo che l' oncogenesi è una
scienza in rapida evoluzione, come e' messo in rilievo dai risultati degli
studi sperimentali o osservazionali
sopra riferiti, e non sempre i protocolli sperimentali sono basati su modelli
comuni. E' ancora in discussione il modello di cancerogenesi, e cioè se si
tratta di un processo multistadio in cui un numero pur limitato di alterazioni
genetiche sia alla base dell'insorgenza del tumore ovvero una più ampia
instabilità genetica che determinerebbe la mutazione di una gran parte dei geni
a seguito di un difetto dei sistemi di riparazione del DNA che favoriscono
l'instabilità del genoma: già queste due contrapposte o divergenti teorie
rendono problematico stabilire la rilevanza, pur osservata, di mutazioni ai
geni p53 e k-ras ai fini della causazione del tumore, affermandosi da questa
ultima teoria che la loro mutazione non sarebbe che la conseguenza delle
alterazioni della struttura del DNA causate dalla instabilità genetica.
Per quel che riguarda il cloruro di vinile la stessa
esistenza di un meccanismo d'azione specifico di tale sostanza è affermato dai
consulenti dell'accusa ma al tempo stesso dagli stessi viene ammesso che "i
dati non sono ancora sufficienti per suggerire che esista una modalità
specifica che permetterebbe di identificare l'azione del cloruro di vinile".
E d’altra parte la stessa relazione EPA (2000) manifesta (pag 52 e seguenti)
problematicità al riguardo, circostanza che non può non lasciare intendere
quale sia lo stato delle conoscenze ancora incerte e passibili di
falsificazioni nel loro progredire.
Peraltro ritiene il Tribunale non si possa negare il
dato di fatto che il cvm è cancerogeno, anche se non si conoscono i particolari
del suo percorso genotossico di cui emergono sperimentalmente in via ipotetica
alcuni tratti pur significativi: il cvm si metabolizza nel metabolita reattivo
"presumibilmente il CEO" che "diversi indizi indicano come
genotossico in quanto interagisce direttamente con il DNA" (in tal senso
il citato rapporto EPA a pagg.48-59).
E, quanto agli organi bersaglio, se ne rileva, sulla
scorta degli studi esaminati che lo hanno evidenziato, maggior incidenza e
specificità negli angiosarcomi di animali inalati e di lavoratori esposti a
cvm. Tale maggior incidenza non è stata invece individuata in altri organi
(polmone e cervello) attraverso studi metodologicamente corretti, condivisi e
reiterati. Si ricorda al riguardo che le mutazioni a p53 sono state osservate sia
in lavoratori esposti che non esposti pressochè in pari percentuale affetti da
epatocarcinoma e comunque tali mutazioni non solo non sono specifiche ma
"possono riflettere meccanismi endogeni piuttosto che essere indotte da
cancerogeni esogeni"(Weihrauch).
Osserva poi il Tribunale come la tesi accusatoria si sviluppi ulteriormente
deducendo l’ipotesi della concausalità, a tal fine sostenendo la potenzialità
dell'alcol di interagire con il cvm. Sulla scorta delle critiche dei consulenti
della difesa, metodologiche e basate su studi tossicologici e sulle complesse
dinamiche del processo metabolico del cvm e dell'alcol si ritiene però che non
sussistano dati scientifici su cui solidamente basare l'esistenza della
asserita interazione tra etanolo e cvm e, anzi, l'analisi delle reazioni
metaboliche ipotizzabili conduce a ritenere improbabile l'interazione suggerita
dai consulenti del pubblico ministero che non hanno dimostrato come verrebbero
a determinarsi gli effetti sinergici tra le due sostanze.
Sulla scorta dei dati e studi di cui sopra, il
Tribunale procedeva dunque alla valutazione dei fatti di cui in imputazione,
premettendo brevi cenni sulle note teorie della causalità, che riteneva
necessari perché nel processo che ci occupa vi sarebbe stata la insistita
tendenza a sostituire il modello classico di causalità con la causalità
generale, intesa come idoneità della sostanza chimica a produrre certi tipi di
evento, oltretutto senza preoccuparsi di verificare tutti gli apporti
scientifici e forzando i passaggi con ipotesi di default o presunzioni o
assimilazioni e, soprattutto, trascurando di verificare la effettiva incidenza
della sostanza sul singolo caso. Impostazione che, secondo il Tribunale, non
può trovare consenso posto che, in via di principio, la causalità generale non
può essere ritenuta di per sé sufficiente a spiegare il nesso causale tra la
malattia che ha colpito il singolo soggetto e l'idoneità della sostanza a
causarla.
Si afferma infatti che tra gli stessi epidemiologi vi
è largo consenso nel ritenere che i loro studi, che riguardano popolazioni
generali e si propongono scopi preventivi di tutela della salute pubblica, non
sono in grado di spiegare la causalità specifica e cioè di attribuire i singoli
eventi lesivi a singoli comportamenti.
Anche perché gli studi epidemiologici non si basano
su un censimento di casi provatamente causati dall'esposizione a sostanze
tossiche (soprattutto quando la pluralità dei casi dipende da una pluralità di
fattori eziologici), ma solo di differenze tra i casi osservati e i casi
attesi: in tale ambito la causalità generale ha un significato ancor più
circoscritto nei confini di tale scienza e indica più propriamente un eccesso
di rischio senza costituire in sé una prova della idoneità della sostanza a
provocare la malattia.
E' per questa ragione che non c'è alcuna possibilità
di distinguere tra i casi esposti chi non si sarebbe ammalato in assenza di
esposizione e chi invece si sarebbe ammalato egualmente. Infatti, salvo rari
casi (tra cui rientra oltre che il mesotelioma da asbesto, l'angiosarcoma per esposizione a c v m) le
neoplasie professionali non hanno carattere di specificità e non sono
distinguibili neppure istologicamente
sotto il profilo morfologico da quelle
extra professionali.
Si ritiene dunque che l'incertezza domina sul caso
singolo proprio perché la quasi generalità dei tumori ha cause in elevatissima
percentuale extraprofessionali ignote e gli scienziati non hanno ancora
compreso appieno il modello molecolare nella carcinogenesi e formulano pertanto
ipotesi per cui qualsiasi dichiarazione riguardo al ruolo di qualsivoglia
agente in quanto cancerogeno trova un limite nella sua ipoteticità. E si
richiamano concetti espressi da epidemiologici e dalla stessa EPA nonché studi
soprattutto negli USA che hanno messo in rilievo che solo una piccolissima
parte dei tumori è in realtà ricollegabile all'attività industriale (dall'1 al
3% secondo l'agenzia) mentre la percentuale residua è dovuta a cause diverse,
cioè all'esposizione a inquinanti diffusi nell'ambiente o all'ingestione di
inquinanti che passano nella catena alimentare il cui uso è normalmente
consentito. Ricordandosi altresì che
gli stessi consulenti della accusa pubblica e privata hanno concordemente
affermato che lo studio epidemiologico non può bastare perché suggerisce
inferenze eziologiche senza però
poterle dimostrare in rapporto ai singoli individui.
Se
dunque la causalità in epidemiologia, anche quando affermata dalle agenzie, non
solo riguarda sempre e solo il livello di popolazione e non del singolo, ma può
essere soddisfatta da evidenze scientifiche ancora deboli e incerte dovendo
assolvere a finalità precauzionali, sarebbe errato affidarsi, ai fini di
ritenere assolto ogni compito accertativo della causalità generale, alle valutazioni
e alle enunciazioni delle stesse: eppure i consulenti medico legali dell'accusa
pubblica e privata hanno assunto come dato indiscusso proprio le indicazioni di
IARC 1987, senza neppure tenere conto degli studi successivi e in particolare
degli aggiornamenti del 1991 e del 2000 illustrati in aula dai loro coautori
dott.Simonato e dott.Boffetta.
Diverso invece l’approccio, in quanto, una volta
chiarito il contributo che l'epidemiologia, attraverso il calcolo del rischio
attribuibile, può dare alla soluzione del problema, la sussistenza del nesso
causale per l’attribuzione del fatto contestato va argomentata giuridicamente
considerando tutte le implicazioni e considerazioni che vanno ben oltre quelle epidemiologiche, e decisa dal giudice
sulla scorta dei principi di diritto ai quali il Tribunale si ispira
enucleandoli dopo excursus anche relativo alla giurisprudenza e dottrina
americana che ben metterebbero in rilievo, pur nell'ambito del processo civile,
le spinte che tendono a superare il modello meccanicistico di causalità evocate
dallo stesso P.M.: l'esigenza di una tutela delle vittime, dei beni della
salute e della vita umana.
Osserva il Tribunale che seppur detti beni devono
essere tenuti senz'altro in alta considerazione, e seppur queste sono le motivazioni
più o meno esplicite che spingono a orientamenti che introducono nel processo
ricostruttivo del nesso causale istanze di prevenzione generale (e si cita S.C
12/7/91 -sez 4° cui si rifà il P.M.), neppure bisogna trascurare che
nell'ambito del processo penale vi sono altri beni da tutelare che sono quelli
della responsabilità personale e della libertà. Ritiene dunque il Tribunale di
uniformarsi ai più recenti e più rigorosi orientamenti della giurisprudenza
della S.C. così potendosi enucleare i principi in diritto applicati: le
esigenze di certezza e garanzia, il rispetto dei principi di legalità e
personalità della responsabilità penale, di rango costituzionale, devono essere
soddisfatti mediante il mantenimento di un rigoroso modello causale ove il
rapporto di condizionamento sia spiegato o daleggi universali, secondo il
modello nomologico-deduttivo, o da legi di copertura scientifico-statistiche,
secondo il modello statistico-induttivo.
Anche le leggi statistiche possono essere utilizzate
nella spiegazione dell’evento purché il coefficiente percentualistico consenta
di inferire l’explanandum con quasi certezza sulla base di un arelazione
logico-probabilistica, e, al tempo stesso, si possa razionalmente escludere che
l’evento si sia verificato nel caso concreto per cause esclusive diverse dalla
condotta dell’agente;la mancanza di certezze scientifiche o comunque di
consenso generalizzato nella comunità scientifica non legittima il ricorso a
criteri meramente probabilistici di grado difficilmente determinabile, ancorché
qualificato “alto” o “elevato”. Il ricorso a tali criteri rischia infatti di
introdurre nell’accertamento del nesso causale un libero convincimento del
giudice, sia pure nobilitato dallo scopo di soddisfare esigenze ed attese di giustizia;dalle scienze e dai limiti di
conoscenza che esse pongono non si può prescindere; si può solo pretendere
l’adozione dei seguenti rigorosi criteri:
1) le inferenze causali devono essere tratte dalle
scienze che attraverso un rigoroso e corretto metodo scientifico apportino una
effettiva e affidabile conoscenza scientifica;
2) l'affidabilità delle conoscenze, sia pure suscettibili in
futuro di ulteriori apporti che possono modificarle o addirittura falsificarle,
è determinato dalla validazione che riceve e dalla accettazione generale o
preponderante nella comunità scientifica nonchè dalla verifica empirica delle
sue spiegazioni mediante il controllo dell'ipotesi attraverso la confutazione
così da raggiungere una "corroborazione provvisoria ";
3) le conclusioni debbono essere comunque verificate
nel loro progressivo evolversi e sempre confrontate con quelle di altre
discipline per accertare la coerenza complessiva del risultato raggiunto;
4) l’incertezza scientifica che dovesse, comunque, residuare
va risolta sia nell'ambito del rapporto causale sia nell'ambito della
imputabilità soggettiva secondo la regola di giudizio che la responsabilità
deve essere provata " oltre il ragionevole dubbio ", regola di
giudizio che oramai fa parte del nostro ordinamento;
5) la causalità generale, intesa come idoneità della
sostanza chimica a produrre certi tipi di evento, non può essere ritenuta di
per sé sufficiente a spiegare il nesso causale tra la malattia che ha colpito
il singolo soggetto e l’idoneità della sostanza a causarla. L’accertamento
della causalità non può essere ricavato dal solo fatto che la condotta abbia
aumentato il rischio del verificarsi dell’evento. Ciò implicherebbe una
illegittima confusione tra il piano soggettivo e quello soggettivo, facendo dedurre
l’attribuibilità dell’evento lesivo dall’inosservanza di norme cautelari;
6) gli studi epidemiologici, avendo ad oggetto popolazioni
generali e proponendosi scopi preventivi di tutela della salute pubblica, non
sono assolutamente in grado di spiegare la causalità individuale e cioè di
attribuire i singoli eventi lesivi a singoli comportamenti.
Osserva peraltro il Tribunale come nella specie
proprio la causalità generale da esposizione a clorulo di vinile è stata
utilizzata dall’accusa ai fini di mostrare non solo la idoneità lesiva della
sostanza, ma altresì per indicare gli indici di rischio relativo per
ciascuna neoplasia che si è ritenuta in
qualche misura, forte o debole , associata all'esposizione. E però, ritiene il
Tribunale, dagli stessi studi epidemiologici, tossicologici e sperimentali
risulta una causalità generale debole, per lo più al di sotto non tanto del
raddoppio del rischio, come almeno pretende la giurisprudenza civilistica
americana del più probabile che no, ma addirittura della significatività
statistica, ma ciò nonostante sempre e
comunque assunta come ineludibile
presupposto della causalità individuale
anche di fronte a fattori di rischio alternativi di alta potenza
esplicativa che sono stati valutati
come concausa della malattia e mai come fattori causali di per sè sufficienti e
necessari.
Si osserva al proposito che le conclusioni di IARC
1987, punto di partenza per le imputazioni e di approdo per le conclusioni del
PM, salvo alcuni aggiustamenti quantitativi dell'ultimo momento, che indicavano
una associazione tra esposizione a CVM e tumori al fegato (angiosaromi e
carcinomi epatocellulari), tumori polmonari, tumori cerebrali, tumori del
sistema emolinfopoietico, melanomi, hanno subito rivisitazioni critiche e ampi
aggiornamenti per la maggior parte incorporati nei due studi multicentrici
americano ed europeo ( Wong 1991; Simonato 1991), ulteriormente aggiornati di
recente (Ward 2000 e Mundt 2000 ) e ampiamente discussi in sede dibattimentale.
Sulla base di tali studi, considerando anche i risultati dello specifico studio
sulla coorte di Porto Marghera, che hanno evidenziato assenza di eccesso o non
significatività dell’eccesso per i tumori al cervello, del sistema
emolinfopoietico, del fegato diversi dall’angiosarcoma, del polmone, nonché per
la cirrosi epatica e per le malattie dell’apparato respiratorio, si osserva che
gli stessi consulenti epidemiologici
dell’accusa(si cita l’ultima relazione presentata dai consulenti Comba- Pirastu) avevano escluso o comunque
espresso dubbi e perplessità in ordine alla correlabilita' con le sostanze in
considerazione quantomeno dei tumori del cervello, del sistema
emolinfopoietico, dei melanomi, ma si potrebbe aggiungere anche del tumore
della laringe .
Ritiene invero il Tribunale che rispetto a queste
patologie, sulla base degli studi epidemiologici complessivi e più aggiornati e
delle più perentorie conclusioni cui
erano pervenuti gli stessi Simonato e Boffetta, autori dello studio multicentrico
europeo e del successivo aggiornamento, esaminati nel corso del dibattimento,
può affermarsi che non sussiste la prova di una causalità generale e cioè a
dire della idoneità del c v m e del PVC a provocare tali tumori. Si ritiene
infatti, che l'evidenza globale degli studi epidemiologici più recenti e più
significativi (e, come dichiarato da Simonato su espressa domanda, bisognava
”non considerare l'evidenza di Porto Marghera diversa dal resto dell'evidenza”)
individua una associazione forte tra esposizione a c v m e angiosarcoma epatico e eccessi di rischio
nello svolgimento di talune mansioni (autoclavisti e insaccatori) esposte ad
elevate concentrazioni per l’epatocarcinoma e per il tumore polmonare mentre le
altre associazioni, pure ipotizzate negli studi passati cui aveva fatto
riferimento IARC, non sono state confermate.
Ma il PM non ne avrebbe tratto le logiche e conseguenti conclusioni, in quanto, pur
avendo al termine della requisitoria presentato le schede riferite a 263 parti
offese relative a 311 patologie rispetto alle 721 patologie riferite a 542
parti offese introdotte con il decreto di rinvio a giudizio e con le successive
contestazioni supplettive nel corso del dibattimento, tuttavia, non ha ritenuto
di fornire una spiegazione di questa modificazione della contestazione originaria,
limitandosi ad affermare che i casi non ripresentati avrebbero avuto comunque
un loro rilievo nell'ambito dei reati di strage e di disastro contestati.
Sono stati eliminati tutti i tumori gastrici e del
pancreas che erano stati associati alla esposizione a dicloroetano, ed altresì
le broncopatie e le broncopneumopatie
(87), nonchè le pneumoconiosi collegate all'esposizione a PVC e, soprattutto,
quest'ultime indicate come predittive del tumore polmonare di cui dagli studi
epidemiologici è stato rilevato un eccesso nella mansione di insaccatore che
supporterebbe l’associazione, prendendo atto il PM che anche IARC 1999
concludeva per "inadeguata evidenza di cancerogenicità nell'uomo". Le
altre patologie (neoplastiche e non ) siano state ritenute o
non sussistenti a seguito della esame della documentazione medica e
dell'anamnesi generale e lavorativa ovvero non correlate all'esposizione.
Ma, secondo il Tribunale la logica conseguenza
sarebbe che essendo insussistenti o comunque non causalmente riconducibili esse
non possono avere rilievo neppure nelle fattispecie più ampie di pericolo per
la pubblica incolumità cui il pubblico ministero ha fatto riferimento.
Si osserva che alla debolezza delle evidenze epidemiologiche
il PM ha cercato di supplire facendo ricorso alla biologia molecolare e ai
risultati ancora incerti, contraddittori e lacunosi che allo stato è in grado
di offrire, in particolare sostenendo la tesi dell’azione sinergica tra i
fattori di rischio noti ( alcool, epatiti , fumo ) e le sostanze in discussione
che in tal modo assumerebbero il ruolo di concause potenzianti gli effetti
lesivi: non considerando che nel nostro ordinamento la concausa ha lo stesso
statuto epistemologico della causa con la conseguenza che se non è dimostrato
che un fattore è causa di un evento neppure può assumere la veste di concausa
Il PM nessun rilievo ha invece dato all'evidenza epidemiologica e
sperimentale che indiscutibilmente individua negli effetti del cvm un rapporto
dose–risposta la cui considerazione, da un lato, avrebbe ricollegato gli eventi
alle esposizioni di un lontano passato e, dall’altro, lo avrebbe indotto ad
escludere la rilevanza causale delle esposizioni successive al 1974.
Infatti in tutte le coorti, anche in quella in considerazione in questo processo,
i tumori rilevati e in particolare l'angiosarcoma, ma anche l'epatocarcinoma in
coloro che hanno svolto la mansione di autoclavisti e il tumore al polmone in
coloro che hanno svolto solo la mansione di insaccattori, sono tutti
riconducibili ad elevate o elevatissime esposizioni che erano quelle proprie
degli anni '50 '60 e primi anni '70 sino alla scoperta della cancerogenità
della sostanza. E si citano al riguardo i già ricordati studi epidemiologici
Simonato, Ward, Mundt, ma anche Martines e Mastrangelo dai quali si può
individuare un accordo uniforme e assoluto tra tutti i consulenti che hanno
partecipato al presente processo, in ordine a tale conclusione. Pacifico,
infatti, che nessun angiosarcoma del fegato (che è il tumore tipico da esposizione
a c v m) si è manifestato in lavoratori assunti successivamente al 1973 nella
corte europea e successivamente al 1967 nella corte statunitense e in quella di
Porto Marghera.
Si osserva poi che se si considera che la dose cumulativa
più bassa a cui è stato individuato un angiosarcoma (oltretutto di tipologia
non certa ) è quella di 288 ppm pari a circa 28 ppm circa di esposizione
giornaliera, si può affermare che alle esposizioni già presenti nella coorte di
Porto Marghera nel 1974, e ancora più alle esposizioni degli anni successivi,
pacificamente rientranti nei limiti dapprima adottati e in seguito imposti di 3
ppm giornalieri (e anche ampiamente al di sotto degli stessi come documentato
dalle rilevazioni dei gascromatografi) non risulta esservi prova di una
efficienza lesiva del cvm. In tal senso sarebbero convergenti anche gli studi
tossicologici e di oncogenesi che pure individuano un rapporto dose-risposta
per il cvm (si ricordano gli esperimenti di Maltoni e gli studi di Weinrauch e
di Swemberg secondo cui al di sotto di dosi cumulative di 10 ppm non è stata
accertata una idoneità lesiva del c v
m.
I consulenti del pubblico
ministero relativamente al problema della idoneità lesiva del cvm alle bassi
dosi non hanno potuto smentire né i risultati epidemiologici né quelli
sperimentali. Si sono limitati ad affermare "che non si può
escludere", "che la soglia al di sotto della quale non si sono
osservati tumori non è una soglia
effettiva ma una soglia apparente... perché non si possono fare degli studi che
dimostrino l'inesistenza di una soglia perché bisogna andare nell'infinitamente
piccolo".. (Berrino); “attualmente
una relazione tra esposizione e cancerogenità delle sostanze genotossiche è troppo confusa per offrire
linee guida sulla soglia.... e perciò non vi è possibilità di uscire
dall'atteggiamento di essere molto conservativi e sull'esposizione e sul
rischio e quindi accettare che non vi è
una dose sicura" ( Terracini); "con questo tipo di modello non riesco
a vedere l'effetto alle basse dosi e quindi sulle basse dosi non posso dire
assolutamente nulla " (Martines).
Resta il
fatto, e questo rileva nel processo penale, dell’assenza di sicura prova. Si
osserva infatti che, per quanto concerne gli angiosarcomi e gli epatocarcinomi
riscontrati negli autoclavisti nonché i tumori del polmone negli insaccattori e
nei solo insaccattori, ammesso che questi ultimi tipi di tumore, a differenza
del primo, abbiano significatività statistica oltre che plausibilità biologica,
si sono verificati tutti a seguito delle alte esposizioni risalenti agli anni
50 e 60 e prima parte degli anni '70 e cioè a quelle esposizioni elevate
antecedenti alla conoscenza della cancerogenità del cvm.
Nessun tumore del fegato e del polmone ha interessato
lavoratori della corte di Porto Marghera assunti dopo il 1967 e da tale data
oramai è trascorso interamente il periodo di latenza non solo medio ma
approssimantesi anche alle punte medio-alte rilevate.
Conseguentemente
si può trarre una prima incontestabile conclusione: alla stregua delle analisi epidemiologiche aggiornate l'idoneità
lesiva del c v m si è rivelata ad alte o elevatissime dosi mentre non sussiste la prova di una efficienza lesiva anche a basse dosi e in particolare
a quelle esistenti dal 1974 in poi.
Le
incertezze della scienza in proposito o le mere ipotesi o i postulati fondati
su preoccupazioni cautelative, seppure possano costituire dei punti di partenza
per ulteriori approfondimenti, non apportano nessun dato di conoscenza
utilizzabile in ambito processuale dove
ci si deve attenere ai fatti accertati e provati. Da tenere in considerazione
dunque le sole esposizioni eziologicamente rilevanti dal punto di vista
temporale, traendone tutte le conseguenze sia sotto il profilo della
riferibilità delle imputazioni agli imputati tutti tratti in giudizio, sia sotto il profilo della
addebitabilità per colpa degli eventi.
Infatti le condotte cui riferire causalmente gli
eventi sono antecedenti al 1974 e, quindi, a epoca precedente alla conoscenza
della canceroginità del cvm. Mentre per il periodo successivo, non sussistendo
la prova di una idoneità lesiva di tale sostanza alle basse dosi successive,
immediatamente contenute nei limiti imposti dalle norme cautelari e poco dopo
ridotte anche al di sotto degli stessi (e quindi nell'ambito di un rischio
consentito nell'attività di impresa), non si ravvisano neppure condotte cui causalmente riferire e colpevolmente
addebitare tali eventi.
Invece, si osserva, il PM compie una vera e propria
traslazione dei piani temporali perché rappresenta nella imputazione “un quadro
del passato” che ci riporta a condizioni lavorative (e a conseguenti addebiti
di colpa) che sono quelle proprie degli anni ’50-’60, e propone all’esame
dibattimentale tali situazioni come verificatesi nel successivo ampio arco temporale
che va dal 1970 al 2000. In tal modo, oltrechè non selezionare, alla stregua
delle risultanze epidemiologiche, le patologie correlabili, neppure il PM
ha adottato un criterio selettivo per
individuare i soggetti cui fondatamente addebitare gli eventi lesivi : si è
scelta invece - come è stato reiteratamente affermato dalle difese - la
strategia “della massificazione degli eventi e delle condotte“: indubbiamente
“fatto“ di maggior evidenza e impatto verso l’esterno , ma di nessun fondamento
in “diritto”. Ma l'accusa ha obbiettato, in diritto, che all'epoca erano
vigenti nel nostro ordinamento i DPR n° 547/1955 e n°303/1956- di cui si
parlerà più diffusamente nella parte concernente la colpa- che ricomprendevano
norme che dovevano considerarsi cautelative rispetto ai rischi che hanno
determinato gli eventi.
Ma il Tribunale già osserva che allora si ignorava la
pericolosità e la canceroginità sia del gas (cvm) sia delle polveri (pvc) che
si diffondevano nell'ambiente di lavoro,
e quindi la rappresentazione e la prevedibità degli eventi poi
verificatisi, essendo il solo rischio noto alla metà degli anni 60 la sindrome
di Raynaud, evento di tipo tutt’affatto diverso, patologia che determinava
disfunzioni alla circolazione delle mani e che
veniva a colpire i lavoratori che per le loro mansioni venivano a
diretto contatto con la sostanza nella pulizia delle autoclavi o dei filtri o
nell’insacco.
Dunque non appare condividibile l'assunto accusatorio
secondo cui quelle norme richiederebbero al datore di lavoro, qualunque sia la
nocività, prossima o remota del fattore
inquinante, di mettere in atto ogni strategia possibile per eliminarlo o neutralizzarlo, assumendosi
diversamente la responsabilità di tutte
le conseguenze potenziali derivanti da quella violazione ancorché in quel
momento impreviste o imprevedibili.
Questa tesi dilata sino alla imputabilità oggettiva il
concetto di responsabilità colposa poiché non si fa carico neppure di assumere
come elemento essenziale non tanto la prevedibilità dell'evento tipico, ma
neppure la rappresentazione dell'evento generico di un grave danno alla vita o
alla salute: non si può eludere il problema della conoscenza o conoscibilità
della nocività, e ancor più della cancerogenicità della sostanza (e nel caso
particolare del cvm) in un determinato momento storico sia in ambito
scientifico che in quello industriale secondo il modello del c.d. agente
modello.
Ma soprattutto, osserva il Tribunale, ancor meno è legittimo
confondere il piano soggettivo con quello oggettivo deducendo dalla
inosservanza di quelle norme di cautela generica la attribuibilità dell'evento
lesivo "con alta probabilità riconducibile proprio all'inalazione delle
polveri o del gas", così ritenendo decisivo per l'accertamento della
causalità il solo fatto che la condotta omissiva abbia astrattamente aumentato
il rischio del verificarsi dell'evento.
La dottrina e la
giurisprudenza prevalenti escludono che nell'ambito dell'accertamento del nesso
causale possa farsi ricorso alla teoria dell'aumento del rischio, "non
essendo possibili ibride commistioni di elementi di carattere soggettivo"
poichè dalla problematica oggettiva del nesso di causalità devono rimanere
escluse tutte le questioni afferenti la prevedibilità che attengono
propriamente all'elemento psicologico"( Cass 17/12/93-Ianieri-).
Ma pur seguendo il P.M. su tale piano ci si dovrebbe
interrogare, secondo il Tribunale, su quale sia stata nel 1974 la condotta
antidoverosa e quale avrebbe dovuto essere per contro la condotta corretta che, se posta in essere, avrebbe
impedito il verificarsi dell'evento. Secondo l'ipotesi d'accusa i comportamenti
antidoverosi sarebbero stati principalmente sia l'omessa fermata degli impianti
- o comunque un adeguato e tempestivo intervento sugli stessi per ridurre l'esposizione
nociva e cancerogena - sia l'omesso allontanamento dai reparti o dalle
lavorazioni a rischio dei lavoratori maggiormente esposti ( in particolare
autoclavisti e insaccatori).
Ammesso per pura ipotesi che tali condotte omissive si siano
verificate pur in presenza della conoscenza del rischio tossico e oncogeno , si
tratta di verificare se avrebbe potuto
il comportamento alternativo che si esige evitare il verificarsi dei tumori
epatici e polmonari in quei lavoratori che erano stati esposti, come risulta
dalle consulenze epidemiologiche e dalle schede personali prodotte nel corso
degli esami medico-legali, alle elevate concentrazioni degli anni 50 e 60 . I
dati di conoscenza scientifica ci dicono: a) che il cvm è una sostanza che
agisce secondo un rapporto dose risposta e che le esposizioni cumulative più
elevate sia per quantità sia per durata sono quelle maggiormente responsabili
degli effetti oncogeni; b) che secondo il modello carcinogenetico multistadio
il cvm sarebbe un cancerogeno iniziante e cioè inducente una mutazione
tendenzialmente irreversibile nei primi stadi del processo tumorale ; c ) che
il periodo di esposizione lavorativa e di latenza, anche sottratto il periodo
di "lag"( che è il periodo intercorrente tra la presumibile epoca
della induzione a seguito di esposizione alla sostanza cancerogena e la
manifestazione del tumore calcolato in circa 15 anni sulla base della
letteratura esistente), sarebbe rispettato per tutti i lavoratori che hanno contratto i tumori così da poter ragionevolmente
ritenere che le esposizioni rilevanti a determinare i tumori siano quelle degli
anni 50-60. Ne consegue che all'epoca
in cui i comportamenti doverosi erano concretamente esigibili essi non
avrebbero potuto evitare gli eventi verificatisi o, se si vuole, non sussiste
una prova dimostrativa avente elevata
probabilità che il comportamento alternativo avrebbe impedito o ritardato il
verificarsi dei tumori.
Ma il Tribunale, ha intrapreso una diversa soluzione
della problematica attinente la causalità: tutti i dati di conoscenza
introdotti nel presente processo, molteplici e aggiornati, valutati
complessivamente, non consentono di ritenere sussistente una associazione
causale tra cvm-pvc e tumori diversi dall'angiosarcoma e patologie che non
siano la sindrome di Raynaud e l'acrosteolisi nonchè tipiche epatopatie
interessanti l'endotelio.
A tali fini il Tribunale ritiene di effettuare, con
specifico riferimento alla coorte di Porto Marghera, un esame più dettagliato e
una valutazione critica dei dati epidemiologici e delle risultanze sperimentali
anche di biologia molecolare nonché di approfondire le caratteristiche
nosologiche e morfologiche delle neoplasie alla luce dei contributi dei consulenti medico-legali e anatomo
patologi. E conclude ritenendo non individuati fattori di rischio
professionale, né ipotizzabile un ruolo concausale dell’esposizione lavorativa
proprio perché non provata la causalità del fattore professionale, per i tumori
del laringe, del sistema linfatico e omopoietico, del cervello, per i melanomi,
ma anche per i tumori del polmone, e, quanto al fegato, per l’epatocarcinoma.
Circa il tumore al polmone il tribunale ha ritenuto
non sussistere l'evidenza epidemiologica e neppure la plausibilità biologica e
ha accertato perdipiù la presenza in 11 dei 12 casi di un rilevante fattore di
rischio extraprofessionale per elevato tabagismo.
Con riferimento all’epatocarcinoma, il Tribunale, pur
prendendo atto dei risultati degli studi epidemiologici che individuano eccessi
statisticamente significativi esclusivamente nei lavoratori alto esposti che
hanno svolto mansioni di autoclavisti, e pur prendendo atto anche dei risultati
degli studi sperimentali citati e altresì delle osservazioni cliniche e
istologiche sui casi in letteratura dibattuti che individuirebbero carcinomi
epatocellulari in esposti a c v m, ritiene che non possa dirsi raggiunta la
prova dell'attribuzione causale di tale tumore all'esposizione al c v m.
E ciò, non solo perché gli studi epidemiologici riguardano
ancora un piccolo numero di persone sia nella corte europea (10 soggetti ) sia
in quella di Porto Marghera (4 autoclavisti) con problematiche ancora aperte
sulla precisione della stima e con andamenti di rischio non particolarmente
elevati se si tiene conto della eziologia variegata e dell’alta incidenza dei
plurimi fattori di rischio, ma soprattutto perché in tutti i casi esaminati
mediante indagine autoptica e discussi in dibattimento non sono state
evidenziate le tipiche lesioni indotte dal c v m, e per contro sono state invece
individuate le lesioni riferibili ad accertati fattori noti di induzione di
tale tumore presenti in tutti i casi di Porto Marghera (epatiti virali b e c,
elevato consumo di alcol, cirrosi) che proponevano giustificate soluzioni
alternative.
Alla logica della falsificazione si sono richiamati gli
stessi consulenti dell’accusa, allorquando hanno affrontato il problema se sia
possibile pervenire dal dato epidemiologico a livello di popolazione a quello
individuale, e la risposta è stata cautamente affermativa, ma ristretta
sostanzialmente ai casi in cui non si è
in grado di fornire una spiegazione alternativa, cioè solo se si è in grado di
affermare che il singolo soggetto esposto a cvm non era esposto ad altro fattore
eziologico che giustifichi la insorgenza della patologia indipendentemente dal
cvm.
Analogamente si ritiene non provato il nesso causale per la
cirrosi, osservandosi che tutti i casi di cirrosi osservati nella casistica di
Porto Marghera per i quali era disponibile l'istologia hanno mostrato evidenza
di processi necroinfiammatori e in tutti i casi l'esame istologico ha
consentito anche di identificare l'agente eziologico coincidente con uno dei
noti fattori di rischio (infezione virale b o c, consumo di alcool).
Proprio la presenza di tali fattori di rischio ha indotto i
consulenti del pubblico ministero a
ipotizzare comunque solo un ruolo concausale del c v m. Ma, osserva il
Tribunale, l'esame istologico non ha evidenziato in nessun caso di cirrosi
lesioni tipiche dell'esposizione a c v
m: in particolare nei casi riguardanti i lavoratori Zecchinato e Simonetto che,
secondo i consulenti del PM, avrebbero sviluppato in sequenza prima cirrosi e
successivamente angiosarcoma epatico, così da avvalorare la associazione tra
tale malattia epatica e esposizione a c v m , tale processo patologico non ha
trovato conferma. Infatti, l' esame istologico di Zecchinato dimostra fibrosi
epatica congenita e angiosarcoma ma non evidenza di cirrosi e quello di
Simonetto dimostra epatocarcinoma in cirrosi con emocromatosi e non
angiosarcoma: nel primo caso la cirrosi è esclusa, nel secondo caso la cirrosi
ha origine in una malattia metabolica congenita e evolve in epatocarcinoma.
Analoghe, ancora, le conclusioni per le epatopatie
non caratterizzate da tipiche lesioni da cvm, relativamente alle quali la
letteratura esaminata evidenzia associazione non già all’esposizione a cvm,
bensì a consumo alcoloico o a epatiti virali.
In conclusione, osserva il Tribunale che
all’osservazione epidemiologica gli eccessi significativi che hanno evidenziato
un associazione forte riguardano i tumori epatici, angiosarcoma e
epatocarcinoma, e quindi il fegato appare come l’unico organo bersaglio del
cvm. Entrambe tali neoplasie hanno interessato lavoratori esposti ad elevate
concentrazioni di cvm, risalenti tutte agli anni ’50-’60, perlopiù svolgenti le
mansioni di addetti alle autoclavi. Precisa tuttavia che le evidenze
epidemiologiche presentano differenze di rilievo per la diversa incidenza dei
due tumori e per la presenza di una variegata molteplicità di fattori
confondenti che legittimano spiegazioni alternative per l’ epatocarcinoma,
rispetto a cui le analisi stratificate che mettono in rilievo una relazione
dose risposta sono ancora non persuasive e abbisognano di conferme per soddisfare
il criterio di riproducibilità del dato.
Altresì per quest’ultimo si pone un problema di
plausibilità biologica inquantochè non è noto neppure a grandi linee il
meccanismo di induzione di tale tumore, che interessa le cellule epiteliali, da
parte del cvm che, invece, tipicamente viene a colpire le cellule endoteliali :
si dovrebbe dare una spiegazione plausibile della circostanza che una medesima
sostanza produce neoplasie nettamente diverse sul piano morfologico ancorché
interessanti lo stesso organo. Spiegazione scientifica che non è stata offerta
neppure a livello sperimentale.
Eguali considerazioni merita l’ipotesi del cvm come
fattore concausale che interverrebbe cioè a interagire con i noti fattori di
rischio (alcool, epatite b e c, cirrosi): lo stato delle conoscenze non consente di pervenire a nessuna
conclusione in ordine alla sussistenza di tali meccanismi sinergici.
Il ricorso alla concausalità non può essere neppure
un espediente per sfuggire alla prova della efficienza causale esclusiva del fattore professionale posto che il
nostro ordinamento (art 41 c p) non autorizza l’assunzione di un “modello
debole “di causalità e lo statuto epistemologico della concausa impone che
anch’essa trovi adeguata spiegazione in leggi di copertura.
Pertanto trovano spiegazione
causale con riferimento alle elevate esposizioni a cvm solo gli angiosarcomi (otto) e, tra le patologie non neoplastiche,
le epatopatie caratterizzate dalle tipiche lesioni da cvm (cinque) e, infine,
le sindromi di Raynaud e/o acrosteolisi (dieci).
Tanto
ritenuto in ordine alla problematica del rapporto eziologico tra esposizione a
cvm e a polveri di PVC ed eventi contestati, si addentra poi il Tribunale nella
disamina degli impianti e sistemi di lavorazione del cvm, PVC e DCE in Porto
Marghera ponendoli in relazione alle conoscenze sulla tossicità e canceroginità
di dette tali sostanze, procedendo quindi alla valutazione delle condotte
contestate, per verificarne la sussistenza in relazione altresì agli specifici
addebiti contravvenzionali, e per desumerne o meno la configurabilità della
colpa nell’analisi altresì delle singole e specifiche posizioni degli imputati.
In diritto, peraltro, previamente
esclude la configurabilità nel nostro ordinamento del contestato delitto di strage
colposa secondo l’accusa da ritenersi punita "dall'articolo 449 in
riferimento all' articolo 422 c p". Ricordato che appunto secondo
l’accusa, sulla scia di parte della dottrina, l’accento andrebbe posto
sull’articolo 449 cp che consentirebbe di ricostruire un autonoma fattispecie
aperta di disastro innominato che si riempie via via di contenuto attraverso il
rinvio che tale norma fa ai disastri nominati di cui al capo primo e alle altre
figure di disastro indicate nel capoverso dell'articolo 449 cp, ritiene invece
il Tribunale di seguire il diverso orientamento che esclude la sussistenza
della strage colposa. Si osserva infatti, richiamandosi al riguardo le ritenute
fondate critiche della difesa, che il dato testuale dell'articolo 449 c p,
nell'incriminare la causazione colposa di un incendio (articolo 423 c p) o di
altro disastro preveduto dal capo primo del titolo sesto, ha operato un
richiamo selettivo ad alcune, e non a tutte le figure di cui al capo primo,
individuandone una specificamente (l'incendio) e le altre con la denominazione
di genere " disastro". Ha individuato nominativamente l'incendio
perché la norma regolatrice di tale fattispecie è la prima nella successione
delle norme relative ai "disastri" e costituisce anche il limite
iniziale della serie delle disposizioni richiamate.
Ritiene
invece il Tribunale corretta la prospettata configurabilità del delitto di
disastro innominato colposo, disattendendo, quanto a tale reato, le critiche
della difesa. Premesso che in punto di fatto il pubblico ministero, come ha
chiarito anche nel corso della sua requisitoria, è ricorso a tale fattispecie
per utilizzarla come "trait d'union" tra i due capi di imputazione e,
anzi, per configurare un unico disastro in quanto " l'attività di industria
e di impresa ha esplicato i suoi negativi influssi ed effetti sia all'interno
che all'esterno della fabbrica " e cioè provocando lesioni personali e
morte ai lavoratori esposti alla sostanza oncogena e altresì determinando un
grave inquinamento dei sedimenti e delle acque nei canali industriali e nelle
acque di falda sottostanti le discariche con tutte le conseguenze che ne sono
derivate anche alla ittiofauna, si è infatti rilevato dalla difesa che,
riferendo il disastro anche ad eventi interni allo stabilimento, riuscirebbe
difficile tracciare il limite rispetto al disastro correlato all'articolo 437
comma secondo c p e che, inoltre, richiamando l'inquinamento delle falde e
dell'ittiofauna vi sarebbe una sovrapposizione rispetto ai contestati reati di avvelenamento e di
adulterazione colposa di acque e di sostanze alimentari, e si è sostenuto che
ad integrare la fattispecie non è sufficiente un qualsiasi pericolo, ma
esclusivamente un pericolo che deriva da una atto diretto a cagionare un
disastro (comma primo) o integrato dalla verificazione dell'evento disastroso
(comma secondo).
Ma ritiene
il Tribunale che una siffatta ricostruzione della fattispecie non sia
condividibile laddove nel reato di disastro innominato si ritengano, quali
elementi necessari alla sua definizione, una sia pure relativa contestualità
degli eventi e la loro determinazione da causa violenta. Elementi, questi,
specificativi e non costitutivi, tali essendo invece la gravità e la
diffusività degli eventi nell'ambito di una comunità estesa, così da essere
idonei a concretamente porre in pericolo la pubblica incolumità, eventi
determinati da condotte anche protratte nel tempo che hanno, ciascuna con
efficienza causale, realizzato con attività predisponente o aggravante la
situazione di rischio. L’evento può verificarsi solo quando si siano
determinate un complesso di condizioni: in tal caso è irrilevante verificare se
i fattori causali di quel complesso di apporti sia prossimo, remoto o
concomitante rispetto alla verificazione dell'evento poiché anche in tal caso
ricorre il principio di equivalenza delle cause diacronicamente succedutesi (
art.41cp).
E nel caso
che ci occupa il rischio costituito dall'esposizione a cvm ha causato gli otto
angiosarcomi contestati , le cinque epatopatie ad essa correlabili, le dieci
sindromi di Raynaud/acrosteolisi, in tal modo dimostrando di avere idoneità
lesiva dell'integrità fisica e di avere efficienza diffusiva nell'ambito della
comunità dei lavoratori esposti alle alte dosi di tale sostanza e addetti alle
mansioni più a rischio. Idoneità lesiva venuta meno con la drastica riduzione
delle esposizioni sin dal 1974.
Il
Tribunale esclude infatti completamente la configurabilità dei delitti
contestati in relazione alle condotte successive al 1973, osservandosi che, per
come emerso dall’istruttoria dibattimentale, l’accertata drastica riduzione
delle esposizioni a partire appunto dal 1974, avrebbe fatto venir meno
l’idoneità lesiva della sostanza ed ogni situazione di rischio per l’incolumità
pubblica. A sostegno di tale conclusione il Tribunale si dilunga nell’analisi
delle risultanze processuali in relazione alle conoscenze sulla tossicità e
canceroginità del cvm, ai processi produttivi nei singoli reparti, agli
interventi di manutenzione e di modifica degli impianti, volti a limitare le
esposizioni dei lavoratori, alle misure di prevenzione personale predisposte,
in particolare per la tutela degli insaccatori ed autoclavisti.
Ne
consegue che il predetto reato si ritiene causalmente riferibile a quegli
imputati che ricoprivano nell'epoca in considerazione (1969-1973) posizioni di
garanzia e, in tale ambito temporale rimane circoscritto, perché per il periodo
successivo viene meno anche l'efficienza causale della sostanza e, quindi, la
situazione di rischio.
Peraltro
la riferibilità causale di tale reato, così come dei reati di omicidio e di
lesioni colpose per gli angiosarcomi e per le epatopatie correlate, agli
imputati che nell'epoca considerata, ricoprendo posizioni di garanzia, avevano
la gestione del rischio relativo all'esposizione alla sostanza tossica e
oncogena, non è accompagnata anche dalla imputabilità degli eventi a titolo di
colpa (tranne che per i reati di lesioni colpose per i casi di Raynaud in
ordine ai quali il proscioglimento degli imputati specificamente interessati in
relazione al predetto periodo di causazione, consegue alla prescrizione).
Il
principio ispiratore, quanto appunto alla componente psicologica del reato, è
che nei delitti colposi, la prevedibilità dell’evento deve essere riconosciuta,
in particolare per quanto riguarda l’esercizio di attività pericolose, sulla
base del criterio della migliore scienza ed esperienza presenti in un
determinato settore ed in un preciso momento storico, costituito dall’epoca in
cui viene iniziata la condotta. La prevedibilità dell’evento può essere
affermata solo quando sussistano leggi scientifiche di copertura, le quali
permettano di stabilire che da una certa condotta possono conseguire
determinati effetti. La responsabilità dell’imputato può essere affermata solo
quando l’evento verificatosi sia riconducibile al tipo di evento che la regola
cautelare intende prevenire.
E nella
specie, all'epoca non era noto sulla base di esaurienti conoscenze scientifiche
fondate su affidabili verifiche sperimentali il rischio oncogeno sull'uomo
(angiosarcomi), e le lesioni epatiche indotte da cvm non avevano manifestato
segni patologici inequivoci, anche perché, quando sono stati rilevati segni di
sofferenza epatica, i lavoratori sono stati allontanati dall'esposizione, in
tal modo osservando l'obbligo precauzionale di una adeguata sorveglianza
sanitaria.
Obbligo
non osservato, invece , relativamente ai casi accertati di Raynaud/acrosteolisi
, trattandosi di patologia nota sin dalla metà degli anni '60 e regrediente con
l'allontanamento dalle alte esposizioni cui era associata e perlopiù
riguardante mansioni che implicavano un contatto diretto con la sostanza che
doveva essere evitato con idonee misure protettive realizzate tardivamente.
Dunque
secondo il Tribunale, nella fattispecie l’impresa, e per essa gli odierni
imputati, risulta essersi mossa tempestivamente, sotto il profilo della
modifica delle procedure e degli interventi sia immediati che a medio termiune
sugli impianti e sulle apparecchiature, non appena il problema della
canceroginità del cvm ebbe ad appalesarsi con un consistente fondamento
scientifico. Le opere eseguite, comprovate documentalmente e confermate dai
testi escussi, avrebbero, a parere del Tribunale, permesso di ottenere in breve
termine una drastica riduzione dei precedenti livelli di esposizione,
concretamente evidenziata soprattutto a partire dalla seconda metà
dell’anno1974 e per tutto l’anno 1975, con successivi netti sviluppi di
riduzione nei conseguenti anni 1976-1997 a valori ampiamente ricompresi nei
limiti prudenziali e rispettosi delle soglie all’epoca individuate e
successivamente stabilite dalla normativa.
Si ritiene
dunque infondato l’addebito ascritto agli imputati sotto il profilo della
responsabilità colposa, sia generica che specifica.
Né
tantomeno, ed a maggior ragione, è ipotizzabile l’elemento soggettivo del dolo,
integrante l’ipotesi di reato di cui all’art. 437 c.p., pure contestato dal
P.M. Sotto quest’ultimo profilo, va rilevato che l’accusa, sotto la
qualificazione dell’ipotesi di cui all’art. 437 c.p., ascrive l’omessa
collocazione “di sistemi ed apparecchi di sicurezza destinati ed idonei a
prevenire l’insorgenza di tumori e di malattie anche gravissime”.
Osserva al
riguardo il Tribunale che tale tipologia di contestazione non contiene, nella
fattispecie concreta, l’indicazione di fatti specifici, in particolare per
quanto riguarda la natura degli apparecchi che avrebbero dovuto essere
collocati, per cui si deve ritenere che il P.M. abbia fatto riferimento a tutte
le asserite violazioni integranti gli addebiti di colpa ascritti.
Peraltro
il Tribunale, nell’analisi della suddetta norma, precisa che: la previsione
normativa di cui all’art. 437 c.p. configura la più severa sanzione, predisposta per le violazioni più gravi del dovere
di sicurezza, in quanto è caratterizzata sul piano soggettivo dalla
necessarietà del dolo e sotto il profilo oggettivo dalla sussistenza di
violazioni del dovere di sicurezza aventi particolare serietà;
la
fattispecie in esame non descrive
specificamente in quali situazioni sorga il dovere di attivazione, per cui deve
ritenersi, secondo i principi generali concernenti la responsabilità per
omissione, che la condotta di omessa collocazione possa essere correlata
soltanto a quei sistemi o quegli apparecchi la cui collocazione sia
obbligatoria sulla base di una specifica norma di prevenzione di disastri o
d’infortuni;in sostanza, la previsione di cui all’art. 437 c.p. costituisce una
fattispecie avente riguardo non già ad una qualunque violazione del generico
dovere di sicurezza, ma soltanto alla violazione dolosa di precise disposizioni
della statuizione normativa speciale, che di per sé siano sanzionate come
contravvenzioni e che prescrivano specifici doveri di collocazione di impianti,
apparecchi o segnali destinati a prevenire disastri od infortuni sul lavoro.
Dunque
sorgono in considerazione, nella fattispecie, le asserite violazioni di cui ai
DPR n. 547/55 e n. 303/56; sotto il
profilo oggettivo, la definizione di “impianti” individua delle installazioni
caratterizzate da stabilità, così come il concetto di “apparecchi” qualifica
delle attrezzature aventi una certa complessità tecnica, diretta specificamente
alla prevenzione summenzionata; del resto, correlativamente, il termine
“collocazione” corrisponde ad un’attività avente ad oggetto una cosa dotata di
stabilità strutturale; dunque, si possono fondatamente escludere dal novero di
tale previsione normativa i dispositivi di protezione individuale, nonché le
cautele relative all’adozione di particolari procedure di lavoro o di
organizzazione del sistema, in quanto non possiedono i requisiti suindicati.
Neppure le parti d’impianto funzionali al ciclo produttivo rientrano
nell’ambito dei dispositivi suddetti, poiché indubbiamente la fattispecie di cui
all’art. 437 c.p. si riferisce a strumenti aventi specificamente ed unicamente
la destinazione alla sicurezza.
E in forza
di tali premesse ritiene che: gli addebiti di omesso blocco degli impianti e di
omesso risanamento dei medesimi, di mancata manutenzione degli elementi degli
impianti più soggetti a deterioramento, di mancata adozione delle misure
necessarie a tutelare la salute dei lavoratori, di mancata emissione dei
provvedimenti conseguenti alla segnalazione (con la relazione del marzo 1977)
dell’Istituto di Medicina del Lavoro, sono tutti al di fuori della previsione
normativa succitata, sia per la genericità dell’oggetto, sia per la palese non
correlabilità alle nozioni di collocazione di apparecchi specifici con finalità
antinfortunistica o comunque di prevenzione; la contestazione d’insufficiente
manutenzione degli impianti, con riferimento alla sostituzione degli organi di
tenuta (valvole, rubinetti), non concerne ugualmente l’ambito applicativo della
norma di cui all’art. 437 c.p. ; infatti, tali organi costituiscono parti degli
impianti produttivi normalmente funzionanti e non integrano invece specifici e
distinti strumenti con finalità preventiva; gli addebiti di omessa sorveglianza
sanitaria, di omessa trasmissione delle informazioni ai dipendenti, di omessa
adozione di particolari sistemi di organizzazione del lavoro o di differenti
procedure, di omesso controllo dell’uso dei mezzi di sicurezza personale, di
omessa separazione delle lavorazioni insalubri, sono ugualmente tutti estranei
all’ambito della fattispecie normativa di cui all’art. 437 c.p., sempre per le
motivazioni suesposte in ordine alla circostanza che trattasi di addebiti
relativi a modalità operative e non già invece integranti strumenti da
collocare, destinati specificamente alla funzione di prevenzione ed
antinfortunistica.
Secondo il
Tribunale anche la contestazione di omessa collocazione di adeguati strumenti
di monitoraggio non appare rientrare nel novero degli strumenti anzidetti. In
ogni caso, anche a ritenere che i gascromatografi possano essere ricompresi tra
le apparecchiature summenzionate, si è ampiamente evidenziato che i medesimi
sono stati effettivamente collocati nel contesto dei singoli reparti, in
termini di certa tempestività e con efficacia sicuramente appropriata a
controllare le singole zone di lavoro.
E
analogamente inconsistenti, alla luce delle installazioni e delle modifiche
impiantistiche adottate con le commesse analiticamete ricordate dal Tribunale,
si ritengono gli addebiti relativi alla mancanza di cappe d’aspirazione.
Ulteriormente
precisa poi il Tribunale che l’infondatezza sul piano oggettivo dell’ipotesi di
reato di cui all’art. 437 c.p. trova riscontro sotto il profilo soggettivo, in
quanto è del tutto inesistente una consapevole volontà, negli imputati di cui
al presente giudizio, di astenersi dal collocare impianti ed apparecchi diretti
a neutralizzare la situazione di rischio, precisamente riconosciuta come tale
dai medesimi. La consapevolezza della condizione di rischio correlata all’esposizione degli operatori risulta essere stata invece
adeguatamente affrontata dall’impresa, e per essa dagli odierni imputati,
mediante l’adozione di tutte le iniziative idonee, sia per quanto riguarda la
modifica delle procedure che per quanto concerne l’adozione degli elementi
tecnologicamente più avanzati e la modifica e ristrutturazione degli impianti.
In
conclusione sarebbe rimasta provato che solo per quanto riguarda gli operatori
sui quali è stato riscontrato il fenomeno di Raynaud i valori espositivi erano
superiori ai limiti di cui alla normativa vigente, cioè 500 ppm, nell’arco
temporale sino al 1974. Trattasi in particolare dei lavoratori autoclavisti e
degli operatori all’insacco ed all’essiccamento, sopra specificamente
individuati con riferimento all’ipotesi della malattia di Raynaud ed
all’acroosteolisi, per i quali indubbiamente è emerso che, fino al momento
dell’adozione delle diverse procedure ed alla modifica ed all’aggiornamento
degli elementi delle apparecchiature, cioè fino all’epoca decorrente dall’anno
1974, non sono state adottate le misure cautelari idonee ad evitare l’eccessivo
contatto diretto tra le mani ed il CVM.
Ma sulla
scorta di tutte le considerazioni svolte, ribadisce il Tribunale che non può
però ravvisarsi alcuna forma di continuità o di correlazione tra le predette
patologie e quelle tumorali od epatiche, assolutamente distinte quanto a
tipologia e formazione e quindi integranti un tipo di evento diverso e non
prevedibile, le quali sono state oggetto di acquisizioni scientifiche
sufficienti soltanto a partire all’anno 1974, come evidenziato da tutte le
organizzazioni internazionali che si occupavano della sostanza in esame. Del
resto, si ricorda, tutte le patologie anzidette, integranti eventi di tipo
diverso, trovano origine nelle elevatissime esposizioni degli anni cinquanta e
sessanta, le quali rimangono al di fuori della contestazione del P.M. e quindi
del presente giudizio.
Conclusivamente
quindi il Tribunale individua gli imputati cui riferire i ritenuti fatti-reato
solo sotto il profilo causale (angiosarcomi e epatopatie) e talune patologie
sia sotto il profilo causale che colposo (Raynaud/ acrosteolisi), lesioni
colpose ormai estinte per intervenuta prescrizione, specificando dunque, per
tutte le ipotesi di reato ricomprese nel primo capo d’imputazione le
conseguenti formule di assoluzione o proscioglimento.
Non si
esime infine il Tribunale da valutazione e conclusione di sintesi in ordine
all’accusa prospettata, osservando che il processo ha sofferto della fuorviante
impostazione accusatoria, un procedere senza distinzioni in cui sono mancate le
coordinate spazio temporali necessarie per orientare nella individuazione delle
condotte e dei soggetti ai quali fossero imputabili.
Si ricorda
che nel 1° capo di imputazione si addebitano tumori e malattie (721 patologie –
di cui 228 neoplasie-relative a 542 parti offese, ridotte nelle conclusioni a
311 patologie – di cui 164 neoplasie - relative a 263 parti offese) riferite a
condotte omissive che si sarebbero estese in uno spazio temporale ininterrotto
e non concluso di 30 anni (il PM ha contestato la permanenza in atto).
Addebiti
di colpa infondati in fatto e eventi suggestivamente massificati configuranti i
reati di disastro colposo e di strage colposa
(inesistente nel nostro ordinamento giuridico) di grande impatto e forza
evocativa.
Eventi
che, nei limiti in cui siano imputabili all’esposizione a CVM-PVC, devono
essere ricollocati nel loro tempo reale, un "quadro del passato" che
ci riporta alle condizioni di lavoro
incidenti sullo stato di salute dei lavoratori che sono quelle degli anni ‘50 –
‘60 e non alla fase temporale
successiva (1969-2000) che è stata proposta all'esame dibattimentale.
Questa
sfasatura temporale, secondo il Tribunale, ha percorso tutto il processo e ne
ha determinato gli esiti: perché era reale la rappresentazione dei fatti se
riferita al tempo passato e, invece, inattuale e contraria al vero se riferita
agli anni successivi.
Dunque
necessaria una contestualizzazione storica per uscire dalla confusione e dalla
sovrapposizione dei piani temporali.
Ricorda al
riguardo il Tribunale che allorquando nei primi anni ‘50 presso il
petrolchimico di Porto Marghera iniziò la produzione del cloruro di vinile e
del polivinile le condizioni di lavoro
erano estremamente pesanti, usuranti e nocive e non subiranno cambiamenti fino
alla fine degli anni ‘60, primi anni '70.
Da tale
periodo iniziano a determinarsi alcuni non irrilevanti mutamenti sulla scorta
delle rivendicazioni sindacali e della presa di coscienza dei diritti degli
operai.
Vi
concorrono le prime conoscenze sulla sospetta cancerogenità del c v m che gli
esperimenti sugli animali portati avanti da Maltoni evidenziano.
La
definitiva conferma, nel gennaio 1974, della cancerogenità della sostanza
determinerà una accelerazione degli interventi sulle procedure di esercizio
degli impianti di polimerizzazione, sugli interventi di manutenzione e sulle
modificazioni ai processi e agli impianti.
L’incalzare
del sindacato, da un lato, la responsabile disponibilità della controparte,
dall’altro, progressivamente e in uno
spazio temporale relativamente breve,
ridurranno le esposizioni drasticamente: dai 500 ppm (e oltre) degli
anni '50 '60 e dai 200 ppm dei primi anni '70
si passerà rapidamente a esposizioni di 25 ppm e già nel 1975 oscillanti
tra 5 e 3 ppm, per portarsi poi negli anni successivi al di sotto di 1 ppm.
A
esposizioni, cioè, non solo consentite sulla base del parametro di 50 ppm
provvisoriamente raccomandato nell'aprile del 1974 dal Ministero della Sanità
(che è quello stesso fissato in Germania
e nel Regno Unito), ma ampiamente al di sotto dei nuovi parametri
allorquando la normativa di recepimento della direttiva CEE fisserà con DPR n°
962 del 1982 il limite di 3 ppm come esposizione media di lungo periodo.
Nei
reparti di polimerizzazione, e quindi in quelli con i valori di esposizione più
elevati e maggiormente a rischio (CV6, CV16, CV14, CV24), nel periodo
intercorrente tra l'aprile del 1974 e la fine del 1975 sono state eseguite 5351
determinazioni mediante "pipettone": i valori medi mensili di
concentrazione del c v m sono inferiori a 50 ppm in tutti i periodi di tale
arco temporale e tendono a una progressiva diminuzione tanto da raggiungere nei
primi mesi del 1975 valori medi inferiori a 5 ppm.
I valori
espressi dalle rilevazioni dei gascromatografi entrati in funzione nel marzo
1975 vengono confrontati anche con i campionatori personali indossati su turni
di 8 ore di operai dedicati a varie mansioni di lavoro e la correlazione è
confermata : negli anni 1976-1977 il 75% delle determinazioni è risultato
inferiore a 1 ppm, il 14% è risultato compreso fra 1 e 2 ppm, il 5% compreso
fra 2 e 3 ppm, il 4% compreso fra 3 e 5 ppm e lo 0, 7% superiore a 5 ppm. A
novembre del 1975 i valori medi mensili sono inferiori a 1 ppm.
Tale
crollo delle esposizioni fu la conseguenza incontestabile di modifiche delle
procedure, di interventi sugli impianti, documentata in atti e confermata dalle
prove testimoniali.
Dunque, i
tumori e le patologie che il pubblico ministero ha ritenuto riferibili
all'esposizione al cvm sono tutti, pacificamente e incontrovertibilmente, come
hanno detto unanimamente i consulenti della accusa e della difesa, attribuibili
alle condizioni di lavoro e alle alte esposizioni degli anni '50 -'60.
Questa è
l'epoca in cui sicuramente si ignorava la oncogenità del c v m: in tutti paesi
in cui si produceva questa sostanza, in tutti gli stabilimenti in cui si sono
compiuti i numerosi e approfonditi studi epidemiologici, aggiornati fino ai
tempi nostri, la produzione del polivinile è avvenuta nelle medesime condizioni
lavorative, con gli stessi elevati livelli di esposizione e con gli stessi
sistemi produttivi esistenti a
quell'epoca a Marghera.
Per
propria scelta quindi il pubblico ministero non ha agito nei confronti degli
amministratori e dei dirigenti di quell'epoca perchè ha ritenuto che gli eventi
verificatisi non potevano essere loro addebitati per mancanza di colpa
derivante dall'ignoranza degli effetti oncogeni. Il pubblico ministero ha deciso
invece di agire nei confronti dei loro successori.
Per
portare comunque a compimento il suo proposito il PM è stato costretto a
trasferire l’epoca della causalità a quella della colpa: ha collocato cioè la
causa degli eventi, risalenti alla prima era degli anni '50 '60, nella seconda era degli anni '70-2000
allorquando "si sapeva”, muovendosi su tre direttrici.
La prima
tende, nei limiti in cui è possibile, a sovrapporre la prima e la seconda
"era": la conoscenza della oncogenità del c v m è fatta risalire al
1969, e cioè ai primi esperimenti del dottor Viola che individua sui ratti
esposti ad elevatissime concentrazioni di c v m (30 mila ppm) dei tumori
sottocutanei, ancorchè tali esperimenti siano stati ritenuti non significativi
e non estrapolabili da animale a uomo oltre che dalla comunità scientifica
anche dallo stesso autore.
Si
pretende cioè dal PM un adeguamento immediato ai risultati degli esperimenti di
Viola comunicati nel 1970, ancorché lo stesso autore sia cauto sul significato
degli stessi e ritenga sia necessario un
loro approfondimento.
Tutta la
comunità scientifica e gli organismi internazionali (OMS) rimasero in attesa di
conferme e di sviluppi della ricerca che era impostata su modelli sperimentali
ritenuti inadeguati (alte concentrazioni, numero e specie di animali
insufficiente..) e comunque non estrapolabili dall’animale all’uomo.
E’ stata
Montedison ad assumere la tempestiva
iniziativa di uno studio basato su modelli sperimentali che saranno
unanimamente apprezzati, incaricando sul finire del 1970 il professor Maltoni di condurre un esperimento secondo
metodologie adeguate, "meno pionieristiche", che produrrà i primi
risultati, individuando i primi angiosarcomi al fegato in ratti, topi, criceti
nel 1972, risultati che l’oncologo comunicherà al committente nel novembre e,
ancorché parziali, alla comunità scientifica già nell’aprile dell'anno
successivo.
Suggestivamente
il PM insinua, ma non prova, che le industrie sapessero e che avessero sino
allora taciuto perchè avvinte da un patto di segretezza svelato dalle prime
morti per angiosarcoma accertate su tre lavoratori della società americana
Goodrich nel gennaio del 74. In proposito anche il consulente dell'accusa prof.
Carnevale, che pure si è occupato di complotti dell'industria, ha affermato che
vi furono sospetti, ma che nulla risulta in letteratura. Sotto il profilo più
propriamente probatorio, dagli atti acquisiti nel corso della rogatoria negli
USA effettuata dal PM è emerso piuttosto che le industrie europee e americane
si vincolarono ad un patto di riservatezza sino alla conclusione degli
esperimenti di Maltoni con il proposito di garantirsi da fughe di notizie e
strumentalizzazioni che potessero avvantaggiare gli uni e pregiudicare gli
altri, patto che non ebbe alcuna esecuzione per le perplessità delle industrie
americane e per le notizie preoccupanti sui primi risultati sperimentali
comunicati da Maltoni.
Gli
esperimenti di Viola possono essere considerati un campanello d’allarme sulla
possibile oncogenità della sostanza e sono stati assunti da Montedison, cui si
sono associate le altre industrie europee, come un impegno ad approfondire gli
studi sperimentali per fare chiarezza e per pervenire a risultati probanti ai
fini di adottare le conseguenti decisioni.
Ma nel
frattempo Montedison non rimase inerte perché avviò commesse ed eseguì
interventi già nel 1973 che riducevano l’esposizione negli impianti di
polimerizzazione (il degasaggio e lo scarico delle autoclavi, la loro bonifica
e pulizia).
E
successivamente, come si è detto, quando la cancerogenità fu confermata
sull’uomo dai casi di angiosarcoma su tre lavoratori della industria
statunitense Goodrich accertati nel gennaio 1974, intraprese quelle modifiche
agli impianti, cui si è fatto diffusamente riferimento nella parte motiva, che
ridussero drasticamente le esposizioni ai fini di prevenire tali eventi
avversi.
Nel corso
degli anni successivi l’attività di risanamento ha intrapreso ulteriori
iniziative da cui è conseguito il
raggiungimento di valori ampiamente al di sotto della soglia stabilita.
Il
pubblico ministero intraprende la seconda direttrice.
Contesta
l'affidabilità delle misurazioni da parte dei gascromatografi installati nei
vari reparti : ma la comparazione con i rilevamenti effettuati con “i
pipettoni” e con i campionatori personali smentiscono tale assunto perché viene
evidenziata una situazione espositiva sostanzialmente corrispondente con
diversi sistemi di rilevazione. Anche gli accertamenti effettuati dal
consulente dell’accusa privata su pretese violazioni di procedure
nell’esercizio dei gascromatografi
risultano del tutto inidonei a infirmare la validità e la correttezza
del loro funzionamento e, comunque, anche a voler ammettere l’esattezza dei
rilievi, le divergenze cui si perviene sono del tutto trascurabili.
Contesta
ancor più radicalmente il PM l’introduzione nel 1975 di un sistema di
monitoraggio sequenziale multiterminale che determinerebbe una diluizione delle
concentrazioni. Ma tale sistema è conforme alla direttiva CEE e al DPR n°
962/1982, è stato quello prescelto anche dalla componente maggioritaria del
sindacato, perché più idoneo a rilevare l’effettiva esposizione dei lavoratori
nelle zone di lavoro: comunque dai raffronti eseguiti nei reparti CV6,CV14,CV16
è risultato che i valori medi ottenuti dal sistema monoterminale erano
sovrapponibili a quelli acquisiti col sistema pluriterminale.
La pubblica accusa
nell’intento di infirmare i valori espositivi, ampiamente al di sotto di quelli
stabiliti dalla normativa, intraprende la terza direttrice e si attesta su una
posizione di assoluta intransigenza, negando che vi possa essere una
qualsivoglia soglia di sicurezza per gli oncogeni : "non si può
escludere". Si tratta di una posizione cautelativa condivisibile sotto
l'aspetto sociale, ma la valutazione del legislatore è stata diversa perché non
ha vietato la produzione del cvm, ma ha semplicemente imposto dei limiti di
esposizione che ritiene possano essere cautelativi rispetto al rischio
oncogeno.
Gli studi
tossicologici e di oncogenesi ampiamente esaminati e discussi nella parte
motiva sono convergenti, secondo il Tribunale, nell’individuare un rapporto
dose-risposta per il c v m, individuando una dose cumulativa di non effetto a
10 ppm (Maltoni, Weinrauch, Swemberg).
Ricorda d’altra parte il Tribunale
come gli studi epidemiologici hanno individuato un caso di angiosarcoma ad una
esposizione cumulativa per dieci anni di 288 ppm, la più bassa che ha provocato
tale tumore, equivalente a 25 - 28 ppm di esposizione cumulativa annua.
E che l'osservazione ha
messo in evidenza che nessun angiosarcoma del fegato si è manifestato in
lavoratori assunti successivamente al 1973 nella coorte europea e
successivamente al 1967 nella coorte statunitense e in quella di Porto
Marghera. Ed ancora si ricorda il recente studio (Rozman e Storm-1997-) con il
quale viene confermato che " fino all'ottobre del 1993 nessun nuovo caso
di angiosarcoma epatico fu riportato dal registro internazionale fra i più di
80 mila lavoratori degli Stati Uniti che erano stati esposti per la prima volta
al cloruro di vinile a partire dal 1968, traendone la conseguenza che la
riduzione dell'esposizione entro il range di 0,5- 5 ppm sembra essere stata
sino ad ora adeguatamente protettiva".
Si osserva
infine che il principio di precauzione è divenuto patrimonio della cultura
scientifica, industriale e legislativa solo in tempi recenti e per quanto
riguarda il CVM la sua produzione iniziale del cvm, risalente agli anni 30, non
fu sottoposta a sperimentazioni precauzionali se non per quanto riguarda il
rischio di esplosione e fu usato negli spray e come anestetico fino ai primi
anni '70. Solo, dopo la scoperta della sua oncogenità e purtroppo delle morti
causate, i numerosi studi sperimentali e epidemiologici hanno dato delle
indicazioni in base alle quali il legislatore ha posto dei limiti cautelativi
che appaiono adeguatamente protettivi.
E se tali
limiti sono rispettati (si intende i limiti cumulativi medi e non gli
sforamenti occasionali che pur possono tutt'ora esserci per disfunzioni o per
"incidenti rilevanti" in occasione dei quali vengono tuttavie
attivate le procedure di emergenza) e se sinora non si sono verificati effetti
avversi nonostante che sia trascorso un periodo temporale che oltrepassa il
periodo medio di latenza dei tumori indotti, che è di 28-30 anni, l’ultimo
fronte su cui si attesta il pubblico
ministero -secondo cui "nessuna dose è sicura"- non ha nessuna
valenza giuridica e nessun fondamento in fatto. Così come infondata si sarebbe dimostrata la tesi dell'effetto
sinergico anche a basse dosi tra c v m, alcol ed epatiti virali b e c. Si ricorda ancora, infatti, che in presenza
di tali fattori di rischio, che da soli possono offrire una spiegazione causale
o alla patologia o alla neoplasia (in particolare alle epatopatie, alle
cirrosi, all'epatocarcinoma), il supposto contributo del cvm non ha trovato
convincenti conferme nelle ricerche sperimentali.
Queste le
ragioni in base alle quali il tribunale ha ritenuto di non poter accogliere
l'impostazione accusatoria che contesta i reati in oggetto a 31 amministratori
e dirigenti che avevano governato e gestito il petrolchimico per trent'anni ai
più alti livelli, ognuno accusato di essere consapevole della responsabilità
del predecessore, ognuno partecipe del
medesimo disegno criminoso, tutti responsabili dei medesimi addebiti di colpa
come se la situazione all'interno dello stabilimento fosse rimasta immodificata
non solo negli ultimi trent'anni, ma fosse rimasta quella degli anni ’50-’60.
Conclude
infine il Tribunale ribadendo ancora che in questa traslazione dei piani
temporali si annida il vizio d’origine della imputazione, in un quadro del
passato riportato al presente, in una artificiosa forzatura che non consente di
individuare negli imputati condotti a giudizio i responsabili di eventi che
hanno la loro causa in un'altra epoca,
cui si accompagna la rappresentazione di un quadro accusatorio che risente
dell’enfasi della formulazione “a grappolo” delle fattispecie di reato in cui è
inserito un ingiustificato accumulo di eventi.
Avverso tale sentenza proponeva appello il P.M.,
nonché, ex art. 576 cpp, le costituite Parti Civili.
In particolare, il P.M. proponeva impugnazione e
chiedeva la riforma della sentenza relativamente alla intestazione
dell’imputazione, nonché relativamente a tutti i punti del dispositivo che
fanno riferimento al primo e al secondo capo d' imputazione e per tutte le fattispecie di reato
contestate agli imputati (fatta eccezione per quella di cui agli art. 422-449
c.p.) risultanti sia dal decreto di rinvio a giudizio, sia dalle contestazioni
ex art. 517c.p.p. di cui alle udienze dell' 8 luglio 1998 e del 13 dicembre
2000.
Il
P.M. chiede, quindi, che venga dichiarata la penale responsabilità di tutti gli imputati in ordine ai reati e per i
periodi di competenza rispettivamente loro contestati fin dall’udienza
preliminare, nonchè che i medesimi
vengano condannati alla pena della reclusione specificatamente per ognuno di
essi richiesta all'esito della requisitoria di primo grado.
Non
viene presentato appello relativamente al terzo capo d’accusa (parte C), perché
il reato è ormai prescritto, e in relazione all’ipotesi di reato di cui agli
artt. 422-429 (rectius 449) c.p., affermandosi essere ipotesi del tutto
residuale.
Sostanzialmente
e sinteticamente, i motivi che determinano l’appello per entrambi i capi d’imputazione (A e B) vengono enunciati nei
seguenti:
-
omessa lettura ed omessa considerazione di tutto il materiale probatorio
fornito da Pubblico Ministero e dalle parti civili;
-
omissione dei fatti, storici e processuali, indicati dal Pubblico Ministero e
dalle parti civili, a sostegno delle proprie rispettive richieste finali;
-
travisamento dei fatti;
-
omessa considerazione di tutti i fatti e i dati riferiti dai consulenti tecnici
del P.M. e delle parti civili;
-
travisamento ed errata interpretazione delle valutazioni di cui consulenti
tecnici del P.M. e delle parti civili.
-
incompletezza e contraddittorietà della motivazione;- omessa considerazione e
omessa applicazione di norme di legge, poste a tutela sia dei lavoratori che
dell’ambiente, norme di legge vigenti da decenni rispetto all’epoca (1974)
considerata dal Tribunale come rilevante in questo processo;
-
errata interpretazione delle norme del codice penale e delle leggi speciali
penali contestate agli imputati; errata interpretazione ed errata applicazione
delle norme processuali penali relative al rigetto di richieste istruttorie
dibattimentali sia del P.M. che delle parti civili.
Si lamenta quindi preliminarmente la NON CORRETTA
INTESTAZIONE DELLA SENTENZA e l’ERRONEA RICOSTRUZIONE DELLE ACCUSE DEL P.M.
evidenziandosi che il Tribunale ha omesso di riportare l'integrale capo
d'accusa, e in particolare, ha omesso di riportare le contestazioni formulate
ex art. 517 c.p.p. nel corso delle udienze dibattimentali dell’ 8 luglio 1998 e
del 13 dicembre 2000.
Già
per tale motivo, si chiede innanzitutto una riforma totale della sentenza di
primo grado.
Quanto al
merito, relativamente al primo capo d’imputazione, esordisce il P.M. con la
disamina delle ACCUSE DI CUI AGLI ARTT. 437-589-590 C.P., lamentando
superficiale ed erronea valutazione da parte del Tribunale, osservandosi
che in più punti della motivazione, ma
in particolare alle pagine 462 e 463, la sentenza riconosce per "
l'arco temporale fino al 1974 "che i livelli di esposizione al CVM per
autoclavisti, insaccatori ed
essiccatori erano " nettamente superiori " ai limiti della
normativa vigente, che il fenomeno di RAYNAUD e l’acroosteolisi riscontrati e
confermati anche dal Tribunale in queste categorie di operai erano dovuti al
loro lavoro, per il quale fino al 1974 " non sono state adottate le
misure cautelari idonee ".
In
conclusione, riconosciuto il nesso causale, il Tribunale -a causa
dell'eccessivo decorso del tempo- dichiarava la prescrizione per le lesioni
colpose in questione e, contrariamente a quanto ci si poteva e doveva
attendere, dichiarava insussistente il reato di cui all'articolo 437 (omissione
dolosa di misure cautelari), limitandosi a precisare "per condotte tenute
in un'epoca successiva al 1973 ".
Il
Tribunale si sarebbe dunque dimenticato del periodo precedente -che di dice
sicuramente contestato dal Pubblico Ministero- mentre altrettanto sicuramente,
stando alle sue stesse motivazioni, il Tribunale avrebbe dovuto dichiarare per
l'articolo 437 c.p. la penale responsabilità quanto meno degli imputati
per i quali lo stesso Tribunale aveva dichiarato la prescrizione del reato di
lesioni colpose (CEFIS, BARTALINI, CALVI, GRANDI, GATTI, D’ARMINIO MONFORTE e
SEBASTIANI), anche perché l'ultimo fenomeno RAYNAUD riconosciuto e ammesso dal
Tribunale ( quello di Gabriele BORTOLOZZO) era stato diagnosticato nel 1995 e,
quindi, non era prescritto (neanche come lesione) il 2 novembre 2001 (come,
peraltro, non erano prescritte le lesioni diagnosticate dopo il 1995 per Terrin
Ferruccio e per Guerrin Pietro, posizioni che il Tribunale non ha nemmeno
considerato, pur trattandosi di parti civili ancora costituite).
Ciò già imporrebbe la modifica
della sentenza di primo grado e del dispositivo "in parte qua". Ma
comunque, secondo l’appellante, relativamente all'accusa di cui all'art. 437
codice penale, nella sentenza si rinvengono ulteriori e più ampi vizi, in fatto
e in diritto, per i motivi che seguono, che hanno attinenza sia alla interpretazione
giuridica delle norme, sia alle contestazioni specifiche risultanti dal primo
capo d'imputazione, sia agli studi e alle conoscenze storiche sulla tossicità
e sulla cancerogenicità del CVM, sia alle proprietà nocive, tossiche e
cancerogene del CVM e del PVC.
Si
sostiene, in particolare, che il Tribunale ha gravemente errato nella scelta di
affidarsi totalmente ed esclusivamente alle dichiarazioni dei consulenti
tecnici degli imputati, omettendo di esaminare e di valutare tutto il materiale
probatorio acquisito, che riguarda:
- le
conoscenze storiche sulla tossicità del CVM (che si dice risalire alla fine
degli anni quaranta e non ai primi anni settanta);
- i
particolari organi colpiti dal CVM .
Si aggiunge altresì che,
altrettanto inspiegabilmente, il
Tribunale ha negato l'esistenza e comunque l'applicazione di norme a tutela
della salute dei lavoratori che sono entrate in vigore prima del 1970, norme
sicuramente vigenti quanto meno dall’epoca dei D.P.R. nr. 547/55 e nr. 303/56.
Quanto all’INTERPRETAZIONE
GIURIDICA DELL’ART. 437 CP, per l’appellante fulcro e punto centrale di
riferimento relativamente al primo capo d’imputazione, considerato come
la fattispecie normativa alla quale vanno riferite e conseguono le singole
imputazioni, premesso che il Tribunale avrebbe dedicato a tale norma poche,
carenti, contraddittorie e generiche osservazioni liquidando come insussistente
il fatto ascritto agli imputati, si precisa che nel presente procedimento tutte
le condotte omissive dolose ascritte agli imputati ai sensi dell’art. 437 c.p.
sono riferite, costituendo l’oggetto dell’imputazione penale, alle singole e
specifiche violazioni delle disposizioni speciali in materia antinfortunistica
e di igiene del lavoro e alla violazione dell’art. 2087 c.c., norma di
chiusura: sono riferite cioè a tutte le disposizioni normative espressamente
previste nello stesso capo d’imputazione.
E rispetto alle condotte
individuate sarebbero stati esattamente individuati e provati i fatti specifici
ascritti agli imputati, affermandosi che questi fatti hanno costituito
violazione dei doveri di sicurezza in materia di lavoro; commessi
consapevolmente, sono fatti la cui volontarietà ha concretizzato il reato
dell’art. 437 1° comma c.p. determinando, nella verificazione dei
molteplici eventi costituenti malattie e il disastro colposo, l’aggravamento
della richiesta della pena come previsto dal 2° comma dello stesso articolo.
Si sostiene preliminarmente in
ordine alla natura oggettiva e soggettiva di tale reato, che la motivazione dell’impugnata
sentenza dimostra un’evidente incongruenza che inficia già dall’inizio l’intero
impianto logico su cui è costruita. Ed infatti si fa osservare che mentre
inizialmente essa nega la configurazione del reato dal punto di vista
oggettivo, soffermandosi sulla natura e sulla nozione dei concetti di
“impianti”, “apparecchi” “segnali”, sulla locuzione “destinati a”,
sull’interpretazione del termine “collocati”, successivamente sostiene, in
contraddizione con quanto poco prima affermato, che non vi è stata alcuna
consapevole volontà da parte degli imputati di omettere quelle stesse condotte
che tuttavia aveva negato essere esistenti sul piano oggettivo (“di astenersi
dal collocare impianti ed apparecchi diretti a neutralizzare la situazione di
rischio, precisamente riconosciuta come tale dai medesimi”).
Circa l’ASSERITA INSUSSISTENZA
DEL REATO EX ART. 437 C.P. SUL PIANO OGGETTIVO, ci si lamenta che il Tribunale
abbia fornito a più riprese una interpretazione capziosamente rigorosissima -
quanto assolutamente priva di seguito sia in dottrina che in giurisprudenza -
della previsione normativa e della sua applicabilità in concreto.
Interpretazione che, se si dovesse seguire la tesi del Collegio giudicante,
verrebbe a vanificare l’applicabilità della fattispecie astratta ogni qual
volta un Giudice si dovesse trovare di fronte all’imputazione per il reato di
cui all’art. 437 c.p.. Infatti esordisce il Collegio con l’affermazione “…la
previsione normativa di cui all’art. 437 c.p.……è caratterizzata sotto il profilo
oggettivo dalla sussistenza di violazioni del dovere di sicurezza aventi
particolare serietà” (pag. 459).
E facendo tesoro di
quest’ultima gratuita asserzione, la sentenza nega la sussistenza del reato
sotto l’aspetto oggettivo sostenendo con puntiglioso vigore che le condotte
omissive attribuite agli imputati sarebbero estranee alle nozioni espresse
dalla norma penale in questione. Si osserva invece da parte
dell’appellante che l’art. 437 c.p.
trova il suo primo, insopprimibile e fondamentale punto di riferimento
negli articoli 32 1° comma e 41 della Costituzione che sanciscono il diritto
della salute dell’individuo anchge nelle nelle sue formazioni collettive.
Dunque è dalla Carta costituzionale che
derivano, concretizzandone i principi fondamentali, le disposizioni della
normativa speciale che in questo processo sono
state enucleate e circoscritte,
quanto al primo capo d’imputazione, nei D.P.R. 547/55, 303/56, nonché nell’art. 2087 c.c., oltre
che nelle norme derivanti dai
contratti lavoro.
Tali norme speciali, che il
Tribunale avrebbe decisamente ignorato, contengono tutte secondo l’appellante
che così vuole risalire alla ratio dell’art. 437 cp, una disposizione di
carattere generale, dalla quale non si può prescindere, che costituisce il
“cappello” al rispettivo testo legislativo.Si tratta dell’art. 4 del D.P.R.
547/55 e dell’art. 4 del D.P.R. 303/56, norme che sono l’una lo specchio
dell’altra: esse contengono il principio imprescindibile che impone l’obbligo
per il datore di lavoro di attuare ogni misura diretta ad evitare che la
sicurezza e la salute del prestatore di lavoro possano essere poste in pericolo
e/o danneggiate. E’ il bene dell’integrità dei lavoratori l’oggetto centrale
della tutela posta dall’art. 437 c.p., che interviene con al sanzione ogni
qualvolta vi sia una volontaria violazione degli obblighi imposti a tali fini
dalle norme speciali.
La norma di cui all’art. 437
c.p. è dunque diretta ad
anticipare – reprimendo la
condotta omissiva (o commissiva) – la soglia di tutela rispetto all’effettiva lesione del bene protetto,
imponendo che vengano adottate tutte le misure cautelari per evitare
ingiustificati innalzamenti del rischio nell’esercizio di qualunque attività
economica.
Il Tribunale invece, ne ha
inopinatamente, ingiustificatamente, illegittimamente e arbitrariamente voluto
restringere l’operatività, procedendo, sulla base di una elencazione fondata
sul significato lessicale dei vocaboli usati dalla norma penale, ad escludere
dal novero della previsione normativa dell’art. 437 c.p., e quindi dalla
possibilità di attribuzione del reato agli imputati sotto il profilo oggettivo:
a)tutti quegli strumenti o
dispositivi (non collocati per effetto delle condotte omissive addebitate
dall’accusa) che sotto il profilo oggettivo ritiene non rientranti nel concetto
di impianti (“caratterizzati dalla stabilità”) o nel concetto di apparecchi
(“caratterizzati dalla complessità tecnica”)(pag. 460);
b)tutte quelle condotte
omissive contestate che ritiene o generiche per mancata individuazione
dell’oggetto su cui cadono (meglio, non cadono), o non correlabili alla nozione
di collocazione di apparecchi antinfortunistici (pag. 460-461);
c)tutte quelle condotte
omissive contestate che ritiene attinenti a “modalità operative” e non ad attività
di natura preventiva ed antinfortunistica (pag. 461).
In realtà, secondo l’appellante, la stessa dottrina
più accreditata in materia e la costante giurisprudenza sostengono unanimemente
il principio di carattere generale secondo cui l’interprete non è autorizzato,
sia dal dato testuale della norma sia dalla ratio complessiva, ad introdurre
elementi restrittivi tali da costituire insidiosi svuotamenti della norma.
Richiedendosi solo, secondo citati pronunciati della Suprema Corte, “che il
comportamento dell’agente si concreti nella omissione, rimozione o
danneggiamento di apparecchiature che risultino necessarie per la prevenzione
di infortuni in relazione ad una collettività lavorativa la cui entità pone
essa stessa le condizioni della diffusibilità del pericolo” (Cass. sez. I
2.3.1983).
Quanto dunque al primo assunto (a), il Tribunale, per
negare l’attribuibilità delle condotte specificamente contestate agli imputati,
concentra l’attenzione sulla nozione “destinati a”, senza avvedersi che proprio
quelle condotte che sono state contestate in questo giudizio hanno tutte un
comune denominatore, costituito dall’essere state dirette a vanificare la
sicurezza dei prestatori di lavoro nell’esercizio dell’attività in termini
prevenzionistici e antinfortunistici. “Destinati a” dice l’art. 437 c.p., e
dunque deve trattarsi di un qualunque congegno di qualsiasi rilievo a funzione
prevenzionistica. Dunque anche i mezzi di protezione personale che
costituiscono fondamentale strumento per il corretto esercizio di una doverosa
attività di cautela e di prevenzione ai fini della sicrezza sul luogo di
lavoro, cautela che nello stabilimento Petrolchimico non sarebbe stata
adottata, per come riconosciuto dallo stesso Tribunale almeno fino al 1974.
Quanto al secondo assunto (b), gli addebiti liquidati
dal Collegio come “generici” o “non correlabili” (le condotte omissive relative
al blocco degli impianti, al risanamento dei medesimi, alla manutenzione degli
elementi degli impianti più soggetti a deterioramento, alle misure necessarie a
tutelare la salute dei lavoratori, all’emissione dei provvedimenti conseguenti
alla segnalazione dell’Istituto di Medicina del Lavoro, alla manutenzione in
ordine alla sostituzione degli organi di tenuta) non solo trovano
nell’istruttoria dibattimentale svolta la loro concretezza in situazioni di
luogo e di tempo, ma è la loro stessa individuazione nell’imputazione a trovare
corrispondenza nella fattispecie astratta descritta dalle norme speciali. Gli
addebiti mossi sarebbero infatti immediatamente riconducibili alle disposizioni
che nel capo d’imputazione identificano la condotta tenuta (ovvero, non tenuta)
dagli imputati: in primis alle norme più sopra citate (gli articoli 4 dei due
D.P.R. in tema di sicurezza e salute) che fanno parte del corpo normativo della
legislazione speciale, costituendone i principi introduttivi che fondano le
condotte doverose; a seguire le singole disposizioni citate; in chiusura l’art.
2087 c.c.
Nello specifico, il P.M., lamenta
poi che il Tribunale nell’attribuire al CVM solo l'angiosarcoma epatico, il
fenomeno di RAYNAUD, l’acroosteolisi e pochi rari casi di epatopatia, escludendo
qualsiasi altra patologia, in maniera estremamente contraddittoria, ha chiuso
completamente gli occhi di fronte ad un dato storico e processuale
incontestabile e cioè che il CVM sia, innanzi tutto, un epatotossico generale
ed ha di fatto negato l'esistenza di studi e di pronunciamenti anche di
organismi internazionali sulla natura tossica del CVM e del PVC per il fegato e
per i polmoni: natura tossica innanzitutto e poi anche cancerogena.
L’impostazione del Tribunale sarebbe sbagliata in fatto, in
quanto tutti i maggiori organismi e organizzazioni internazionali e nazionali
(quelli di indiscutibile serietà e prestigio) hanno confermato tale natura tossica
del CVM-PVC, ed hanno ritenuto pure la cancerogenicità del CVM. E persino gli organismi d’origine industriale,
statunitense ed europea, non hanno avuto mai dubbi sulla tossicità del CVM e
poi sulla sua cancerogenicità tanto da descriverlo come un cancerogeno
totipotente, fin dal 1974.
La natura tossica del CVM-PVC risulterebbe d’altra parte
pure da specifiche schede cosiddette di sicurezza di origine aziendale, che
costituiscono una sorta di confessione extra-giudiziale, e consapevolezza sulla
tossicità da parte degli imputati emergerebbe altresì dai loro acquisiti interrogatori in sede di indagine
preliminare, e dalle indicazioni sul punto dello stesso sanitario Montedison di
Porto Marghera, dottor Salvatore
Giudice, che in un documento agli atti
del 1971 espressamente parlava delle “tecnopatie” causate dal CVM e che in aula ha detto tranquillamente che,
giunto a Porto Marghera, nel 1969, sapeva già che il CVM era un epatotossico.
Procede poi il P.M., con citazione
di specifici brani della sentenza e relative proprie osservazioni, ad analisi
della situazione degli impianti CVM-PVC di Porto Marghera che ritiene vetusti,
obsoleti e inadeguati alle sostanze tossiche e cancerogene trattate, e
sostenendo che la sentenza assolutoria del Tribunale deve essere radicalmente
riformata per i seguenti principali motivi:
- omessa valutazione di fatti e
dati offerti all’esame del Tribunale, così come emergenti dalla documentazione
acquisita presso Enichem e Montedison;
- omessa valutazione degli stessi
dati, così come esposti e provati dalla disamina dei consulenti del P.M. e
delle parti civili;
- incomprensibile e comunque
immotivato appiattimento sulle posizioni dei consulenti tecnici di Enichem e
Montedison, dei quali sono riportati pari pari in sentenza interi brani tratti
dalle loro relazione tecniche, senza alcuna considerazione, né alcuna critica
(nemmeno negativa) di quanto sostenuto e provato in senso contrario dal P.M.,
dalle parti civili e dai loro consulenti;
- deformazione e travisamento
delle dichiarazioni dei testimoni assunti in dibattimento;
utilizzazione di dati di fatto
completamente sbagliati, ma tratti pari pari dalle memorie della difesa.
Lamenta il P.M. che l’assunto indimostrato da cui parte (e a
cui, poi, arriva inevitabilmente) il Tribunale è quello relativo al fatto che
MONTEDISON, quando nel 1974 sarebbe divenuta consapevole del pericolo
cancerogeno costituito dal CVM, avrebbe fatto immediatamente di tutto per
garantire la sicurezza degli operai. Una tale asserzione del Tribunale è stata
fatta in relazione sia all'accusa di cui all'art. 437 c.p., sia a quella di
disastro innominato colposo, sia a quella di lesioni e morti colpose. E però
una tale asserzione sarebbe profondamente errata per tutta una serie di
considerazioni, soprattutto di fatto.
Primo e gravissimo errore del Tribunale sarebbe stato quello
di “cancellare” dal suo esame e dalle sue valutazioni il fattore “tossicità” e
trattare solo quello relativo alla cancerogenicità.
Infatti, la tossicità del CVM è emersa fin dagli anni
cinquanta e da quell’epoca gli impianti dovevano adeguarsi alla normativa e
tutelare la salute dei lavoratori. A ciò va aggiunto il fatto che anche
il rischio cancerogeno è emerso durante gli anni sessanta, comunque ben prima
del 1974 e quantomeno dal 1969 con gli studi del prof. Viola.
L’assoluzione dalle
contravvenzioni relative alla materia, pertanto, non solo è ingiusta ma è
immotivata, tenuto conto della loro contestata permanenza alla data della
contestazione suppletiva e del pacifico mantenimento degli impianti di
monitoraggio nelle condizioni e con le stesse modalità di funzionamento
documentate sino al 1995 dalla documentazione esaminata dal C.T. prof.
Nardelli.
Procede poi il P.M., con la
consueta tecnica di citazione di specifici brani della sentenza e relative
proprie osservazioni, ad analisi delle
singole condotte omissive contestate agli imputati, erroneamente, si
sostiene, non ritenute dal Tribunale.
Si precisa in particolare
l’indicazione e l’illustrazione dei fatti che concretamente si contestano agli
imputati, ognuno per il periodo di rispettiva competenza, sostenendosi che:
1.VENIVA
OMESSO QUALSIASI INTERVENTO DI BLOCCO (definitivo o anche solo temporaneo)
DEGLI IMPIANTI, in particolare di
quelli più obsoleti ed irrecuperabili, ad esempio il CV6, come evidenziato e
richiesto dalle piattaforme e dai documenti sindacali (del 1975 e del 1977),
nonché dalla mozione n. 4 presentata al Consiglio regionale Veneto il 4 agosto
del 1975, mozione cui il Presidente della Montedison Eugenio CEFIS rispondeva
in data 19 agosto 1975.
2.
VENIVA OMESSO DI PREDISPORRE E COLLOCARE (o far collocare) SISTEMI E APPARECCHI
DI SICUREZZA DESTINATI ED IDONEI A PREVENIRE LA INSORGENZA NEI DIPENDENTI DELLO
STABILIMENTO PETROLCHIMICO DELLA MONTEDISON E DELLA MONTEFIBRE DI PORTO
MARGHERA, NONCHE’ NEI DIPENDENTI DELLE VARIE COOPERATIVE D’APPALTO, DI TUMORI E
MALATTIE (ANCHE GRAVISSIME), a causa del contatto con il CVM-PVC (e relativi
componenti/additivi di polimerizzazione e lavorazione).
3.
VENIVA OMESSO IL SEGNALATO RICHIESTO “INTERVENTO GLOBALE DI RISANAMENTO DEGLI
IMPIANTI DA UN LATO E MISURE CHE GARANTISCANO PER IL FUTURO IL MONITORAGGIO
CONTINUO DELL’AMBIENTE E DEGLI OPERAI”(relazione FULC e Università di Padova
del 12.3.1977)
4.
ANCORA PIU’ IN PARTICOLARE, LA COLPA (progressiva nel tempo) E’ CONSISTITA IN
IMPRUDENZA, NEGLIGENZA, IMPERIZIA ED ESPRESSA VIOLAZIONE DEGLI ARTT. 2087 C.C.
– ARTT 236 CO.1 E 4, 244 LETT. A, 246, 354 CO. 1 E 2, 374, 375, 377, 383, 387,
389, 391 D.P.R. 27 APRILE 1955 N. 547 – ARTT. 3, 4, 17, 19, 20,21, 25, 58, 59
DEL D.P.R. 19 MARZO 1956 N. 303, PER NON AVER – PUR IN PRESENZA DELLE CONOSCENZE
MEDICHE E SCIENTIFICHE DI CUI SOPRA – ADOTTATO NELL’ESERCIZIO DELL’IMPRESA
TUTTE E IMMEDIATAMENTE LE MISURE NECESSARIE PER LA TUTELA DELLA SALUTE DEI
LAVORATORI.
5.
PER AVER INSERITO (o fatto inserire) NEI PROGRAMMI E NEI BUDGETS ANNUALI (o
poliennali) DI INVESTIMENTO E DI MANUTENZIONE CAPITOLI DI SPESA RELATIVI, IN
MANIERA SPECIFICA, AGLI IMPIANTI DEL CVM-PVC, DEL TUTTO INSUFFICIENTI RISPETTO
ALLA NECESSITA’ DI ELIMINARE TOTALMENTE ED IMMEDIATAMENTE LE FUGHE DI GAS CVM,
DI 1,2 DICLOROETANO E LE LORO IMPUREZZE DI REAZIONE NELL’AMBIENTE DI LAVORO
(reparti) E NELL’AMBIENTE ESTERNO (a partire, in particolare, dal programma di
investimenti 1973-75, datato novembre 1973, acquisito c/o la Prefettura di
Venezia).
6.
PER NON AVER CURATO CHE I LAVORATORI USASSERO TUTTI I MEZZI NECESSARI DI
PROTEZIONE INDIVIDUALE (in particolare quelli addetti alla pulizia delle
autoclavi, dei serbatoi di CVM, slurry, cicloesanone, delle colonne di
strippaggio, degli essicatori e filtri, dei gasometri del CVM di recupero,
nonché all’essiccamento e all’insacco) E GLI APPARECCHI RESPIRATORI IDONEI AD
EVITARE L’ASPIRAZIONE DEI GAS.
7.
PER NON AVER PREDISPOSTO MISURE DI SICUREZZA PER TUTTE LE FASI DEL CICLO
PRODUTTIVO (comprese quelle di essicamento, stoccaggio, immagazzinamento,
trasporto, carico, insaccamento, ecc.) E PER TUTTI GLI AMBIENTI DI LAVORO,
COMPRESO IL LABORATORIO.
8.
PER NON AVER SEPARATO LE LAVORAZIONI INSALUBRI, PONENDO IN PARTICOLARE
ALL’ESTERNO DEI LOCALI LE PARTI DEGLI IMPIANTI POTENZIALMENTE SOGGETTE A
PERDITE ANCHE STRAORDINARIE DEI GAS.
9.
PER NON AVER DISPOSTO (o almeno richiesto) LO SPOSTAMENTO DAGLI AMBIENTI A
RISCHIO CVM DEI LAVORATORI DELLA MONTEDISON E DELLA MONTEFIBRE, il cui
spostamento era stato indicato come inevitabile nella relazione del marzo 1977
dell’Istituto di Medicina del Lavoro dell’Università di Padova.
10.
PER NON AVER REAGITO IN ALCUNA MANIERA O COMUNQUE IN MANIERA INSUFFICIENTE,
ALLE SEGNALAZIONI CONTENUTE IN DETTA RELAZIONE DEL MARZO 1977, in cui si
parlava di “situazione sanitaria complessiva grave e tale da richiedere un
intervento globale di risanamento degli impianti da un lato e misure che
garantiscano per il futuro il monitoraggio continuo dell’ambiente e degli
operai”.
11.
PER AVER CREATO, ORGANIZZATO E MANTENUTO UN’INFERMERIA, UNA STRUTTURA SANITARIA
E UN SERVIZIO MEDICO-SANITARIO ALL’INTERNO DELLO STABILIMENTO PETROLCHIMICO
DELLA MONTEDISON E DELLA MONTEFIBRE DI PORTO MARGHERA DEL TUTTO INSUFFICIENTI
RISPETTO ALLE NECESSITA’ DI PREVENZIONE E DI CONTROLLO DELLA SITUAZIONE
SANITARIA GENERALE E PARTICOLARE DELLE MIGLIAIA DI DIPENDENTI DELL’INTERO
STABILIMENTO PETROLCHIMICO e, in particolare, delle varie centinaia di
dipendenti addetti alla lavorazione e trattazione in qualsiasi maniera del
CVM-PVC, nonché dei dipendenti delle società cooperative che lavoravano in
appalto all’interno dello stabilimento, entrando in contatto con il CVM-PVC.
12.
PER NON AVER FORNITO INFORMAZIONI DETTAGLIATE E TEMPESTIVE AI PROPRI DIPENDENTI
DI PORTO MARGHERA E AI DIPENDENTI DELLE DITTE CHE LAVORAVANO IN APPALTO IN
ORDINE ALLA NOCIVITA’ E PERICOLOSITA’ DEL CVM-PVC (fin dal 1970) E DEL
DICLOROETANO (fin dal 1977), ALLA REALTA’ IMPIANTISTICA E ALLE QUANTITA’DI
EMISSIONE IN ARIA (sia all’interno che all’esterno dei singoli reparti), SE NON
A SEGUITO DI PRESSANTI RICHIESTE SINDACALI (reiterate in particolare fino al
1977 e al 1980) generate dalle conoscenze acquisite “aliunde” dai lavoratori e
dai loro rappresentanti di fabbrica e sindacali.
13.
PER NON AVER MUNITO DI CAPPE DI ASPIRAZIONE E DI SISTEMI DI CAPTAZIONE DEGLI
INQUINANTI IDONEI I LUOGHI IN CUI VENIVANO EFFETTUATE OPERAZIONI CHE PER
MODALITA’ DI ESECUZIONE ESPONEVANO GLI OPERAI ADDETTI AD INALAZIONE DEI VAPORI,
DI GAS E DELLE POLVERI SUINDICATI (tutte le fasi di lavorazione del PVC, tra
cui le fasi di prelievo del lattice, pesatura e successiva analisi fisica,
pulizia dei filtri, insaccamento del polivinilcloruro.
14.
PER NON AVER REALIZZATO SUFFICIENTI INTERVENTI DI CONSERVAZIONE E MANUTENZIONE
DEGLI ELEMENTI DEGLI IMPIANTI PIU’ SOGGETTI A DETERIORAMENTO E DEI QUALI ANDAVA
GARANTITA LA PERFETTA TENUTA, ONDE EVITARE IL RISCHIO DI DISPERSIONE E FUGHE DI
GAS IN AREE DI LAVORO (quali valvole, flange, premistoppa e compressori CVM.
15.
PER NON AVER TEMPESTIVAMENTE INSTALLATO GASCROMATOGRAFI O ALTRI STRUMENTI DI
RILEVAZIONE IN CONTINUO, PREDISPOSTI ANCHE PER SEGNALARE IMMEDIATAMENTE IN
TUTTI I REPARTI LE FUGHE (ordinarie e straordinarie) DI GAS CVM (quantomeno dal
1972) E DI DICLOROETANO ( quantomeno dal 1978) NELL’ARIA DEI LUOGHI E DEI
SINGOLI POSTI DI LAVORO.
16.
PER AVER COMUNQUE INSTALLATO NEL 1975 E SUCCESSIVAMENTE CONTINUATO AD
UTILIZZARE GASCROMATOGRAFI E RETI DI RILEVAMENTO DEL TUTTO INIDONEI A GARANTIRE
LA TEMPESTIVA RILEVAZIONE DELLE FUGHE, L’ESATTA INDIVIDUAZIONE DEL PUNTO DI
FUGA, NONCHE’ LA CONCENTRAZIONE DEL CVM NEI SINGOLI POSTI DI LAVORO,
GASCROMATOGRAFI E RETI DI RILEVAMENTO PER DI PIÙ MALFUNZIONANTI E COMUNQUE IN
CONTRASTO PURE CON LE PREVISIONI DELLA NORMATIVA C.E.E. – DIRETTIVA N. 78/610 –
E CON IL D.P.R. 10 SETTEMBRE 1982 N. 962, NONCHE’ INSUFFICIENTI NUMERICAMENTE,
con particolare riferimento al fatto che presso il reparto CV24, quantomeno
fino al 1989, era necessario, ad esempio, interrompere il monitoraggio del CVM
sull’intera linea in occasione delle ispezioni delle autoclavi (sprovviste di
sistemi di monitoraggio autonomo) ad opera del personale addetto al controllo
ed alla pulizia, ad ogni ciclo e quindi dopo ogni bonifica.
Ripropone poi il P.M. l’elenco dei lavoratori del
Petrolchimico più a rischio, e cioè quelli addetti alle autoclavi, all’insacco
e all’essiccamento del PVC, colpiti da diversificate patologie. Elenchi che
durante la requisitoria erano stati proiettati sullo schermo e che, secondo
l’appellante, anche visivamente venivano a confermare questa sorta di singolare
epidemia che aveva colpito (e continua a colpire) gli operai in questione.
Ci si lamenta al riguardo che il Tribunale non ha
considerato minimamente questi elenchi nel loro insieme, che specificavano –
tra l’altro – anche i casi dei lavoratori assunti dopo il 1970. Pur avendo
dovuto riconoscere l’esistenza di tali particolari mansioni a rischio, il
Tribunale non ne avrebbe tratto – illogicamente e immotivamente – le
conseguenze, non avendo valutando la massa imponente di dati storici ed
oggettivi attestanti il pericolo corso da questi e da altri operai, pericoloso
concretizzatosi con numerosi casi di malattia e di morte.
A sostegno di tale motivo l’appellante richiama
l’argomento relativo alle mansioni degli autoclavisti e alle asserite modifiche
portate alle autoclavi che sarebbe uno dei più emblematici e rappresentativi
dell’intera sentenza impugnata in tema di mistificazione della realtà
processuale. Sostiene infatti il P.M. che in questa parte della motivazione,
più che in ogni altra, si rinviene una sbalorditiva concentrazione di errori,
di contraddizioni in punto di fatto, di omissioni evidenti, di vere e proprie
distorsioni ed alterazioni della realtà processuale emersa nel corso del
dibattimento di primo grado. Al riguardo si evidenzia che in questa, come nelle
altre parti della sentenza relative alle modifiche e agli interventi eseguiti
sugli impianti dello stabilimento Petrolchimico, la motivazione accoglie in
toto, considerandole come valido ed unico elemento di prova, le risultanze
documentali provenienti dall’azienda. In particolare le già note “commesse”. Si
ignorerebbero invece le prove documentali e testimoniali fornite dall’accusa,
distorcendone altre per renderle favorevoli alla tesi sostenuta.
Secondo il P.M., così facendo, la sentenza si
concentra sui dati forniti dalle “commesse” discusse dai CC.TT delle aziende,
elevandoli ad elementi certi di una asserita ma non dimostrata modifica delle
procedure e delle apparecchiature. E però, nel far questo, da un lato la
sentenza cade in continua contraddizione persino con se stessa , dall’altro
costruisce l’intero impianto logico su di un errore di fondo insuperabile:
errore di fondo che consiste nel ritenere eseguiti gli interventi su impianti e
procedure solo perché progettati dalle singole commesse.
Ma gli interventi o non sono mai stati realizzati o,
anche se avviati, sono stati successivamente interrotti e abbandonati per
l’inefficacia delle strumentazioni acquistate a seguito delle commesse.
Commesse, dunque, che, elevate ad unico elemento probatorio dal Giudice di
primo grado, dimostrano in pieno la totale fallacia e inaffidabilità.
Si citano dunque nell’atto di appello i passi della
sentenza che trattano l’argomento con evidenziazione degli asseriti errori e
contraddizioni e indicazione delle fonti probatorie che deporrebbero il
contrario, rimarcando come il Tribunale omette ogni citazione testimoniale
quando si tratta di deposizioni che rilevano l’inefficienza degli impianti;
quando sceglie un teste estrapola solo le dichiarazioni concordanti con la tesi
accolta dell’efficienza degli impianti.
Dunque secondo il P.M., i discordanti riferimenti
testimoniali citati, le omissioni evidenti e le contraddizioni contenute nella
stessa motivazione dimostrano ancora una volta l’erroneità della sentenza
impugnata, che deve essere quindi radicalmente riformata.
Per analoghi motivi ritiene il P.M. che la sentenza di
primo grado debba essere totalmente riformata anche in relazione alle posizioni
riguardanti tutti i lavoratori addetti all’insacco.
Al riguardo ripercorre le quattro principali contestazioni
d’accusa mosse agli imputati che fanno riferimento alla categoria degli operai
addetti all’insacco.
1. Con particolare riferimento
agli insaccatori soci delle cooperative in appalto, osserva l’appellante come
il Tribunale, dopo aver escluso la sussistenza di una relazione causale (o
concausale) tra le patologie respiratorie che hanno colpito
tale categoria di lavoratori e l’ esposizione dei lavoratori alla polvere di PVC, riconosce comunque che vi è stato, da parte di Montedison,
l’omissione del controllo dell’uso della maschera antipolvere nei confronti dei
soci - lavoratori delle cooperative. In tal modo il Tribunale, fra le condotte contestate nel capo di
imputazione, ritiene fondata tale specifica omissione che trova espresso riferimento normativo nell’obbligo del datore di lavoro “di disporre ed esigere che i lavoratori
usino i mezzi di protezione messi a loro disposizione …”, obbligo previsto dall’ art. 4 lett. c del DPR 27 aprile 1955
n. 547 e art 4 DPR 303/56 che va messo in relazione, per quanto concerne il
lavoro di insacco che espone il lavoratore al contatto con le polveri, con
l’art. 387 del medesimo DPR 547 che fa obbligo “l’uso di maschere respiratorie
a lavoratori esposti a specifici rischi di inalazioni pericolose di gas,
polveri o fumi nocivi”.
E così il Tribunale, mentre:
- da un lato riconosce l’applicabilità degli obblighi di cui alla
citata normativa antinfortunistica in capo ai dirigenti di Montedison e a
tutela dei soci lavoratori delle cooperative
– in evidente applicazione degli artt.
3, 2 comma letta a) del DPR 547 e art. 3 DPR 303/56, nonché del principio della cosiddetta “ingerenza” della ditta
committente, che determina la responsabilità della ditta committente – Montedison - per eventi di malattia o morte che
colpiscono i soci delle cooperative in appalto;- e, conseguentemente, riconosce che questa categoria di lavoratori (ma non diversamente si può desumere anche per gli insaccatori
dipendenti di Montedison) era soggetta a “specifici rischi di inalazioni
pericolose” e che la polvere di PVC era a tutti gli effetti
“nociva;
si pone poi in evidente
contrasto – con conseguente vizio della sentenza sotto tale profilo – con quanto dallo stesso assunto in
altre parti della decisione laddove
ritiene la “non pericolosità” della
polvere di PVC e l’ insussistenza di situazione di alta polverosità degli
ambienti di insacco (che, se insussistente,
avrebbe esentato i lavoratori dall’obbligo dell’uso delle maschere) ed anzi assume che Montedison ed Enichem
avrebbero predisposto tutti gli accorgimenti e gli interventi
idonei ad evitarla.
Tanto, nonché l’omessa valutazione
delle ulteriori specifiche contestazioni rende viziata, secondo l’appellante,
la decisione. Ritenuta, infatti, la nocività del PVC – sia in quanto “polvere” in sé (cfr art. 21, 1 comma, DPR303/56)
sia in quanto polvere “pericolosa” (cfr il riferimento, seppur implicito,
all’art. 387 ) - non si poteva non
rilevare la palese violazione
degli altri obblighi contestati nel capo di imputazione.
2.
Palese poi, secondo l’appellante, la violazione dell’obbligo
di “rendere edotti i lavoratori dei rischi specifici cui erano esposti…” (cfr
art. 4 lett b DPR 547/55e art. 4 e 5
DPR 303/56), violazione contestata all’ultima riga di pag. 6 del capo di
imputazione (“per non aver fornito informazioni dettagliate … ai dipendenti
delle ditte..”).
Al riguardo sostiene l’appellante
che intanto sicuramente esistente, in forza delle evidenze processuali fondate
sulle relazioni dei consulenti tecnici che si richiamano in ordine al punto
specifico, era il rischio, quantomeno della nocività del PVC per l’apparato
respiratorio dei lavoratori addetti all’insacco, e sicura la sua conoscenza in
capo ai dirigenti Montedison che emergerebbe dai seguenti elementi probatori:
- dalla doverosa conoscenza della normativa vigente (il DPR
303/56, art 21 , impone, ad esempio, al
datore di lavoro di evitare il contatto
e/o di ridurre la dispersione delle “poveri in genere” mentre l’articolo 33 e la tabella richiamata
prevede l’obbligo di effettuare visite trimestrali nei confronti di lavoratori
addetti all’impiego del cloro e dei suoi composti);
- dalla conoscenza certa sin dagli
anni cinquanta e sessanta che all’interno del polimero, in particolare nel PVC
in sospensione, erano inglobate
molecole di CVM, come è confermato anche indirettamente dal fatto che l’impresa
avrebbe negli anni ‘76 e ‘77, a suo dire, introdotto il sistema di strippaggio
proprio per prelevare queste molecole di CVM;
- dai rilievi svolti dai singoli
operatori che accertavano, contrariamente alle rilevazioni dell’impresa, che la presenza di CVM nei
locali addetti all’insacco era
particolarmente consistente;
- dalla scheda della Montedipe
numero 336 del 05/07/85 in cui il PVC viene definito “tossico acuto per
inalazione” e che - si dice- “induce alterazione al sistema respiratorio”;
- dalla consegna ai lavoratori
(solo quelli dipendenti) del dentifricio NOVO SATURNO da usare prima dei pasti,
per evitare l’ingestione delle polveri e dei vapori depositati nel cavo orale
da parte dei lavoratori del CVM-PVC;
dal fatto che nel 1967 vennero
pubblicati, come detto, sulla Tribuna del CEBEDEAU (Liegi) i risultati delle
indagini sui granuli del PVC svolte da Montedison.
Di converso la contestata violazione
dell’obbligo di informazione sarebbe invece dimostrata, dai seguenti elementi:
- dai contratti di appalto con le varie Cooperative, dove non vi è
cenno alcuno al rischio specifico per i lavoratori derivante dalla polvere di
PVC e dal CVM nella stessa contenuto come monomero residuo;
- dalla lettera del maggio del 1984 con la quale il dott.
Clini chiedeva a Montedison,
Montepolimeri, a Riveda e alla Cooperativa Facchini Tessera, i motivi per i
quali non sono stati comunicati al suo servizio i nominativi dei lavoratori
delle cooperative per la tutela sanitaria;
-
dalle testimonianza dei testi
Barina, insaccatore dal ‘76 all’80, che ricorda che ai corsi per la prevenzione non vi erano i lavoratori delle
cooperative; Battaggia che esclude nel modo assoluto di essere stato informato
della pericolosità del PVC e del CVM in
esso contenuto come monomero residuo; Pezzato, che ha lavorato dall’80 all’86,
ma non ricorda che gli sia stata mai comunicata tale pericolosità; De Catto che
non è mai stato avvertito da nessuno, ma lo è venuto a sapere indirettamente dai dipendenti; Giacomello,
che dichiara pure lui saperlo soltanto dagli anni 80; ed anche il teste della
difesa Gasparini, che è il principale teste, dice che i capi delle cooperative
erano messi a conoscenza della pericolosità del CVM, ma non del PVC.
Connesso al predetto obbligo
sarebbe poi quello del committente di accertarsi che l’appaltatore a cui affida
l’opera sia soggetto non soltanto munito di titoli di idoneità previsti dalla
legge, ma anche della capacità tecnica e professionale in relazione al tipo di
lavoro che gli è stato affidato. E anche in riferimento a questo obbligo vi è, secondo l’appellante, il fondato
dubbio che, nel caso in esame, vi sia stata una violazione di legge.
3. Risulta, ancora, provata
la violazione dell’obbligo del datore
di lavoro e committente dei lavori in
appalto di “adottare intereventi volti ad impedire o a ridurre lo sviluppo o la
diffusione della polvere” (art. 21
comma 1 DPR 303/56 ) e di “ove non sia
possibile sostituire il materiale di lavorazione polveroso, di adottare
procedimenti lavorativi in apparecchi chiusi muniti di sistemi di aspirazione e
di raccolta delle polveri…” “…vicino al
luogo di lavoro …”, ..”comunque impedendo alle polveri di rientrare
nell’ambiente di lavoro “ (art 21 comma 3,4,5 e 7 DPR), norme richiamate nel
capo d’imputazione con specifica contestazione.
Al riguardo, ricordate le tecniche
di produzione del PVC (con polimerizzazione del CVM in “emulsione”, adottata
presso l’impianto CV6, e con polimerizzazione in “sospensione” adottata presso
gli impianti CV14, CV16, CV24/CV25), contesta il P.M. l’assunto del Tribunale
secondo il quale la polverosità dell’ambiente conseguente alla polimerizzazione
in sospensione sarebbe migliorata dopo i primi anni settanta, affermandosi
invece che tale miglioramento e adeguamento impiantistico sarebbe sconfessato
da ben 7 testi, e perché gli interventi tecnici realizzati sarebbero comunque o
tardivi o inutili, onde la valutazione del Tribunale sarebbe oltre che erronea
frutto di travisamento dei fatti emergenti dalle dichiarazioni testimoniali, e
ricorda l’appellante le testimonianze non considerate dal Tribunale e quelle
asseritamente travisate.
E così fondata sarebbe l’accusa di “aver omesso le misure
quali …. il monitoraggio continuo
dell’ambiente e degli operai…” e “di
non aver tempestivamente installati gascromatografi o altri strumenti di
rilevazione in continuo” negli ambienti di insacco.
Sarebbe infatti dato indiscutibile
che gli ambienti dove veniva svolto l’insacco
non sono mai stati ricompresi
tra le “zone sorvegliate”, fatto confermato da tutti i testi escussi, mentre
sul punto nulla dice il tribunale che anzi lo ritiene irrilevante perché la presenza di CVM residuo nel PVC in emulsione
sarebbe stato inferiore od eguale ad 1 PPM. Ma le cose, secondo il P.M., non
starebbero così in quanto nell’apice
del reparto CV6 , dopo il degasaggio , rimane ancora presente una notevole quantità di CVM residuo,
CVM che si libera in ambiente dagli
sfiati dei serbatoi di stoccaggio dell’apice e dalle successive
apparecchiature. E sottolinea l’appellante come il Tribunale dimentichi che i
bollettini di analisi – a campione - che avvalorano tale dato sono del
periodo 1987 - 1989 e quindi assai recenti ( nulla ci dicono della presenza del CVM in
epoca anteriore) e che il
teste Perazzolo ha riferito che il quantitativo di CVM che si
riscontrava con gli apparecchi di
rilevazione presso il magazzino PVC o
CV7 era “di base” pari a non meno di 10 PPM. Ragione questa che doveva
imporre il monitoraggio continuo in tali ambienti.
4) E’ Fondata, ancora, per il P.M., la contestazione “di aver creato organizzato
e mantenuto all’interno dello stabilimento petrolchimico di Porto Marghera, un
servizio sanitario del tutto insufficiente rispetto alle necessità di
prevenzione e di controllo della situazione generale e in particolare dei
dipendenti delle cooperative che entravano in contatto con CVM e PVC”.
Lamenta l’appellante che sul punto
il Tribunale nulla assume, nonostante fosse pacifico che i soci delle cooperative, dalle misure
sanitarie praticate agli altri lavoratori, periodicità dei controlli
normativamente previsti per gli addetti a produzioni nocive e ai lavoratori del
ciclo del cloro (cfr art. 33 DPR 303/56), sono sempre stati i grandi esclusi,
fatto comprovato in atti testimonialmente.
Analoghe censure muove poi l’appellante in merito ai
lavoratori addetti alla manutenzione, in ordine ai quali nulla avrebbe riferito
il Giudicante di primo grado.
Secondo il P.M. i dati certi che
si traggono dalle dichiarazioni rese in sede dibattimentale e disattesi dal
Giudicante di primo grado, sono due.
Innanzitutto,
i testi sono concordi nell’affermare che mentre la manutenzione straordinaria,
eseguita episodicamente a cura delle officine centrali, veniva normalmente
svolta previa fermata degli impianti, la manutenzione ordinaria, eseguita anche
quotidianamente e posta in essere dalle officine di zona e dalle squadre di
reparto, veniva comunque fatta con gli impianti in esercizio e ciò con
conseguente esposizione dei lavoratori addetti alle sostanze ivi lavorate.
In
secondo luogo, i lavoratori sono concordi nel riferire che gli addetti alla
manutenzione intervenivano sempre qualora si verificassero fughe di gas nei
reparti senza, tuttavia, previa bonifica degli stessi e conseguente diretta
esposizione ai gas tossici fuoriusciti.
Sul
punto poi si ricorda ancora la mancata predisposizione ed il mancato controllo
sull’utilizzo anche da parte dei manutentori dei mezzi di prevenzione
personale, richiamando testimonianze al riguardo.
Ne
deriverebbe come inevitabile conclusione l’esposizione a CVM ed a PVC dei
lavoratori addetti alla manutenzione. Secondo il P.M. infatti, trattandosi di
personale adibito agli interventi manutentivi all'interno di tutti i reparti,
ivi compresi anche quelli ritenuti ad alto rischio espositivo dallo stesso
Giudicante di primo grado, senza adeguati mezzi di prevenzione, senza previa
sospensione degli impianti e senza infine previa bonifica in caso di intervento
a seguito di fughe, è incontestabile l'esposizione di detti lavoratori a tutte
le sostanze nocive prodotte nei singoli reparti.
Conclusioni
che sarebbero conformi a quanto risultante dalle matrici mansione-esposizione
pubblicate dai dott. Comba e Pirastu e
altri (“La mortalità dei produttori di cloruro di vinile in Italia in Med. Lav.
1991) sulla base di dati forniti dall’azienda. E conformi altresì alle
risultanze d’origine aziendale della “Legenda dei reparti con esposizione diretta
e/o indiretta degli addetti ai cancerogeni CVM, DCE, PVC, nonché ad altri
agenti tossico nocivi presso il Petrolchimico di Porto Marghera”, egualmente
agli atti del procedimento, legenda secondo la quale i lavoratori addetti a
interventi manutentivi su impianti e macchinari nonchè negli ambienti di lavoro
relativi a tutte le lavorazioni del CVM e PVC sono soggetti
all’esposizione di tutti gli agenti
tossico nocivi presenti nei reparti frequentati. Ed altresì conformi alle
indicazioni fornite dall’azienda che, conglobando i detti lavoratori nel cd.
“Gruppo H” comprendente i laboratori di controllo, il parco serbatoi, le
manutenzioni ed il controllo cromatografi (come risultante della lettera datata
12.6.1979 a firma dott. Giudice ed inviata al dott. Bartalini, discussa
all’udienza 5.4.2000), risulta classificare i lavoratori addetti tra gli
esposti. Lamenta poi l’appellante un’altra
grave omissione addebitabile al Tribunale, al quale era stato rappresentato,
chiaramente e documentalmente, che dal 1970 in poi erano stati assunti ed erano
stati assegnati ai reparti CVM –PVC decine di nuovi operai. Per costoro,
quindi, l’esposizione al CVM-PVC iniziava dopo il 1969 e per tredici di loro
persino dopo il 1973.
Rilievo, questo, che si assume importante in
quanto:
- secondo l’accusa, la cancerogenicità del CVM
venne segnalata ufficialmente al mondo intero in occasione del Congresso
internazionale di Medicina del Lavoro di Tokyo del settembre 1969, a seguito
delle vicende del Prof. Viola;
- secondo il Tribunale, l’epoca scriminante
relativamente alla conoscenza della cancerogenicità del CVM è la fine dell’anno
1973, che coincide con la vicenda “Goodrich”.
Ciò
significa che, dal punto di vista della conoscenza sulla cancerogenicità, prendendo per buono l’assunto
del Tribunale sull’inizio dei consequenziali obblighi per l’imprenditore,
andavano in ogni caso, esaminate ed approfondite accuratamente le posizioni dei
lavoratori:
- con inizio esposizione successiva al 1969
(accettando l’impostazione del P.M.);
- con inizio esposizione successiva al 1973 (accettando l’impostazione del Tribunale).
Ma i Giudici di primo grado non
hanno fatto né una cosa né l’altra.
Per contro, nel riproporre i
relativi elenchi, sostiene il P.M. che meritavano una analisi particolareggiata
quei lavoratori colpiti da patologie per le quali lo stesso Tribunale aveva
riconosciuto un nesso causale (malattia di Raynaud ed epatopatie).
E meritava un’analisi, anche
semplice, quel gruppo di lavoratori (21) che avevano iniziato ad essere esposti
dopo il 1973, in un periodo in cui – secondo il Tribunale – ormai tutti i
precedenti gravi problemi di esposizione al CVM-PVC sarebbero stati risolti.
In particolare, si cita il caso
di Carlo Bolzonella, deceduto per epatocarcinoma, assunto nel 1981 ed andato in
cassa integrazione nel 1989 (come già ricordato): morto dopo aver lavorato per
MONTEDISON, per ENICHEM e per ENIMONT.
Ma nemmeno lui, rimarca
l’appellante, ha meritato un commento per il Tribunale, nemmeno una riga sulla
sua particolare situazione.
Anche per questi motivi,
ritiene il P.M. che la sentenza di primo grado debba essere radicalmente
riformata.
Rimarca poi ancora l’appellante
la doglianza secondo la quale il Tribunale avrebbe operato, con USO DISTORTO
DELLE DICHIARAZIONI TESTIMONIALI, una errata ricostruzione dei
fatti storici oggetto della presente vicenda processuale estrapolando, dalle
deposizioni dei numerosissimi testi assunti nel corso del dibattimento,
solamente alcune affermazioni ed alcune circostanze, mirate alla decisione di
cui al dispositivo, senza mai dare alcun conto dei criteri di selezione, scelta
e valutazione adottati.
E cita al riguardo, a titolo
esemplificativo, le testimonianze di GASPARINI Danilo, GIUDICE Salvatore,
ALONGI Vittorio, BACCHETTA Enzo che porterebbero a diversa valutazione rispetto
a quella avvalorata dal Tribunale.
Circa i reati di cui agli ARTT.
589 - 590 C.P. ed alla problematica della CASUALITA’, il P.M. appellante,
premesse alcune considerazioni che troverebbero giustificazione a seguito della
sentenza n. 30328 del 10.7/11.9..2002 emessa dalle Sezioni Unite della Corte di
Cassazione sostiene che anche su questa parte, che può considerarsi il pilastro
dell’intera vicenda processuale che ci riguarda la sentenza impugnata commette
gravissimi errori di interpretazione del nesso causale: errori che riguardano
sia l’interpretazione data dai Giudici di primo grado dell’istruttoria
dibattimentale del presente processo penale, sia la stessa interpretazione
giuridica del nesso causale in relazione alle condotte ascritte agli imputati e
agli eventi di reato che ne sono conseguiti.
Osserva in particolare: che la sentenza delle SS.UU.
della Suprema Corte, dirimente un contrasto interpretativo sorto in seno alla
sezione IV dello stesso giudice di legittimità, pur riguardando un caso di
responsabilità per attività medico-chirurgica, è riferibile – come la stessa
pronuncia afferma espressamente – anche ai settori delle malattie
professionali, delle alterazioni ambientali e del danno da prodotto.
Nello specifico settore delle malattie professionali
si ritiene che essa si attagli precipuamente al caso oggetto della presente
vicenda processuale.
L’imprescindibile riferimento ad essa consente,
inoltre, di affermare la valenza della tesi sostenuta dall’accusa, in particolare
di quanto questo Ufficio ebbe ad esporre in sede di replica della propria
requisitoria all’udienza del 10 ottobre 2001 sulla questione giuridica del
nesso causale.
Nel contempo, la pronuncia citata permette di
evidenziare i gravi errori commessi dalla sentenza impugnata.
Premette al riguardo che le Sezioni Unite della Corte
di Cassazione – per usare le stesse parole della Corte - sono state chiamate a
dirimere un conflitto interpretativo che non riguarda lo statuto
condizionalistico e nomologico del rapporto di causalità, riguardando invece il
contrasto giurisprudenziale a causa del quale è stato chiesto l’intervento
delle Sezioni Unite la concreta verificabilità processuale di quello statuto,
ovvero la individuazione dei criteri di determinazione e di apprezzamento del
valore probabilistico della spiegazione causale.
E rivendica il P.M. che già in sede di replica nel
giudizio di primo grado, seguendo un ragionamento logico analogo a quello che
oggi si ritrova nella sentenza delle SS.UU., dopo aver fatto riferimento alle
varie e diversificate pronunce della giurisprudenza di legittimità in tema di
causa penalmente rilevante, si era soffermato sulla necessità di definire e
precisare meglio il concetto di grado di probabilità. Aveva fatto
riferimento a questo proposito alla sentenza 12.7.1991 della sez. IV, che
riteneva sufficiente un grado di probabilità pari al 30% per ritenere
sussistente il nesso causale tra la condotta omissiva del medico e l’evento
lesivo. Ma solo come riferimento di minima, come si potrebbe chiamarlo, e solo
per considerare che lo stesso concetto veniva ripreso da una sentenza di 10
anni dopo, il 17.9.2001, a ridosso della conclusione del primo grado di questo
processo, sentenza che era in contrasto con le tre sentenze della stessa quarta
sezione (estensore Battisti), che accoglievano un criterio più rigido di
probabilità.
Errerebbe quindi la sentenza impugnata laddove,
inspiegabilmente, addossa al Pubblico Ministero affermazioni di stretto diritto
che non ha mai espresso, attribuendogli del tutto arbitrariamente “orientamenti
che introducono nel processo ricostruttivo del nesso causale istanze di
prevenzione generale”. Ma soprattutto erra nelle conclusioni cui giunge in tema
di spiegazione del nesso causale.
Al riguardo, ricorda l’appellante che il Tribunale
afferma che “il modello causale compatibile con il nostro ordinamento è quello
idoneo ad includere non solo le spiegazioni nomologico-deduttive provviste di
certezza (la copertura data dalla legge universale), ma anche le spiegazioni
offerte dalla scienza secondo un modello statistico-induttivo che colloca
l’approccio nomologico nello specifico contesto che valorizza la ricerca e
l’analisi di tutti i fattori presenti e interagenti: in tale modo anche le
leggi statistiche sarebbero in grado di spiegare che un evento si è verificato
a patto che la frequenza consenta di inferire l’explanandum con quasi certezza
sulla base di una relazione logico-probabilistica” (pag. 145).
E
questo modello – continua – è quello assunto dagli orientamenti
giurisprudenziali più recenti.
Questo è il modello, secondo il Tribunale, che
consente di spiegare l’indagine causale nell’ambito delle scienze cui si è
fatto ricorso nel processo che ci riguarda (epidemiologia, biologia molecolare,
tossicologia, medicina legale).Continua, ancora, il Tribunale sostenendo che il
ragionamento del medico-legale è tipicamente induttivo: muove da un fatto
concreto (l’evento) per risalire al fenomeno che lo ha determinato (la causa) e
questo ragionamento, anche se fondato su osservazioni di valore
statistico-probabilistico, può fornire apprezzabili e rigorosi risultati (pag.
146).
E precisa ancora che il rigore metodologico e
epistemologico con cui le scienze conducono le loro indagini, la potenza dei
risultati raggiunti per l’ampiezza di uno studio, il grado di consenso ricevuto
nella comunità scientifica, la coerenza dei risultati raggiunti nelle diverse
scienze, sono tutti elementi necessari a propendere verso la certezza dei nessi
sia nella causalità generale che nella causalità individuale (pagg. 146-147).
Può accadere tuttavia, prosegue il Tribunale, che
nonostante siano le scienze e il loro metodo scientifico a consentire di
spiegare le inferenze causali, nonostante ci sia validazione degli stessi
risultati scientifici sulla base dell’accettazione generale da parte della
comunità scientifica e delle verifica empirica mediante il controllo
dell’ipotesi attraverso la confutazione, nonostante vi sia coerenza complessiva del risultato raggiunto
attraverso il confronto con altre discipline e la verifica delle conclusioni
raggiunte nel loro progressivo evolversi, nonostante tutto ciò può accadere che
rimanga l’incertezza scientifica.
A questo punto, di fronte all’incertezza scientifica
non resta che ricorrere – conclude il Tribunale – alla regola di giudizio
che la responsabilità deve essere provata oltre il ragionevole dubbio,
“regola di giudizio che ormai fa parte del nostro ordinamento” (pag. 148).
Conclusioni, queste del Tribunale, ribadisce
l’appellante, erronee che non possano essere accettate. Ciò prima di tutto e
proprio alla luce del criterio offerto dalle SSUU della Corte di Cassazione,
dal quale ogni giudice di merito da oggi in poi non può prescindere.
Sostiene infatti il P.M. che le Sezioni Unite non
assumono affatto il modello causale invocato dal Tribunale di Venezia. Al
contrario, esse aprono la via per chiarire in questa sede come nel processo che
ci riguarda il Tribunale sia caduto in un errore fondamentale e irrimediabile.
E così ritiene di schematizzare il P.M. il
ragionamento seguito dalla Suprema Corte:
il processo penale, passaggio cruciale e obbligato della
conoscenza giudiziale del fatto di reato, è sorretto da ragionamenti probatori
di tipo inferenziale induttivo che partono dal fatto storico, rispetto ai quali
i dati informativi e giustificativi della conclusione non sono contenuti per
intero nelle premesse, essendo dipendenti da ulteriori elementi conoscitivi
estranei alle premesse;
1) lo stesso
modello condizionalistico orientato secondo leggi scientifiche non può, d’altra
parte, spiegare in via deduttiva la causalità, perché è impossibile per il
giudice conoscere tutti gli antecedenti causali e tutte le leggi pertinenti;
2) il giudice
ricorre, invece, nella premessa minore del ragionamento ad una serie di
“assunzioni tacite”, presupponendo come presenti determinate “condizioni
iniziali” e “di contorno” non conosciute o solo congetturate sulla base delle
quali mantiene validità l’impiego della legge stessa;
3) non potendo conoscere tutte le fasi intermedie attraverso
cui la causa produce il suo effetto, né potendo procedere ad una spiegazione
fondata su una serie continua di eventi, il giudice potrà riconoscere fondata
l’ipotesi ricostruttiva formulata in partenza sul nesso di condizionamento tra
condotta umana e singolo evento soltanto con una quantità di precisazioni e
purché sia ragionevolmente da escludere l’intervento di un diverso ed
alternativo decorso causale;
4) ove si ripudiasse la natura preminentemente induttiva
dell’accertamento in giudizio e si pretendesse comunque una spiegazione causale
di tipo deterministico e nomologico-deduttivo, secondo criteri di utopistica
“certezza assoluta”, si finirebbe col frustrare gli scopi preventivo-repressivi
del diritto e del processo penale in settori nevralgici per la tutela di beni
primari;
5)tutto ciò significa che il giudice è impegnato
nell’operazione ermeneutica alla stregua dei comuni canoni di “certezza
processuale” conducenti ad un giudizio di responsabilità enunciato dalla
giurisprudenza anche in termini di “elevata probabilità logica” o “probabilità
prossima alla – confinante con la – certezza”.
A questo punto si può già rilevare, secondo il P.M.,
il netto distacco tra la tesi sostenuta dal Tribunale (viziata da gravi errori
di interpretazione) e i principi espressi dalle Sezioni Unite del Giudice di
legittimità.
“….Non è sostenibile – afferma la C.S. – che si
elevino a schemi di spiegazione del condizionamento necessario solo le leggi
scientifiche universali e quelle statistiche che esprimano un coefficiente
probabilistico “prossimo ad 1”, cioè alla “certezza”, quanto all’efficacia
impeditiva della prestazione doverosa e omessa rispetto al singolo evento”.
E qui, si sostiene, il punto cruciale: “E’ indubbio
che coefficienti medio-bassi di probabilità c.d. frequentista per tipi di
evento, rivelati dalla legge statistica, impongano verifiche attente e puntuali
sia della fondatezza scientifica che della specifica applicabilità nella
fattispecie concreta. Ma nulla esclude che anch’essi, se corroborati dal
positivo riscontro probatorio, condotto secondo le cadenze tipiche della più
aggiornata criteriologia medico-legale, circa la sicura non incidenza nel caso
di specie di altri fattori interagenti in via alternativa, possano essere
utilizzati per il riconoscimento giudiziale del necessario nesso di
condizionamento. (pag.15)
Viceversa, livelli elevati di probabilità statistica o
schemi interpretativi dedotti da leggi di carattere universale, pur
configurando un rapporto di successione tra eventi rilevato con regolarità o in
numero percentualmente alto di casi, pretendono sempre che il giudice ne
accerti il valore eziologico effettivo, insieme con l’irrilevanza nel caso
concreto di spiegazioni diverse, controllandone quindi l’”attendibilità” in
riferimento al singolo evento e all’evidenza disponibile.
Ecco allora, secondo il P.M. appellante, il distacco del
Tribunale di Venezia dal principio enunciato dalle Sezioni Unite. Si osserva
infatti che la sentenza impugnata sostiene che l’incertezza scientifica va provata
oltre il ragionevole dubbio, ma così facendo si ferma ad un passaggio
precedente, che priva il suo ragionamento proprio di quella natura rigorosa che
voleva attribuirgli, e non è in grado di arrivare alla conclusione decisiva che
le Sezioni Unite raccomandano: quella per cui è l’incertezza del riscontro
probatorio che va provata oltre il ragionevole dubbio.
Il Tribunale si è fermato al riscontro scientifico
(peraltro, in maniera del tutto incompleta e contraddittoria, come si è visto e
come si vedrà) e non ha valutato il riscontro probatorio dell’istruttoria
dibattimentale, mancando comunque di verificare i dati delle scienze con i
riscontri probatori del processo.
Sostiene il P.M. che mentre per il Tribunale il
giudizio finale di probabilità causale in presenza di una legge statistica con
coefficiente medio-basso deve essere risolto secondo la regola dell’oltre il
ragionevole dubbio, per le Sezioni Unite una legge statistica con coefficiente
medio-basso può costituire legge di copertura se corroborata dal positivo
riscontro probatorio.
Sostiene il P.M. che la tesi sarebbe erronea sotto molteplici punti di vista.
Innanzitutto è quantomeno illogica - oltre che contraria al dettato normativo -
l’affermazione apodittica secondo cui “ciò che non è causa non può essere
concausa”, dal momento che si risolve in una confusione di concetti.
E’ evidente, infatti, che l’art. 41 del codice penale, nel
disciplinare il cd. concorso di cause, ha per oggetto (al primo comma) distinti
fattori ciascuno dei quali - per definizione - è, da solo, privo dell’efficacia
causale che si determina, invece, proprio per effetto del concorso di tutti.
Di norma, infatti, secondo il P.M. che richiama sul punto
dottrina e giurispridenza, il fenomeno delle concause si verifica con
riferimento a fattori che sono, da soli, privi della capacità di determinare un
evento il quale, invece, si produce necessariamente grazie al contributo
sinergico di due o più fattori concausali (la sentenza citata, Cass., sez. IV,
n. 7617 del 31/10/1973, parla di situazione di interdipendenza tra due fattori
che, da soli, sarebbero privi di efficacia causale “non potendo nessuna di
esse, disgiunta dall’altra, causare l’evento”).
Tale pronuncia evidenzierebbe secondo il P.M. proprio il
fenomeno trascurato dal giudice di primo grado: l’interdipendenza tra
esposizione a CVM ed altri fattori (per la verità spesso preesistenti e/o
concomitanti), quali il consumo di alcool e di sigarette da parte degli operai
deceduti per tumore al fegato ed al polmone.
Sostiene il P.M. che nessuno potrebbe dire che, nel
procedimento penale in questione, sia stata davvero fornita la prova certa che
i tumori al fegato erano stati cagionati esclusivamente dal consumo di alcool,
così come che quelli al polmone erano stati cagionati esclusivamente dal fumo
di sigaretta, o che i lavoratori deceduti avessero contratto dette malattie a
causa di un consumo di alcool e di sigarette avvenuto successivamente alla loro
esposizione al CVM. Dunque, in nessuno dei casi esaminati dal Tribunale fumo ed
alcool avrebbero potuto essere considerati, ai fini della corretta applicazione
della legge penale, concausa sopravvenuta degli eventi. Eppure, nonostante tale indiscutibile evidenza
probatoria, il Tribunale si sarebbe ritenuto dispensato dal dover svolgere quell’accertamento sul
tema della rilevanza concausale dell’esposizione a CVM che l’accusa aveva
prospettato, avendo postulato
quell’apodittica ed erronea affermazione di ordine generale secondo cui la mancanza dell’idoneità causale rende, per
ciò solo, il fattore inidoneo ad essere concausa di un evento. Ed in tal modo
sono state ignorate circostanze provate dall’accusa che avrebbero potuto e
dovuto essere valutate con attenzione in siffatta ottica di approfondimento del
tema.
In particolare, erano stati dimostrati i ritardi e le
omissioni in relazione agli spostamenti dei lavoratori, fumatori o bevitori,
che, in passato, erano stati esposti ad alte concentrazioni di CVM.
In casi del genere, l’esposizione a CVM oltre che ad essere
determinante sotto il profilo concausale avrebbe potuto e dovuto essere
considerata dal Collegio anche in relazione agli effetti di accelerazione
dell’insorgenza della malattia, così come i Consulenti tencici di parte
dell’accusa (in particolare i medici
Bracci, Rodriguez, Bartolucci e sopratutto Martinez) avevano
puntualmente, ma inutilmente, evidenziato.
Al riguardo osserva il P.M. che il tema dell’accelerazione
della malattia derivante dal prolungamento dell’esposizione è ben noto alla giurisprudenza, avendo di
regola costituito tema di approfondimento specifico nelle più importanti
vicende di malattie professionali. E sul punto rinvia alle considerazioni, ad
esempio, svolte dal Tribunale di Casale Monferrato 30/10/1993, in cui si
legge (sia pure in tema di malattie professionali da amianto, ma -per il P.M.-
non vi è alcuna ragione – né logica, né scientifica, né normativa- per
sostenere – come fa il Tribunale – che i criteri di valutazione del nesso
causale per le patologie derivanti da esposizione da amianto dovrebbero essere
diversi da quelli da seguirsi nella presente vicenda processuale):“Con
riferimento ai tumori professionali si è rilevato in giurisprudenza che,
allorchè la prosecuzione dell’attività lavorativa dopo l’innesco biologico di
una malattia professionale costituisce causa certa di aggravamento, deve
affermarsi il rapporto di causalità fra tale prosecuzione e l’evento delle
lesioni o dell’omicidio colposo del lavoratore”.
Il P.M. conclude dunque sul punto sostenendo che il grave
errore giuridico compiuto dal Giudice di primo grado a proposito della
ricostruzione del nesso causale ha, così, irrimediabilmente condizionato la sua
valutazione, allorquando si è trattato di considerare profili specifici e
particolari della causalità come, per l’appunto, il descritto tema del
contributo concausale del CVM (insieme ad altri fattori quale alcool e fumo) in
relazione sia all’insorgenza che allo sviluppo ed all’accelerazione delle
patologie tumorali (tumori al fegato ed al polmone), in ordine alle quali è
stata pronunciata l’assoluzione degli imputati per insussistenza del fatto.
Inoltre, a questo grave errore giuridico sia è aggiunta un'altra grave
omissione, di fatto: quella di non aver per nulla considerato nè trattato le
relazioni tecniche depositate e le dichiarazioni in aula dei CC.TT. del P.M.
(Prof. Vineis - Comba - Pirastu), proprio sulle interazioni CVM-alcol e
CVM-fumo.
Infine, sostiene il P.M., il Tribunale si è completamente
dimenticato della distinzione tra patologie monocausali e patologie
policausali, distinzione ribadita ampiamente dal P.M. in sede di replica,
distinzione ben nota anche ai consulenti tecnici di Montedison, prof. Fornari e
prof. Colombo. Il primo, infatti, aveva parlato espressamente in aula di tumori
policausali e il secondo aveva definito in aula la concausa come “la
contemporanea presenza di due fattori noti e documentati per dare malattia
epatica” e “mutatis mutandis” malattia dell’apparato respiratorio.
E non vi può essere dubbio che
affezioni epatiche e affezioni polmonari possano essere causate sia dal
CVM-PVC, sia da fumo/alcol.
Anche in forza di tali
argomenti e doglianze, dunque, l’appellata sentenza andrebbe riformata.
L’appellante peraltro, nel contesto dei motivi
relativi alla problematica della causalità lamenta altresì che il Tribunale
abbia prospettato una tesi, ancora una volta sbagliata, sia dal punto di vista
fattuale che da quello giuridico, portando a paragone i meccanismi di azione
del cloruro di vinile e dell’amianto, che ritiene non assimilabili, onde se per
quanto riguarda l’amianto “…il verificarsi del mesotelioma piuttosto che
dell'asbestosi, può correttamente ricomprendersi nell'evento pur dall'agente
non rappresentatosi tipicamente ma prevedibile come conseguenza dannosa
dell'inosservanza di norme cautelari comuni”, per quanto riguarda invece il
cloruro di vinile, “…non è accettabile un’applicazione di tale orientamento per
estrapolazione dall'amianto al CVM-PVC, non essendovi alcuna correlazione o
progressione tra la patologia nota (Raynaud) e la neoplasia (angiosarcoma)
causata dal CVM”.
Le argomentazioni e conclusioni del Tribunale sarebbero per
il P.M. appellante arbitrarie, sostenendosi invece, previo excursus sul
meccanismo cancerogeno dell’amianto con richiamo e citazione di letteratura,
che il mesotelioma non va ritenuto complicanza dell’asbestosi e che non è vero
che i meccanismi d’azione dell’amianto sarebbero noti, onde se non è posto in
dubbio, neppure dal Tribunale, che l’amianto provochi il mesotelioma pleurico,
non si vedrebbe perché questo discorso non debba valere anche per il CVM-PVC e
perché non sia possibile sostenere, come per l’amianto, che la mancata
conoscenza certa di tutti i meccanismi d’azione (che possono essere plurimi)
del CVM-PVC nel cagionare ad esempio il tumore del polmone non può e non deve
incidere sulla attribuibilità al
CVM-PVC pure di questa forma tumorale, risultando peraltro evidente il
parallelismo con i diversi, ed intercorrelati, meccanismi di cancerogenesi
dell’amianto.
Ne conseguerebbe, secondo il P.M., che, sia alle malattie
professionali da amianto che a quelle CVM-PVC, va applicata la medesima
normativa (a partire dalle leggi speciali a tutela dei lavoratori in vigore
dagli anni cinquanta), così come per entrambe le patologie vanno applicate le
medesime categorie interpretative, a partire da ogni discussione in materia di
nesso causale.
Passa quindi il P.M. ad analisi dettagliata dei presupposti
che per l’appellante fanno ritenere sussistente il nesso di causalità in
questione, per la gran parte negato dal Tribunale, e lo fa seguendo passo
passo, pagina per pagina, come dallo stesso preavvertito, la motivazione della
sentenza di primo grado, avvertendo altresì che, in ogni caso, la base
giuridica di questo appello è costituita dalla sentenza delle Sezioni Unite
della Suprema Corte, di cui si è discusso poco fa, mentre i presupposti di
fatto, storici e scientifici per giungere ad affermare la penale responsabilità
degli imputati consistono nella disamina delle seguenti parti:
- epidemiologia e studi epidemiologici;
- metodologia epidemiologica;
- studi epidemiologici sul CVM;
- gli studi epidemiologici a Porto Marghera;
- la causalità;
- la causalità
generale da esposizione a cloruro di vinile;
- l’effetto lavoratore sano rilevato nella coorte di
Porto Marghera;
- cancerogenesi;
- l’influenza delle esposizioni a basse dosi;
- cancerogenesi e organismi internazionali;
-
le patologie riscontrate a Porto Marghera: il fegato, il
polmone, gli altri organi.
Circa il primo punto, si pone il P.M. l’obiettivo di
evidenziare il modo sbagliato del Tribunale di trattare il nesso causale
intercorrente fra esposizione a cloruro
di vinile e insorgenza in particolare dei tumori epatici (angiosarcoma e
carcinoma epatocellulare), della cirrosi epatica e dei tumori polmonari,
attraverso la trattazione di tre questioni di fondo delle quali lamenta un
mancato apprezzamento da parte del
Tribunale: a) la distinzione che è necessario fare tra le valutazioni
dell’insieme dell’evidenza di cancerogenicità
di una sostanza fatta da
organismi internazionali e i risultati di singoli studi, come anche il diverso significato da
attribuire ai due; b) i fattori che
sono alla base e che garantiscono una
elevata qualità degli studi epidemiologici; c) tentativi di ridimensionare le
evidenze epidemiologiche relative alla cancerogenicità del CVM.
Quanto alla prima questione sostiene l’appellante che le
valutazioni dell’evidenza complessiva
ad opera di organismi nazionali e/o internazionali sono il risultato di un processo di ricerca del
consenso nell’ambito di un gruppo di esperti che si raggiunge attraverso
procedure standardizzate ed esplicitate, che hanno come oggetto l’esame delle
conoscenze scientifiche disponibili al momento della formulazione della
valutazione… ed i risultati di singoli studi non mettono in discussione le
suddette valutazioni; bensì essi contribuiscono all’insieme delle conoscenze in
modo commisurato alla loro qualità. Onde non sarebbe corrispondente a realta’
(Pg. 27) l’affermazione generale che: “Le conclusioni cui era pervenuta IARC
nel 1987……… sono state poste in discussione
dagli studi epidemiologici successivi . In particolare dallo studio
multicentrico europeo coordinato da IARC e condotto da Simonato e altri (1991)
e dallo studio sulle coorti americane condotto da Wong (1991) i quali saranno
successivamente aggiornati rispettivamente da Ward (2000) e da Mundt (1999)”.
Sarebbe infatti assurdo e fuori dalla realtà sostenere,
come ha fatto ripetutamente il Tribunale (pag.148-158-159), che le valutazioni
di un organismo scientifico internazionale, che gode della massima stima e del
massimo prestigio, come IARC (o EPA), sarebbero superate. IARC infatti a
partire dal 1975 non sarebbe mai tornata sui suoi passi né avrebbe delegato
l’uno o l’altro studioso a compiere autonomi accertamenti, ed i nuovi studi,
per quanto ampi, sarebbero una parte del tutto che si inseriscono nell’alveo di
quelli precedenti e di per sé non portano a modifica della precedente
valutazione, essendo necessario tutto un meccanismo di approfondimento ai fini
della classificazione (o riclassificazione) di una sostanza.
Quanto alla seconda questione, sostiene il P.M. che la
sentenza sarebbe gravemente viziata per non avere dato contezza delle
manchevolezze dello studio Mundt 2000 fondato su carente database del “filone
principale” U.S.A., nonostante che in dibattimento i vari consulenti tecnici
del P.M. (Berrino, Comba, Pirastu, Mastrangelo) si siano ampiamente soffermati
su tale problematica.
Quanto alla terza questione sostiene il P.M. che i
tentativi di ridimensionare le evidenze epidemiologiche relative alla
cancerogenicità del CVM presenti nella letteratura scientifica sarebbero
conseguenza del ruolo svolto dall’industria nella diffusione delle conoscenze
sulla cancerogenicità del CVM, nello specifico quella statunitense, ma anche
Enichem, con il supporto di noti e ben pagati epidemiologi stranieri, tra cui
Richard Doll, al quale Enichem ha dato mandato di sostenere che l’angiosarcoma
epatico e’ l’unico tumore causalmente associato con l’esposizione a CVM.
Passa quindi il P.M., nell’affrontare le altre parti di cui
sopra, all’esame degli specifici punti della sentenza ritenuti errati in fatto
o frutto di una contraddittoria valutazione. E così, riguardo alla metodologia
epidemiologica, sostiene l’erroneo utilizzo da parte del Tribunale, in uno
stesso studio di livelli di confidenza diversi per diverse cause di morte, e
non sarebbe accettabile in assoluto nemmeno l’ulteriore affermazione e
decisione del Tribunale, che esclude sempre
e per partito preso le situazioni con limitata significatività statistica: a
questo proposito richiama ancora l’appellante la recente sentenza delle Sezioni
Unite della Corte di Cassazione (nr.27 del 2002: pag.15), dove viene scritto
che “coefficienti medio bassi di
pericolosità …. impongono verifiche attente e puntuali …. Ma nulla esclude che
anch’essi, se corroborati dal positivo riscontro probatorio, condotto secondo
le cadenze tipiche della più aggiornata criteriologia medico-legale …. possano essere utilizzati per il riconoscimento
giudiziale del necessario nesso di condizionamento”. Riscontro probatorio secondo
il P.M. per il caso dei tumori professionali possono essere le evidenze
sperimentali sugli animali e su altri modelli di laboratorio.
Lamenta poi il P.M. errori ed errate valutazioni da parte
del Tribunale in merito alle conclusioni assunte relativamente ai tumori
diversi dall’angiosarcoma con riferimento agli studi epidemiologici sul CVM,
sia di corte europea coordinato da IARC (Ward 2001), sia USA (Mundt 2000),
ritenendosi invece che una esatta proposizione dei dati stessi porterebbe a
diversa conclusione, in particolare relativamente al carcinoma epatocellulare,
al tumore al polmone ed alla cirrosi.
Richiamando poi il P.M. gli studi
epidemiologici a Porto Marghera, lamenta che il Tribunale, pur citando una
serie di dati prodotti dai Consulenti Tecnici del PM, che dimostrano come nella
coorte di Porto Marghera, oltre all’eccesso degli angiosarcomi epatici, vi sia stato un significativo eccesso di
altri tumori epatici, in particolare per gli autoclavisti, nonché, come
emergerebbe dall’aggiornamento 1999, un significativo eccesso di tumori
polmonari per i lavoratori che avevano svolto mansioni di insaccatori, su tali
risultati chiarissimi (che emergerebbero da due tabelle riproposte), ha
evitato di fare commenti e valutazioni, pur dando atto della pericolosità
particolare delle mansioni rispettivamente di autoclavista e di insaccatore.
Anche per tali omissioni, si chiede la riforma della
sentenza.
Riaffrontando nello specifico la
parte relativa alla causalità, il P.M. innanzitutto lamenta che il Tribunale non ha assolutamente
seguito i criteri che egli stesso aveva richiamato e indicato come i
criteri-guida per ogni decisione. Ne deriverebbe quindi contraddittorietà della
motivazione.
Si citano quindi i quattro criteri fatti propri dal
Tribunale nei seguenti:
“1) le inferenze causali devono
essere tratte dalle scienze che attraverso un rigoroso e corretto metodo
scientifico apportino una effettiva e affidabile conoscenza scientifica;
2) l'affidabilità delle
conoscenze, sia pure suscettibili in futuro di ulteriori apporti che possono
modificarle o addirittura falsificarle, è determinato dalla validazione che
riceve e dalla accettazione generale o preponderante nella comunità scientifica
nonchè dalla verifica empirica delle sue spiegazioni mediante il controllo
dell'ipotesi attraverso la confutazione così da raggiungere una
"corroborazione provvisoria ";
3) le conclusioni debbono essere
comunque verificate nel loro progressivo evolversi e sempre confrontate con
quelle di altre discipline per accertare la coerenza complessiva del risultato
raggiunto ;
3) la incertezza
scientifica che dovesse, comunque, residuare va risolta sia nell'ambito del
rapporto causale sia nell'ambito della imputabilità soggettiva secondo la
regola di giudizio che la responsabilità deve essere provata " oltre il
ragionevole dubbio ", regola di giudizio che oramai fa parte del nostro
ordinamento”.
E si sostiene da parte dall’appellante, in tema di
causalità generale da esposizione a cloruro di vinile, che, alla luce di quanto
scritto, e sopra accennato, in merito agli studi epidemiologici sul CVM, non è
assolutamente condivisibile l’affermazione del Tribunale relativa “all'assenza della prova allo stato delle
conoscenze scientifiche della idoneità del cvm a provocare il cancro del polmone
, il carcinoma epatocellulare e la
cirrosi riconoscendo solo la sua associazione causale con l'angiosarcoma , con
tipiche epatopatie e con la sindrome di Raynaud”. Lamenta il P.M., che per
affermare ciò, il Tribunale avrebbe dovuto prima di tutto affrontare e
criticare quanto esposto dall’accusa in senso contrario, esaminando le
relazioni finali depositate dal P.M., criticandone l’eventuale metodologia, la
logica e le conclusioni. Il Tribunale non avrebbe fatto nemmeno questo,
essendosi affidato in maniera del tutto acritica alle relazioni dei consulenti
degli imputati, riportandone pari pari le osservazioni e tralasciando le
specifiche repliche dei CC.TT del P.M.
Analogamente, sarebbe del tutto arbitraria l’affermazione del Tribunale
secondo la quale “tutti i dati di conoscenza introdotti nel presente processo,
molteplici e aggiornati, valutati complessivamente, non consentono di ritenere sussistente una associazione causale
tra CVM-PVC e tumori diversi dall'angiosarcoma e patologie che non siano la
sindrome di Raynaud e l'acrosteolisi nonchè tipiche epatopatie interessanti
l'endotelio”.
Nello specifico delle singole patologie, sostiene
l’appellante, richiamando in particolare gli studi dei propri consulenti, che,
quanto al tumore al polmone, “nelle coorti che hanno condotto un'analisi
specifica per gli insaccattori, definiti come "solo addetti
all'insacco" e " addetti all'insacco " si sono identificati
incrementi di mortalità. Pertanto la persuasività scientifica della relazione
causale fra l'attività lavorativa che comporta esposizione a polveri di PVC è
elevata”.
Richiamando poi ancora i dati in materia, rileva che:
a) Il trend positivo con
l’esposizione a CVM nella coorte europea (Ward 2001);
b) L’incremento della mortalità
nella coorte degli insaccatori Montedison-Enichem, che contrasta con il deficit
di mortalità per queste cause osservato nella coorte complessiva;
c) L’assenza di elementi per
suggerire un ruolo confondente del fumo di sigaretta: è ovvio che i casi di
cancro polmonare occorsi tra gli insaccatori siano fumatori (come la quasi
totalità dei casi di cancro polmonare in qualunque categoria professionale); il
fatto è che nella coorte degli insaccatori nel suo complesso non ci sono
evidenze di un abnorme consumo di tabacco. Al Tribunale sfugge la distinzione
fra “le cause dei casi” e “le cause dell’incidenza”, così come sfugge la
distinzione fra “individui malati” e “popolazioni malate” … In assenza di
questi essenziali riferimenti scientifici e culturali, il paragrafo
“L’epidemiologia: un primo approccio” (motivazioni, pp. 29-37) appare del tutto
inadeguato a sostenere le successive valutazioni del Tribunale in campo
epidemiologico.
Ed alla luce delle considerazioni di cui ai tre precedenti
rilievi, ritiene il P.M. che i quattro criteri di cui a pag. 142 delle
motivazioni, sopra citati, siano adeguatamente verificati e, quindi, va
affermata l’esistenza del nesso causale anche in questo caso.
Quanto ai tumori del fegato –angiosarcoma a bassa esposizione sostiene l’appellante che neppure
avrebbe ben compreso il Tribunale i dati emergenti dallo studio europeo WARD
2001, che pur ritiene fondamentale, dati dai quali, contrariamente a quanto
ritenuto dal Tribunale, emergerebbe un rischio di angiosarcoma anche a bassa
esposizione, non avendo d’altra parte il Tribunale considerato che era stato
discusso dal P.M. un caso di angiosarcoma per un operaio assunto dopo il 1973
(Dalla Verità Domenico, assunto nell’aprile del 1974), ed avendo pure rigettato
la richiesta del P.M. di acquisire della documentazione attestante un’altra
morte per angiosarcoma a causa del CVM, verificatasi negli USA, per bassissime
esposizioni: di tale ordinanza, del
tutto immotivata, si chiede la nullità e la conseguente rituale acquisizione
della documentazione tramite rinnovazione del dibattimento.
Quanto al carcinoma epatocellulare si richiamano ancora gli
studi e conclusioni dei propri consulenti che suggeriscono che “l’esposizione
a CVM può essere associata anche con
questo tumore”. Si ricorda inoltre che valutazioni dell’associazione causale
intercorrente fra esposizione a CVM e carcinoma epatocellulare sono state
formulate, oltre che da IARC, anche da EPA. Onde anche nel caso secondo il P.M.
i criteri di causalità esposti dal Tribunale a pag. 42 siano stati adeguatamente
verificati e, quindi, anche in questo caso va affermata la sussistenza del
nesso causale.
E così per la cirrosi relativamente alla quale se è vero
che nella coorte generale di Porto Marghera la mortalità per tale patologia è
inferiore all’attesa, va peraltro rilevato che essa è superiore all’attesa fra
gli autoclavisti.
Osserva
poi il P.M. che nelle motivazioni della sentenza viene in più punti affermato
che la coorte dei lavoratori di Porto Marghera è costituita da soggetti in
buono stato di salute, come mostrato dalla diminuita mortalità per tutte le
cause, quando la coorte viene confrontata con la popolazione residente nel
Veneto. Tale richiamo del Tribunale non avrebbe però portato il Tribunale
stesso a valutarne adeguatamente il significato e le implicazioni. I soggetti
assunti al lavoro non sono un campione casuale della popolazione generale, ma
costituiscono un campione di soggetti in buono stato di salute che desiderano
un lavoro. Il gruppo dei soggetti assunti è perciò un campione selezionato, non
rappresentativo della popolazione generale. Quando si confronta l’esperienza di
mortalità dei lavoratori con quella della popolazione generale residente in
Veneto da cui provengono, si riscontra perciò un rischio di morte. Questa
differenza è chiamata “effetto lavoratore sano” ed è una distorsione di cui
tener conto in fase di analisi, proprio perché potrebbe mascherare (in
generale) l’effetto di importanti agenti tossici e nocivi a cui i lavoratori
vengono esposti nella loro vita professionale. Tale distorsione ha portato
erroneamente ad attribuire l’osservata diminuita mortalità dopo il 1974 a
diminuite esposizioni ad agenti tossici, mentre questa è una osservazione
spuria: una volta rimosso l’effetto distorcente della selezione all’assunzione,
la diminuzione, non più statisticamente significativa, è di entità assai
modesta.
Per
il P.M., contrariamente a quanto immotivatamente ritenuto dal Tribunale, ciò
renderebbe possibile rilevare che:
a)
non c’è alcuna diminuzione di rischio per le coorti di assunti a partire dal
1974, tenendo conto del tempo trascorso dall’assunzione;
b)
gli assunti in anni più recenti non hanno ancora maturato la “latenza”
necessaria perché si manifesti una patologia (soprattutto in riferimento a
quelle patologie per le quali il periodo di latenza può essere molto lungo);
c)
non vi è alcuna evidenza empirica che gli assunti dal 1974 in poi abbiano
sperimentato un vantaggio in termini di salute rispetto agli assunti negli anni
precedenti;
d)
i soggetti esposti nelle mansioni a rischio (autoclavisti e insaccatori)
manifestano una mortalità per tutte le cause aumentata e questo rischio appare
crescente al crescere della durata di impiego nella mansione a rischio;
vi
è evidenza notevole di due
particolari rischi specifici, il tumore polmonare per gli
insaccatori e l’epatocarcinoma per gli autoclavisti, oltre che una evidenza
molto elevata anche per la cirrosi
epatica.
Nell’esame
delle parti ritenute importanti nell’argomentazione dei motivi d’appello,
affronta poi il P.M. le questioni relative alla “CARCINOGENESI”, pure
affrontate dal Tribunale che però, subito osserva l’appellante, non ne avrebbe
compreso il significato.
Il
Tribunale si sarebbe sbarazzato in fretta della questione, con due parole, non
motivate (a pag.101) dicendo che il problema è ancora “incerto e dibattuto”,
così abbandonando la stessa linea tracciata dal prof. Harry BUSCH, presidente di un centro di ricerche sul cancro
negli USA indicato dalla difesa, il quale sull’origine del cancro aveva
chiaramente confermato l’impostazione dei consulenti del P.M., parlando di
stabilità genetica e precisando (controesame del 20.4.99 pag. 88) che “il
genoma umano è estremamente stabile”: a conferma della necessità di alcune
alterazioni genetiche affinché una cellula diventi maligna.
E
oltre a “non considerare” il prof. BUSCH il Tribunale avrebbe citato i
consulenti del P.M. soltanto per le parti che servono a sostenere la tesi
assolutoria. Ma le questioni fondamentali trattate dai CC.TT. del P.M. non sono
state né affrontate né eliminate e, quindi, alle relazioni dei professori
Berrino e Colombati si deve fare integrale rinvio, con particolare riferimento
ai numerosi lavori scientifici presentati (e discussi dal P.M. in requisitoria)
a sostegno della origine professionale dei tumori da CVM non solo del fegato,
ma anche degli altri tre organi bersaglio (polmone “in primis”).
Ripropone
poi il P.M. concetti di genetica molecolare per sostenere altresì che molte
delle disquisizioni della sentenza (da pag 106 a pag 126) sembrano poco
rilevanti e poco appropriata appare l'interpretazione di molti dei lavori
scientifici citati. Fatto essenziale, riconosciuto dalla stessa sentenza, è che
il CVM è cancerogeno. In questo, osserva ol P.M., non vi è contrasto di opinioni ed è stata precisamente
identificata la modifica chimica in un gene causata dal CVM, o meglio da un suo
derivato.
E prosegue l’appellante osservando che, chiarito
questo, che è il punto centrale per stabilire le responsabilità di chi ha
esposto gli operai del Petrolchimico al CVM, si può passare ad esaminare la
questione della presenza o meno di una " soglia di sicurezza" per il
CVM e anche per altre sostanze. Al riguardo richiama quanto detto in aula, e
riportato nell’atto d’appello, dal prof. Maltoni, portato, osserva l’appellante,
sul palmo della mano dal Tribunale su tutto, meno che per la sua
affermazione relativa alla inesistenza di una soglia biologicamente sicura per
il CVM. E riporta, altresì, un concetto di cinetica degli enzimi: la velocità
di qualsiasi reazione enzimatica (e quelle in
cui il CVM partecipa come substrato non fanno eccezione) dipende in modo
asintotico dalla concentrazione del substrato. A concentrazione molto bassa del
substrato, inferiore al valore della costante di Michaelis (Km), la velocità di
reazione è pressochè lineare in funzione della concentrazione del substrato (
nel nostro caso, il CVM).
Dunque per il P.M. parlare di soglia è, teoricamente,
un assurdo: si può dire, tutt'al più,
che ci possono essere concentrazioni del “veleno” tanto basse da rendere la
reazione iniziale, e le successive, molto lente, e lo sviluppo del tumore molto
improbabile: ma mai impossibile. Il fatto che sia difficile rilevare
l'insorgenza di tumori per piccole dose di mutageni dipende dal metodo di misura
e dai limiti della sua sensibilità, come è stato rilevato nel corso del
processo. Il problema, a questo punto
è giuridico (oltre che morale): è
lecito esporre consapevolmente persone ad una probabilità sia pur piccola di
tumore? E quando, poi, questo tumore si verifica, che succede?
Ma anche il tema relativo alla influenza delle basse
dosi sarebbe stato trattato in maniera generica e superficiale dal Tribunale,
il quale – anche in questo caso – si è
completamente dimenticato della esistenza di una relazione tecnica del
prof. Franco Berrino (direttore dell’Unità Operativa di Epidemiologia dell’Istituto
Tumori di Milano), pur arrivando ad affermare in motivazione il presunto vuoto
accusatorio sul punto. Ed elenca l’appellante tutta una serie di elementi, in
fatto e tecnici, che non sarebbero stati considerati dal tribunale e che
confermerebbero invece quanto sostenuto dall’accusa, lamentandosi in
conclusione un appiattimento totale del Tribunale sulle posizioni della difesa,
con oblio totale delle relazioni tecniche e delle posizioni dell’accusa.
Richiama infine sul punto il P.M. quanto segnalato e
motivato dal professor Giovanni Zapponi, le cui valutazioni il Tribunale ha
frainteso o non compreso, in relazione alla valutazione del rischio cancerogeno
da CVM secondo organismi internazionali (e non) come l’O.M.S., l’Unione Europea
e l’EPA, con particolare riferimento
alle basse dosi di esposizione.
Quanto alle patologie
riscontrate a Porto Marghera, ricorda ancora il P.M., contrariamente alle
diverse conclusioni del Tribunale, che secondo vari organismi e organizzazioni
internazionali, tra cui IARC ed EPA in primo luogo, devono essere considerati
come principali organi – bersaglio del CVM il fegato, il polmone, il cervello,
il sistema emolinfopoietico. Inoltre, sulla base di singoli studi, devono
essere attribuite all’azione del CVM alcune altre patologie, come il tumore del
laringe, nonché – come ampiamente illustrato anche nel capitolo 2.3 – il
fenomeno di RAYNAUD e l’acroosteolisi. Ancora lamenta il P.M. da parte del
Tribunale, che ha ritenuto di riconoscere come conseguenti all’esposizione a
CVM solo l’angiosarcoma, il fenomeno di RAYNAUD e l’acroosteolisi ed alcune
epatopie, omissioni nell’esame del materiale probatorio fornito dall’accusa e,
in molti casi, anche fraintendimenti del contenuto degli atti esaminati e
soprattutto delle esposizioni e dichiarazioni dei consulenti tecnici del P.M.,
con conseguente grave vizio della motivazione della sentenza, la quale dovrebbe
dunque essere completamente riformata.
Nello
specifico, con la consueta tecnica argomentativa di richiamare determinati passi
della sentenza che si ritengono contenere osservazioni, valutazioni o
conclusioni errate (per lo più, secondo il P.M., preconcette, frutto di
appiattimento sulle posizioni della difesa, funzionali ad originario disegno
assolutorio), si sottopongono già a critica alcune affermazioni del Tribunale
relative anche all’angiosarcomo, pur riconosciuto come conseguente
all’esposizione a CVM, ma che nella loro erroneità producono influssi negativi
su altri punti fondamentali della decisione, quali ad esempio quelli relativi
alla carcinogenesi, all’influenza delle basse dosi (magari successive ad alte
dosi) e al concorso di cause (fumo ed alcool); e quali l’esclusione della
presenza dell’angiosarcoma epatico per Simonetto Ennio su asserito unanime
giudizio di tutti i consulenti, quando invece tra i consulenti vi era contrasto
sul punto, potendosi citare a favore della diagnosi di angiosarcoma ed
epatocarcinoma, la diagnosi iniziale del Prof. Maltoni che include il paziente
fra i casi di angiosarcoma della coorte dell’Istituto Superiore di Sanità e la
conferma della diagnosi che il maggior esperto in questo campo ne fa in aula
nel corso del processo, la diagnosi del Prof. Rugge che descrive la lesione con
“fenotipo” compatibile con la diagnosi di angiosarcoma, la registrazione di
Simonetto Ennio nel registro mondiale degli angiosarcomi.
Sostiene poi il P.M., sempre a
tale riguardo, che il Tribunale senza alcuna motivazione reale avrebbe
rifiutato non solo l’ipotesi di approfondire il tema delle morti per
angiosarcoma a bassa esposizione nella popolazione, ma ne avrebbe
aprioristicamente negato la rilevanza, scrivendo ad esempio che per i casi
proposti al suo esame “manca la certezza diagnostica” o che “i tempi di latenza
non sono osservati” (pag.212), mentre al contrario in atti esistono addirittura
atti d’autopsia e precise indicazioni sulle esposizioni.
Quanto all’epatocarcinoma, l’appellante, dopo
citazione di osservazioni sul punto dei vari consulenti e critica ancora di
specifiche affermazioni e conclusioni del Tribunale che non trascura di
apostrofare come arrampicate sugli specchi, lamentando travisamenti ed erronei
apprezzamenti dei contributi scientifici, e dopo aver ancora ribadito la tesi,
sostenuta dai propri consulenti, dell’azione sinergica del CVM con gli abusi di
alcol e le infezioni da virus B e C,
sostiene che in forza degli atti del processo il carcinoma epatocellulare può
essere ascritto all’esposizione a CVM per le seguenti motivazioni:
i.
Dati epidemiologici ormai derivanti da coorti assai numerose
provenienti dall’Europa e dagli Stati Uniti.
ii.
Una forte evidenza (p<0,002) in favore di una relazione dose-risposta
iii.
I casi occorsi in
Germania in lavoratori nei quali erano
stati esclusi tutti i fattori extralavorativi
iv.
Cinque lavoratori di Porto Marghera, Fusaro Vittorio,
Cividale Luigi, Favaretto Emilio,
Mazzucco Giovanni, Monetti Cesare, che non presentavano fattori di rischio
extralavorativi. In due casi di epatocarcinoma (Bonigolo e Mazzucco) i consulenti della difesa ammettono la
responsabilità dell’esposizione a CVM.
v.
Una evidente anomala distribuzione dell’eziologia (50% alcolica e solo il 19 % virale) che è
stata dimostrata nei lavoratori di Porto Marghera che non ha riscontro in
casistiche finora pubblicate, provenienti da aree come quella della regione
veneta con un’alta incidenza di infezioni da virus epatitici.
vi.
I casi di pazienti descritti in letteratura nei quali nello stesso fegato sono stati
trovati noduli di angiosarcoma ed
epatocarcinoma (Simonetto Ennio è uno di questi casi)
vii.
I riscontri sperimentali che dimostrano che l’esposizione a
CVM nei ratti può determinare l’insorgenza di diversi tipi di tumori fra i
quali l’angiosarcoma e l’epatocarcinoma.
viii.
L’analogia con l’esposizione al Thorotrast che è ormai accettato che possa indurre nell’uomo non
solo l’angiosarcoma ma anche l’epatocarcinoma.
Analogamente, anche relativamente
alla cirrosi epatica contesta il P.M. come già accennato, le conclusioni del
Tribunale, ritenendole non basate sulla realtà dei dati e sulle logiche
considerazioni che ne sarebbero dovute
scaturire, il tutto ampiamente presentato in dibattimento, anche in sede di
requisitoria e di replica finali. E previa elencazione dei principali aspetti
della questione, sulle quali il Tribunale sarebbe incorso in madornali sviste
e/o errori di valutazione, con il supporto di copiosa citazione di dati e passi
dei consulenti, e riproposizione di casi, sostiene che, se ci si attiene agli atti del processo, la cirrosi
epatica, può essere ascritta all’esposizione a CVM per le seguenti motivazioni:
- Dati epidemiologici derivanti dall’aggiornamento
della coorte europea (Ward et al, Epidemiology, 2001) con un RR di 9,24 nella
classe di soggetti esposti fra 524 e
998 ppm.anni.
- Evidenza in favore di una relazione dose-risposta
analoga a quella riscontrata per l’angiosarcoma e per il carcinoma
epatocellulare, con una tendenza della curva di dose risposta intermedia tra i
due.
- L’associazione tra cirrosi epatica
e angiosarcoma, che secondo il Tribunale potrebbe avvalorare la tesi dell’associazione
tra “tale malattia epatica (la cirrosi) ed esposizione a CVM è stata
riscontrata in tre (su sette) lavoratori di Porto Marghera con angiosarcoma
(Simonetto Ennio, Zecchinato Gianfranco, Pistolato Primo.
- In letteratura sono stati descritti altri casi di pazienti con cirrosi ed angiosarcoma.
-
La
plausibilità biologica confermata dalla spiccata attività fibrogenetica del CVM
che in presenza di un abuso di alcol o di una infezione cronica virale causa
un’amplificazione notevole delle conseguenze in termini di tossicità e di
potenziale profibrogenico.
Sempre
con riferimento all’organo bersaglio fegato, sostiene infine il P.M. che
trattando delle epatopatie riscontrate nei lavoratori del PCV-CVM di Porto
Marghera, il Tribunale continua a far confusione tra tossicità e
cancerogenicità del CVM. Infatti, ancora a pag.246 della sentenza, citando
fuori luogo l’audizione del consulente del P.M. prof. Berrino, il Tribunale
continua a mescolare senza ragione IARC 1987, “oncogenità del CVM”, epatopatie
e bronchiti. Sostiene dunque l’appellante, dopo richiamo alla già ricordata
differenza concettuale e sostanziale tra tossicità e cancerogenicità, e dopo
riproposizione dei casi dei lavoratori le cui epatopie sono state escluse dal
Tribunale come causate dall’esposizione a CVM, che al riguardo la sentenza ha
ripetutamente invocato (fin da pag.9) l’elevato consumo di alcol come
“giustificata soluzione alternativa” all’eccesso di tumori del fegato, di
cirrosi e di epatopatie.
Ma,
sostiene l’appellante, l’eccesso osservato negli operai di Porto Marghera è
troppo elevato per poter essere spiegato da un eccessivo consumo di alcol.
Infatti, gli operai di Porto Marghera avrebbero dovuto fare un consumo di
alcolici doppio rispetto alla popolazione generale maschile della stessa età,
un comportamento che sarebbe difficilmente compatibile con una regolare
attività lavorativa e di cui non vi è alcuna prova in atti. Anzi, vi sono
diverse prove in senso contrario, a partire dalla relazione FULC del 1975, alle
indagini effettuate dalla ULSS e dalla ASL di Mestre anche negli anni novanta:
in proposito si indicano le dichiarazioni rese in aula dai testi dr. Magarotto
e dr. Munarin.
Di tutto ciò i
giudici di primo grado si sarebbero completamente dimenticati, ed anche
sul punto il Tribunale avrebbe scritto circostanze e fatti sbagliati in
sentenza e avrebbe gravemente omesso di vagliare e di valutare il materiale
probatorio offerto dall’accusa, affidandosi alle dichiarazioni in aula dei
consulenti di Montedison Colombo e Lotti. Il primo, però, all’udienza del 18
maggio 1999 ha ripetutamente detto: “chiedete a Lotti” (pag. 70 e 71) e
quest’ultimo sempre su questo tema ha detto: “io non sono molto esperto di
questi studi di cancerogenesi” (pag.71): e il Tribunale si è ripetutamente affidato
e fidato di entrambi! Al contrario, di passaggi fondamentali per la
ricostruzione dei fatti e per la valutazione degli eventi non vi sarebbe
traccia in motivazione.
Lamenta altresì il P.M. che il Tribunale abbia
assolto gli imputati amministratori Montedison del periodo 1969 – 1973, non
meglio individuati, perché il fatto non costituisce reato, dai cinque casi di
epatopatia (Poppi Antonio, Bartolomiello Ilario, Salvi Andrea, Scarpa Giuseppe
e Sicchiero Roberto) riconosciuti come causati dal CVM. Non convincenti secondo
l’appellante le motivazioni per l’esclusione dell’elemento soggettivo, atteso
che il CVM era un noto epatotossico (lo si sapeva dagli anni cinquanta-sessanta
e lo si insegnava all’università). Ed a questo proposito e in relazione all’art.437
c.p. (malattie derivate da omissioni del “datore di lavoro”) nulla ha risposto
il Tribunale.
Ciò dovrebbe portare a una totale riforma della sentenza,
con conseguente declaratoria di penale responsabilità di tutti gli imputati per
tutti gli specifici reati loro rispettivamente contestati (artt. 437,589,590
c.p.).
Si
lamentano, infatti, ripetute omissioni in fatto rilevate in motivazione;
incompletezza grave nell'esame di tutti gli elementi probatori sottoposti
dall'accusa all'esame del Tribunale; distorsione di quanto scritto e segnalato
dai consulenti tecnici dell'accusa; accettazione acritica e totalmente
immotivata delle tesi della difesa degli imputati.
Conclude,
infine, sul punto il P.M. contestando altresì l’esclusione delle patologie
degli altri "altri organi" bersaglio del CVM-PVC (laringe - sistema
emolinfopoietico -encefalo). Anche al riguardo, ci si lamenta che le
motivazioni della sentenza sono del tutto insufficienti e non affrontano
nemmeno ("more solito") tutti i dati, gli studi scientifici, le
relazioni tecniche e le dichiarazioni dei consulenti tecnici del P.M. e delle
parti civili offerti all'esame e alla valutazione del Tribunale.
E una
situazione analoga si presenterebbe anche per i melanomi, per i quali sono
emersi "eccessi", nonché relativamente alla sindrome di Raynaud per
la quale il Tribunale oltre a fornire dati numerici sbagliati rispetto ai casi
introdotti dal P.M. nel processo, fa poi confusione sul numero dei casi da lui
stesso ammessi, si è completamente dimenticato di Terrin, non ha considerato
che il certificato di diagnosi di RAYNAUD per Gabriele Bortolozzo è del 1995,
ed inoltre, si è dimenticato dell’accusa di cui all’art. 437c.p..
In questa
situazione di carente motivazione, per di più contraddittoria nei pochi punti
trattati, sostiene il P.M. che la sentenza dei giudici di primo grado debba
essere riformata "in toto", facendo esplicito richiamo alle fonti di
prova d'accusa indicate nell’atto di appello e che già erano state sintetizzate
durante la requisitoria all’esito del giudizio di primo grado.
Conclude
quindi il P.M. i propri motivi di appello relativamente alle statuizioni sul
primo capo d’imputazione, sostenendo ancora la sussistenza del disastro
innominato colposo e i suoi rapporti con l’art. 437 c.p., della cooperazione
colposa ex art. 113 c.p. tra tutti gli imputati, e della continuazione fra
tutti i reati colposi contestati, nonché l’insussistenza della prescrizione.
Quanto al
disastro innominato colposo e i suoi rapporti con l’art. 437 c.p., ricordato
che il Tribunale ha pronunciato assoluzione dal reato di disastro innominato colposo
contestato al primo capo di imputazione, in quanto il fatto non costituisce
reato per condotte tenute sino al 1973 e per insussistenza del fatto per
condotte successive al 1973, avendo appunto i giudici di primo grado
individuato nel 1973 l'anno a partire
dal quale sarebbe cessata l'efficienza lesiva del C.V.M. a seguito degli
interventi per la riduzione delle esposizioni, il P.M., ferme restando le
critiche in fatto su tale epoca sopra ricordate, censura comunque la pronuncia
assolutoria alla quale il Tribunale sarebbe pervenuto sulla base di una
interpretazione non corretta della fattispecie contestata. Sostiene infatti
l’appellante che il Tribunale, secondo il quale il reato di disastro andrebbe inteso "come evento di danno
caratterizzato nel suo manifestarsi dalla gravità, complessità, estensione e
diffusività", ha operato una indebita sovrapposizione tra l'evento di pericolo richiesto dalla norma in
discussione (artt. 449-434 c.p.) e gli eventi di danno a quel pericolo
conseguiti. assumendoli quali elementi costitutivi della fattispecie colposa;
mentre avrebbe dovuto configurarli come condizione di punibilità dell'ipotesi
aggravata di disastro considerata al comma secondo dell' art. 434 cp.
Necessario e sufficiente, sostiene il P.M., la mera insorgenza di uno stato
di fatto che renda possibile il danno.
Dunque i giudici
di primo grado avrebbero dovuto chiedersi se, in un momento anteriore al giudizio, il bene protetto -incolumità
pubblica- fosse effettivamente "caduto in crisi", formulando un
giudizio prognostico sugli eventi futuri. Orbene, il Tribunale ha affermato che
il rischio costituito dall'esposizione a CVM ha avuto idoneità lesiva
dell'integrità fisica ed efficienza diffusiva nell'ambito della comunità dei
lavoratori esposti, in quanto lo
dimostrano i tumori e le malattie che la sostanza ha causato. Se ne doveva trarre la conseguenza che il bene
protetto era stato messo in pericolo, quel pericolo che la constatazione degli
eventi lesivi implica e che perciò
stesso era stato cagionato un disastro causalmente riferibile ed imputabile
alla condotta colposa degli imputati che, rivestendo posizioni di garanzia,
avevano la gestione del rischio relativo all'esposizione ad una sostanza
tossica ed oncogena.
Quanto al
rapporto esistente tra la fattispecie di disastro innominato colposo e la
fattispecie di cui all’art.437 c.p., ritiene il P.M. di sistemarlo
dogmaticamente (e cita Cass. pen. Sez. IV, 16.7/8.11.1993, Arienti ed altri –
caso Mec Navi; prodotta) nel senso che il capoverso dell’art.437 c.p.
costituisce un reato complesso in cui l’evento disastroso (l’altro disastro o
infortunio) concreta appunto un disastro innominato colposo, che viene dunque
assorbito nel reato di “omessa collocazione” seguita dal disastro. Ciò viene
precisato in ossequio al principio del “favor rei”, in relazione alla eventuale
determinazione della pena da infliggere all’imputato.
Quanto
alla cooperazione colposa, contestata nell'imputazione, la stessa secondo il
P.M. pare del tutto provata, oltre che giuridicamente configurabile. Sostiene
l’appellante che in contrario, non giova sostenere che mancherebbero i supposti
requisiti della "reciprocità" e "contestualità" della
rappresentazione dell'altrui condotta colposa, nei partecipi di questa
"anomala" forma di partecipazione al reato; e che proprio la
dimensione diacronica enorme, che connota questa vicenda, nonché la autonomia
dei due "centri decisionali organizzati" che hanno determinato le
decisioni di politica d'impresa sub iudice escludono già "logicamente"
la possibilità di concepire una cooperazione colposa. Viceversa, né nella
lettera né nella ratio di disciplina dell'istituto, si rinviene una siffatta
restrizione o possibilità di esclusione del suo ambito di operatività, essendo
anzi vero il contrario.
Nel
citare dottrina e giurisprudenza che avallerebbero una interpretazione che
riconosce autonoma capacità "incriminatrice" all'art. 113 c.p., che
estende anche a casi non altrimenti punibili la responsabilità penale, in
quanto la pericolosità di determinate condotte (di per sé atipiche) può
diventare attuale solo incontrando la condotta pericolosa altrui, sostiene il
P.M. che il legame di "cooperazione" su cui si fonda detta estensione
di punibilità, non implica affatto un atteggiamento psicologico reale e contestuale
di "consapevolezza reciproca" delle rispettive azioni, essendo
sufficiente, in conformità con i requisiti della colpa, la «prevedibilità
della condotta altrui, concorrente con la propria» (Severino di Benedetto, La cooperazione, cit., 103; Cognetta, La cooperazione, cit., 87);
e, si deve, aggiungere: realizzatrice (o "concretizzatrice") proprio
del tipo di rischio che la norma precauzionale violata mirava ad evitare (cfr. Grasso, Comm. sist. cod. pen., II,
Milano, 198), con l'avvertenza che detta norma cautelare —rilevante per la
imputazione a titolo di cooperazione colposa — potrebbe essere anche
semplicemente quella volta a prevenire non direttamente l'evento lesivo in sé,
bensì la condotta colposa altrui che poi lo ha effettivamente causato (Cognetta, La cooperazione, cit., 88).
Nel
caso di specie, l'aspetto più importante dei fatti contestati, in cui rileva
tale forma di responsabilità concorsuale colposa, sarebbe manifestamente quello che riguarda il
subentro di fatto e la successione anche "informale" in posizioni di
controllo e gestione dell'impresa o di singoli reparti ed impianti. Sarebbe
infatti evidente e documentale la piena consapevolezza, più che mera
"conoscibilità", da parte di ENI-ENICHEM e dei suoi responsabili e
dirigenti, ai vari livelli di competenza oggi imputati, sia delle condizioni
degli impianti, sia delle problematiche di sicurezza e rischio della produzione
e delle sostanze, sia dell'adibizione degli operai alle varie mansioni ed
attività, con ampia partecipazione alla piena responsabilità nel «dimensionare
il personale degli impianti e dei servizi, di intesa con ENI, in relazione ai
costi concordati prima del closing». Ed è dunque fondata su prove sicure, oltre
che logica, al di là dell'ampia dimensione temporale della vicenda,
l'estensione di responsabilità ai diversi imputati ENI-ENICHEM accanto ed in
cooperazione colposa con quelli Montedison, nella causazione delle malattie
professionali e dei disastri contestati.
Quanto
alla configurabilità della continuazione ex art. 81, comma 2, c.p., fra i
delitti colposi contestati, in specie: lesioni personali, disastri e strage
colposi, nonché reati ambientali vari, contesta il P.M. la tesi difensiva
secondo la quale tale istituto sarebbe incompatibile con i reati colposi relativamente
ai quali non ci potrebbe essere
l'identità del disegno criminoso. Sostiene contrariamente che non solo
qualche isolata ed "originale" voce dottrinale sostiene la piena
compatibilità della continuazione con i delitti e i reati colposi, ma neppure
la giurisprudenza sarebbe in posizione così monoliticamente negativa. Al di là
della sentenza (già citata Cass., sez. I, 24 maggio 1985, Sicchiero, in Cass.
Pen., 1987, pag. 742 s., m. 536, con nota di richiami, che fa espresso
riferimento alla possibilità di continuazione nei reati colposi, allorché vi
sia - come nel caso di specie! – l'aggravante di aver agito nonostante
la previsione dell'evento: e non si riscontrano invece precedenti in
senso contrario, specifici su tale ipotesi), ve ne è quantomeno un'altra,
assai significativa e riportata nei repertori e codici commentati, che
riconosce la possibilità di ravvisare la continuazione anche quando si abbia la
cosiddetta "colpa impropria", che come noto implica un reale
contenuto psicologico a base della condotta dell'agente, pur se l'imputazione
sia poi a titolo di colpa e non di dolo (Cass., sez. I, 10 marzo 1983, Avena,
in Cass. Pen., 1985, pag. 1112 s., m. 672, con nota di richiami e motivazione).
Dunque
non vi sarebbe certo impossibilità di diversa interpretazione ed applicazione
dell'art. 81, comma 2, c.p.. Anzi: proprio di fronte alla oggi acquisita
maggior rilevanza e frequenza di applicazione delle fattispecie colpose, in
ambiti soprattutto qual è quello in questione, di attività economiche di per sé
non illecite, se rispettose delle regole cautelari volute dall'ordinamento, si
è affermata la piena consapevolezza dogmatica che la colpa è senz'altro interna
e compatibile con la volontà e consapevolezza dell'agire economico, delle
scelte d'impresa. Sarebbe dunque senz'altro compatibile, con il rimprovero di
colpa, tanto più se "cosciente", la presenza di un unico
"disegno criminoso", realizzato dalle diverse condotte esecutive,
attive od omissive, in sé finalistiche, anche se non tecnicamente
"dolose" rispetto ai singoli fatti tipici che poi lo intergrano, non
dovendo d’altra parte fare riferimento all’intera serie di elementi che
costituiscono i reati, ma solo alle mere “azioni od omissioni”. In ogni caso
rileva il P.M. che il Tribunale, nel contestare la sussistenza della
cooperazione colposa e la sussistenza della continuazione (ex art.81 c.p.),
abbia completamente dimenticato che in questi processo si parla anche di un
grave reato di natura dolosa (art.437).
Quanto
infine alla insussistenza della prescrizione, ricorda il P.M. coma abbia già
contestato supra la tesi che l’esposizione sia cessata nel 1974 e si è
sostenuto che l’esposizione è perdurata fino agli anni ’90: è allora
sufficiente applicare i principi affermati in sentenza in tema di disastro innominato colposo per
escludere che ricorra detta causa di estinzione. Secondo la sentenza è infatti
“irrilevante verificare se le condotte quali fattori causali siano state
concomitanti, prossime o addirittura remote rispetto al venire in essere dell’evento”
(pag. 268), cioè della malattia o del decesso.
Fermo
che si debba dunque rispondere per un evento avvenuto anche trent’anni dopo la
tenuta della condotta colposa, non può evidentemente fare alcuna differenza che
gli eventi siano uno, due o molteplici; si tratta di reato che può venire
qualificato come eventualmente progressivo ed
il “dies a quo” decorre dalla consumazione, quindi dall’ultimo evento. E
dalle schede prodotte dall’avv. Zaffalon, difensore di parte civile (ud.
15.6.01) e ricostruite sulla base dei dati forniti in aula dalla Guardia di
Finanza, oltre che dai CC.TT. degli imputati, schede in cui è stato ricostruito il disastro innominato
colposo specificamente attribuibile a ciascun imputato (cioè con la
specificazione delle lesioni e degli omicidi colposi a ciascuno addebitabili),
emerge che per ciascuno e per tutti gli imputati l’ultimo evento è avvenuto nel
2000: è dunque da questa data che decorre il termine prescrizionale, termine
allo stato evidentemente non ancora maturato.
Nello
specifico, quanto al rapporto fra disastro innominato colposo (artt. 449-434
c.p.) ed omessa collocazione di impianti antinfortunistici, ribadito che il capoverso dell’art. 437 c.p. costituisce
un reato complesso in cui l’evento disastroso (l’altro disastro od infortunio)
concreta appunto un disastro innominato
colposo, che viene dunque assorbito nel reato di omessa collocazione seguita
dal disastro, osserva il P.M. che ai fini dei termini prescrizionali non cambia
nulla, in quanto il citato reato complesso si consuma al verificarsi degli
eventi e quindi la decorrenza si ha dall’ultimo evento. Ed anche i reati di
omicidio o lesioni colposi, la maggior parte apparentemente estinti essendo
molto datati, possono andare esenti da prescrizione in quanto vincolati da
continuazione con l’omessa collocazione di impianti antinfortunistici, reato
che, attesa la contestazione dell’aggravante di avere agito con la previsione
dell’evento, può costituire la base del reato continuato comprendente le
lesioni e gli omicidi colposi, onde ancora nel 2000 andrebbe individuato il
dies a quo.
Per
tutti i predetti motivi insiste dunque il P.M. per l’accoglimento delle
avanzate richieste in merito al primo capo d’imputazione, e cioè: rinnovazione
del dibattimento, al fine di acquisire
le prove, specificate nell’atto d’appello che qui s’intendono trascritte,
previo annullamento, ove necessario,
delle ordinanze della 1a Sezione Penale del Tribunale
Ordinario di Venezia;e quindi dichiarazione di penale responsabilità degli
imputati: CEFIS Eugenio, GRANDI Alberto, PORTA Giorgio; GATTI Pier Giorgio, BARTALINI Emilio,
LUPO Mario, D’ARMINIO MONFORTE
Giovanni, CALVI Renato, TRAPASSO Italo, DIAZ Gianluigi, MORRIONE Paolo,
REICHENBACH Giancarlo, SEBASTIANI
Angelo, FEDATO Lucian, GAIBA Sauro, FABBRI Gaetano, SMAI Franco, PISANI Lucio,
ZERBO Federico, PRESOTTO Cirillo, BURRAI Alberto, BELLONI Antonio, GRITTI
BOTTACCO Carlo Massimiliano, MARZOLLO Dino, PALMIERI Domenico, NECCI Lorenzo,
PARILLO Giovanni, PATRON Luigi,, con la conseguente condanna degli imputati
alla pena già richiesta in sede di conclusione del giudizio di primo grado (ed
indicata in epigrafe) o, comunque, alla
pena che sarà ritenuta equa, con ulteriore
condanna alle spese di giustizia e ai risarcimenti dei danni che saranno
richiesti dalle Parti Civili costituite.
Quanto alle impugnazioni delle Parti Civili, le
stesse ripercorrono e ripropongono, in ordine alle statuizioni del Tribunale
relative al primo capo di imputazione, le doglianze stesse più ampiamente
sviluppate dal P.M. e di cui sopra.
In
particolare, l’Avvocato dello Stato, in qualità di difensore ex lege del
Presidente del Consiglio dei Ministri e
del Ministero dell’Ambiente e della tutela del Territorio, proponeva
impugnazione e chiedeva la riforma della sentenza nella parte in cui, in
relazione al primo capo, ha assolto, tra gli altri, Porta Giorgio
(relativamente alle condotte tenute quale Presidente della società Enichem spa
dal gennaio 1991 al giugno 1993), Trapasso Italo (relativamente alle condotte
tenute quale Direttore della programmazione della società ENI dal 1/1/1980 al
31/12/1981nonchè di Vice Presidente ed
Amministratore delegato della società ENOXY dal 1/1/1982 al maggio 1983, di
Presidente della stessa società dal maggio 1983 al settembre 1983, di Vice
presidente vicario ed amministratore delegato della società Enichimica da
maggio 1983 al 31/12/1984) , Smai
Franco, Pisani Lucio, Zerbo Federico, Presotto Cirillo, Burrai Alberto, Necci Lorenzo
dai reati di <lesioni personali colpose> e di <omicidio
colposo> riferiti alle ulteriori
persone offese nonché dai reati di <omissione dolosa di cautele>, di
<strage colposa> e di <disastro innominato colposo> per condotte
tenute in epoca successiva all’anno 1973 perché il fatto non sussiste.
Al riguardo, premesso da parte
dell’appellante che tutte le osservazioni e le censure mosse ai provvedimenti
impugnati vanno intese e sono riferite alle sole posizioni degli imputati e dei
responsabili civili nei cui confronti continua ad essere coltivata l’azione civile
con la proposizione dei motivi d’appello, in quanto all’esito del dibattimento
di primo grado lo Stato ha definito transattivamente la lite proposta con la
dichiarazione di costituzione di parte civile nel presente procedimenti nei
(soli) confronti del responsabile civile
Montedison spa e del
responsabile civile Montedipe spa e
degli imputati agli stessi collegati limitatamente alle condotte di gestione
degli impianti del petrolchimico di Porto Marghera attuate dalle predette società e di cui le stesse debbano, a
qualsiasi titolo, rispondere, onde si anticipa che nel corso del giudizio
d’appello si procederà a revocare (così come in effetti si revocherà) la
dichiarazione delle costituzione di parte civile nei confronti di singoli imputati
rispetto ai quali, per effetto dell’intervenuta transazione, è divenuta
improcedibile - in tutto o in parte, nei limiti che saranno precisati per
ciascun imputato - l’azione diretta ad
ottenere il risarcimento del danno, si indicano nei seguenti gli specifici motivi
di doglianza relativi al primo capo d’imputazione:
1) In relazione all’affermata esclusione
del nesso causale tra esposizione a CVM e tutte le restanti patologie diverse
da angiosarcoma epatico, epatopatie e morbo di Reinaud.
In generale si sostiene che la sentenza perviene a tali conclusioni sulla base di ripetuti gravi errori giuridici, che riguardano tutta una
serie di profili concernenti tanto gli elementi oggettivi quanto quelli
soggettivi dei reati contestati, di contraddizioni logiche e di incomprensibili travisamento dei fatti, sottovalutazione di
precisi elementi probatori, alcuni dei quali addirittura del tutto trascurati
benchè fossero stati oggetto di particolare attenzione dibattimentale. E nello
specifico:
1a) In relazione alla
pretesa esclusione della colpa specifica da violazione delle norme in materia
di igiene del lavoro per la mancanza
conoscenza scientifica delle correlazione tra le singole patologie e
l’esposizione a CVM (con particolare riferimento all’affermata inapplicabilità
- in mancanza di detta conoscenza - di norme di igiene del lavoro quali gli art.. 20-21 DPR 19/3/56 n. 303).
Sul
punto si lamenta che il Tribunale avrebbe compiuto almeno tre gravi errori, di
diritto e nell’apprezzamento del fatto.
Innanzitutto
ha inserito la categoria della prevedibilità dell’evento nella struttura della
colpa per violazione di legge, ignorando
del tutto l’antico e costante
insegnamento del Supremo Collegio (valido a maggior ragione in materia di sicurezza ed igiene del
lavoro, atteso il carattere assoluto ed oggettivo del dovere di sicurezza)
secondo cui:
“In
tema di colpa specifica per violazione di determinate disposizioni di
leggi, regolamenti, discipline etc decisivo, ai fini di una prognosi sulla
responsabilità penale, deve ritenersi, in positivo, l’accertamento in ordine
alla regola trasgredita, nessuna influenza
potendo esplicare il criterio della prevedibilità; di guisa che,
accertata la violazione, sorge la responsabilità, dovendosi considerare che
l’inosservanza delle norme predette sostanzia quella imprudenza e negligenza
che costituisce il dato saliente della responsabilità per colpa” (Cass. Sez. IV
sent. nr. 14202 del 25/10/1989 RV 182332).
Del
resto dovrebbe essere dato ormai acquisito dalla cultura giuridica
italiana (trattandosi di principio
affermato significativamente
ancora negli anni ’60, con le prime applicazioni della normativa in
riferimento) che “le norme per la prevenzione degli infortuni sono state dettate per evitare i pericoli,
anche non facilmente prevedibili, che sono connessi a particolari condizioni di
lavoro” (Così Cass. Sez. V, sent. nr. 806 del 17/6/1969, RV 111908).
Dunque
è sufficiente che vi sia una norma di legge che detta misure di prevenzione a
tutela della salubrità dell’ambiente di lavoro affinchè il datore di lavoro
venga gravato dell’osservanza degli obblighi in essa descritti, a nulla potendo
rilevare la rappresentazione (e la prevedibilità) di eventi ritenuti conseguenza della sua eventuale inosservanza.
In
secondo luogo, e conseguentemente, il Tribunale ha completamente ignorato che
era comunque nota, a livello
scientifico, la conoscenza di rischi per la salute, ancora non mortali (ma non per questo giuridicamente irrilevanti)
derivanti dall’esposizione del lavoratore a concentrazioni non elevate di CVM (dell’ordine di decine di
p.p.m.), quali quelli ben illustrati
sin dagli studi di TORKELSON e SOCIN, e che tale conoscenza avrebbe dovuto
indurre il datore di lavoro Enichem spa (ed anche negli anni ‘90) , secondo la
nitida previsione dell’art. 20 cit.,
innanzitutto ad impedire del
tutto lo sviluppo e la diffusione del gas tossico (quale il CVM era noto che
fosse) nell’ambiente di lavoro o, in caso di assoluta impossibilità tecnica, a
ridurre sempre più, progressivamente e tendenzialmente a zero, nei limiti
consentiti dal progresso tecnologico e con l’utilizzo delle migliori tecnologie
di volta in volta disponibili, la presenza del gas in detto ambiente. (Sul
pregnante e complesso contenuto del dovere di sicurezza risultante dall’art. 20
DPR 303/56, che non si limita a prevedere impianti di aspirazione localizzati
il più vicino alle fonti di produzione egli agenti nocivi ma che impone anche
misure organizzative del lavoro allorquando tali misure di difesa risultino
insufficienti cfr. Cass. Sez. IV sent. nr. 10730 del 25/10/1991, RV 188570).
Che
ciò non si sia affatto verificato (e per quel che interessa la prospettiva di
questa parte civile neppure nelle epoche più recenti, per tutta la fase di
gestione ENICHEM degli impianti) sarà oggetto di altre considerazioni specificamente sviluppate in
seguito in diverso motivo di appello (infra sub 1b)
Infine
ha omesso di considerare che il dovere di sicurezza gravante sul datore di
lavoro in forza del sistema giuridico
costruito sui principi dettati dall’art. 41 cpv. Cost. (e quindi art. 2087 cc.
nonché normativa speciale in materia di prevenzione di infortuni sul lavoro e
di igiene del lavoro) ha contenuto oggettivo. L’ambiente di lavoro deve
risultare “oggettivamente” sicuro, a prescindere dall’affidamento che si può
fare sulle capacità dei soggetti che in esso vi operano di prevenire i rischi
ed i pericoli sulla base delle istruzioni eventualmente ricevute o in forza
delle loro articolari abilità. Da sempre il principio è stato affermato dal
Supremo Collegio: ad esempio Cass. Sez. IV sent. nr. 8082 del 6/10/79,
imp. Vigano ha
espressamente statuito che “in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro,
le persone preposte alla organizzazione imprenditoriale hanno il dovere di
garantire la sicurezza oggettiva degli
impianti e non possono delegare ad altri tali doveri”.
Più
recentemente il contenuto oggettivo del dovere di sicurezza (riferito alla
oggettiva sicurezza dell’ambiente di lavoro in quanto tale) è stato
ribadito da Cass. Sez. IV sent. 8261 del 28/9/1982, imp. Tizza,
Cass. Sez. III sent. nr. 7936 del 3/10/84, imp. Barni; Cass. Sez. III sent. nr. 7893
del 10/9/85, imp. Donvito; Cass. Sez. IV sent. 6686 del 7/7/93 imp. Moresco).
Dunque
non sarebbe, in alcun caso, giuridicamente proponibile la tesi seguita dal
Collegio, dal momento che la semplice esistenza (che il datore di lavoro ha
l’obbligo giuridico di conoscere e di valutare) di una condizione di rischio, anche minimo, per la salute del
lavoratore comporta, ex se, in capo al
datore di lavoro l’obbligo giuridico di eliminazione del rischio in modo tale
che, oggettivamente, l’ambiente di lavoro risulti sicuro.
I
gravi errori descritti che, in serie, sono
stati commessi nella ricostruzione della colpa e, in particolare, nell’esclusione dei profili di colpa specifica derivanti dalla violazione della
normativa in materia di igiene e di prevenzione degli infortuni sul lavoro,
hanno poi condizionato il decisum del Tribunale anche per quanto concerne la
tematica della ricostruzione delle effettive concentrazioni di gas (CVM in
particolare) cui i lavoratori del Petrolchimico di Porto Marghera sono stati
esposti non solo immediatamente dopo il 1973 ma anche in epoche molto più
recenti, appunto durante la gestione ENICHEM (i dati probatori più
significativi si riferiscono al periodo
1990-1993).
La
valutazione del Tribunale, sul punto, ha, infatti, pesantemente risentito degli
effetti derivanti dall’esclusione della colpa per le ragioni suddette, dato che
tale argomentazione giuridica (usata dal giudice di I° grado soprattutto per
escludere la colpa in epoca antecedente alla conoscenza della cancerogenicità
della sostanza) è stata subito accompagnata da un giudizio di adeguatezza delle
misure adottate dopo tale conoscenza che non solo non può essere condiviso nel
merito (per le ragioni di cui si dirà a proposito dell’effettiva esposizione
dei lavoratori a CVM) ma anche perché non è minimamente rispettoso di quello che è il reale contenuto del
dovere di sicurezza del datore di lavoro quale, invece, risulta dalle
indicazioni fornite dal Supremo Collegio alle quali si è fatto più sopra
riferimento.
1b1)
Errori, sottovalutazioni e travisamenti nella ricostruzione della reale ed
effettiva concentrazione del CVM cui sono stati e sono tuttora esposti i lavoratori (con particolare riferimento
alle esposizioni registrate dal gascromatografo nel periodo 1990 - 1993).
Si
sostiene sul punto che le evidenze probatorie, e si citano testimonianze e
documentazione oltre che le valutazioni dei consulenti tecnici, farebbero
cadere il pilastro su cui la sentenza appellata ha fondato – in fatto –
l’esclusione del nesso causale per molte delle patologie prese in
considerazione. Ciò in quanto le esposizioni reali dei lavoratori impegnati nei
reparti di produzione e/o di utilizzazione del CVM erano e sono sempre state
(anche nei tempi più recenti tra quelli presi in considerazione
dall’imputazione) enormemente più alte di quelle (trascurabili) mediamente
indicate dai monitoraggi aziendali, eseguiti in modo non conforme a quanto
richiesto dalla normativa vigente, privi dell’indispensabile completezza delle
misure, con strumenti inefficienti e, comunque, utilizzati in più occasioni con
vistose correzioni apportate dagli operatori e finalizzate ad ottenere risultati
ben più favorevoli al datore di lavoro di quelli altrimenti fornite dal funzionamento automatico del
sistema. Ed i dati che certificavano tali più alte concentrazioni di CVM in
ambienti di lavoro (quali, ad esempio, le annotazioni sul registro per il passaggio di consegne, in cui erano talvolta
annotate le concentrazioni reali misurate
con le sonde in occasione di fughe) sono stati ignorati dal Tribunale
benchè attestassero (sia istantaneamente che cumulativamente intesi) un superamento di gran lunga della soglia di
idoneità lesiva che lo stesso Tribunale ha ritenuto debba consistere in 10 ppm
cumulativi (pagg. 116 – 121) e
persino delle soglie più basse di esposizione cumulativa riscontrate, in
letteratura, per alcuni tipi di tumore (288 ppm. per l’angiosarcoma).
E
si sostiene altresì che la predetta censura esplica efficacia anche sotto il
profilo della critica al
disconoscimento del disastro innominato
in relazione alle condotte successive tenute dal 1973, doglianza,
pertanto, che espressamente si propone a codesta On.le Corte d’Appello sulla
scorta sia dei dati sin qui illustrati in ordine alla reali concentrazioni del
CVM negli ambienti di lavoro sia in relazione al riconoscimento del nesso
causale tra esposizione e le patologie per le quali esso è stato, invece,
erroneamente escluso, alla luce delle considerazioni sviluppate nei seguenti
motivi d’appello.
1b2)
In relazione alla generalizzata assoluzione di tutti gli imputati da tutte le
contravvenzioni in materia di igiene e sicurezza sul lavoro (con riferimento a
quelle previste dal DPR 547/55, dal DPR 303/56 nonchè dal DPR 10/9/82 n. 962).
Si
sostiene sul punto che le assoluzioni dalle contravvenzioni, pur
indistintamente e generalmente pronunciate dal Collegio, non risultano motivate
nè con riferimento alle singole contravvenzioni contestate in imputazione nè
con riferimento alle prove fornite dal dibattimento, che, nell’evidenziare le
elevate esposizioni di cui sopra, dimostrerebbero non solo l’inefficienza e la
non adeguatezza del sistema di monitoraggio ad oggi utilizzato all’interno
dello stabilimento ma, soprattutto, la sua non conformità nè ai dettami
prescritti dagli artt. 21 e 21 del DPR 303/88 nè alle regole tecniche imposte
dal DPR 962/82 abrogato dall’art. 13 del D. Leg.vo 25/2/2000, n. 66 che ha
ricondotto tutta la materia in precedenza disciplinata dal citato DPR
nell’ambito della generale disciplina dettata dal D. leg.vo 626/94 e successive
modifiche, recuperando, in particolare, quanto alle tecniche di monitoraggio, i
sistemi di controllo ambientale previsti negli allegati al D. Leg.vo 277/91.
Proprio
tale modifica normativa dimostra che la materia è tuttora penalmente sanzionata
sulla base delle norme incriminatrici contenute sia nel D. leg.vo 277/91 che
nel D. Leg.vo 626/94: non vi è stata, pertanto, abolitio criminis ma soltanto
successione delle leggi penali nel tempo. Il Tribunale avrebbe conseguentemente
dovuto affrontare il problema della norma penale applicabile sulla base dei
noti criteri contenuti nell’art. 2 del cod. penale.
Non
lo ha fatto perchè ha ritenuto - trascurando del tutto di considerare gli
elementi di fatto illustrati dal Prof. Nardelli e le implicazioni giuridiche
che questa difesa aveva prospettato nel corso della discussione - che il
sistema di monitoraggio fosse rispettoso di tutti i dettati normativi e fosse
davvero in grado di misurare la reale concentrazione del gas negli ambienti di
lavoro. La valutazione, tuttavia, è errata sia in fatto che in diritto.
Il
Tribunale, infatti, non ha tenuto in alcun conto la denunciata insufficienza ed
inadeguatezza del numero e della collocazione dei punti di prelievo
(campanelle) nel reparto CV 24.
La
sproporzione evidente tra il volume d’aria destinata ad essere campionato dalle
campanelle a piano terra rispetto a quelle collocate sopra le autoclavi, ad
esempio, (700 mc per le prime contro 340 mc per le seconde) dimostra tale
inadeguatezza e consente di fondare la censura della violazione dell’art. 4, I.
C. DPR 962/82 con riferimento al punto 1C2 dell’Allegato I.
Ma
le censure più gravi sono quelle relative all’imposizione di soglie massime di
misurazione al gascromatografo.
Esse
( si ricorda: soltanto 25 ppm!) sono inferiori addirittura alla soglia di
allarme prevista dalla direttiva europea e dal DPR che ne ha dato attuazione:
di qui la violazione dell’art. 5 di detto DPR 962/82. Violazione che sussiste
anche in relazione all’installazione ed al funzionamento dell’interruttore
ON/OFF, dal momento che si è dimostrato come lo stesso abbia significativamente
alterato gli automatismi su cui il legislatore contava proprio per impedire
ogni possibilità di interventi correttivi nella rilevazione del gas.
Ma
un tal genere di genere di monitoraggio è anche contrario agli obblighi
affermati, ad esempio, dall’art. 20 del DPR 303/56.
Da
tale norma, infatti, scaturiscono sia il dovere di eliminazione e/o di
progressivariduzione all’infinito della possibilità di sviluppo e/o della
diffusione del gas tossico sia il dovere di eliminare immediatamente, in caso
di fuga, il gas nello stesso punto in cui lo stesso è stato prodotto.
Di
qui, conseguentemente, l’obbligo di aspirare il gas nei punti critici che
dovranno, pertanto, essere verificati e controllati da un sistema di
misurazione puntiforme capace di controllare, in ognuno di essi, il
verificarsi di una fuga e di consentire
i tempestivi interventi di contenimento e di bonifica.
Tutto
questo avrebbe dovuto essere considerato dal Tribunale, specie alla luce dei
dati e delle informazioni di cui si è trattato nel precedente motivo.
L’assoluzione
dalle contravvenzioni relative alla materia, pertanto, non solo è ingiusta ma è
immotivata, tenuto conto della loro contestata permanenza alla data della
contestazione suppletiva e del pacifico mantenimento degli impianti di
monitoraggio nelle condizioni e con le stesse modalità di funzionamento
documentate sino al 1995 dalla documentazione esaminata dal prof. Nardelli.
1c)
Errore e travisamento dei fatti in generale nella ricostruzione del nesso
causale tra le malattie contestate e l’esposizione a CVM, in particolare per le
seguenti ragioni:
1c1)
Difetto di motivazione, errore e contraddittorietà nella considerazione di ciò
che, per il diritto penale, deve essere inteso come malattia.
Sul punto rileva l’appellante come il Tribunale abbia del tutto ignorato
la necessità di considerare, come malattie in relazione alle quali porsi il
problema della riconducibilità causale all’esposizione al CVM ed alle altre
sostanze tossiche indicate in imputazione , qualsiasi modificazione della
condizione di benessere fisiopsichico dei lavoratori cui fosse associata una
anche solo temporanea modificazione delle funzioni organiche (secondo il noto insegnamento del Supremo Collegio: per
tutte Cass sentenza nr. 714 del 19/1/1999 che statuisce:” Il concetto clinico di malattia richiede il
concorso del requisito essenziale di una riduzione apprezzabile di funzionalita', a cui puo' anche non corrispondere una lesione anatomica, e di quello di un fatto morboso in evoluzione
a breve o lunga scadenza, verso un esito che potra' essere la guarigione
perfetta, l'adattamento a nuove condizioni
di vita oppure la morte. Ne deriva che non costituiscono malattia e quindi non possono integrare il reato di
lesioni personali, le alterazioni anatomiche,
a cui non si accompagni una riduzione apprezzabile della
funzionalita'”).
Il
Tribunale ha dunque omesso di fare chiarezza sulla stessa nozione di malattia
penalmente rilevante, così come definita dal Supremo Collegio e si è adagiato acriticamente sul concetto
(clinico) di malattia che era stato fornito da alcuni consulenti di
parte della difesa.
Ciò
nonostante questa difesa avesse dimostrato – in sede di controesame di detti
consulenti di parte, e se ne riportano nell’atto di appello i passi – quale
fosse il limite vistoso derivante dall’assenza della nozione di malattia così
come descritta dalla Suprema Corte.
Ed il Tribunale
non solo non si è accorto del grave problema – che l’accusa aveva prontamente
evidenziato – ma, in nome del primato della scienza, ha ritenuto che la nozione
clinica (e dunque riduttiva) della malattia dovesse prevalere sul concetto che
di essa è ricavabile dal sistema penale.
Il
problema non è stato minimamente affrontato dal Collegio e la circostanza –
invece – pacifica avrebbe potuto svolgere – a tacer d’altro – un ruolo
importante nella configurazione di una dichiaranda responsabilità penale per i
delitti di disastro innominato di cui all’art. 434 cp. nonché per quello di cui
all’art. 437 cp. in relazione ai quali il verificarsi della malattia-infortunio
costituisce circostanza aggravante.
1.c2) Errore nel ritenere che il nesso causale
sussista soltanto quando sia possibile dimostrare l’esistenza di una legge
scientifica di copertura capace di dare la spiegazione scientifica dell’evento,
limitando così la certezza
processuale ai soli casi in cui la
scienza sia giunta a dare, in termini certi, la spiegazione dei meccanismi che
ingenerano la patologia e del loro modo di agire.
Proprio
su tale punto, sostiene l’appellante, la sentenza avrebbe compiuto l’errore più
grave, allorquando ha escluso il nesso causale tra esposizione a CVM e la quasi
totalità delle patologie che erano
state oggetto di contestazione sulla base di una concezione giuridicamente
errata dei criteri di ricostruzione del nesso causale, criteri
significativamente disattesi persino dal recente pronunciamento sul punto delle
Sezioni Unite del supremo Collegio ( cfr. Cass. Sezioni Unite penali , sentenza nr. 30328 del 10/7 – 11/972002,
Pres. Marvulli, rel. Canzio,)
L’idea
che fosse necessaria la precisa dimostrazione scientifica del meccanismo
causale di ogni patologia in generale e per ciascun lavoratore (ovviamente
impossibile da dare) è stata ritenuta sufficiente dal Giudice di primo grado per escludere in assoluto la rilevanza
penale dei fatti sulla base di una asserita mancata dimostrazione del nesso
causale.
Sono
stati, in tal senso, enfatizzati dal Collegio i limiti degli studi
epidemiologici, quasi che solo una
certezza delle ricerche in quel settore della scienza (per la verità
avente ben altri obiettivi rispetto a quelli che caratterizzano la
ricostruzione del nesso causale nel diritto penale!) potesse fungere da
parametro obiettivo per discriminare le patologie riconducibili al cloruro di
vinile.
In
realtà non solo tale postulato si fonda
sull’erronea rappresentazione del valore da assegnare allo studio
epidemiologico all’interno del processo penale (in assenza del quale, pertanto,
dovrebbe – stando al criterio applicato dal Tribunale – negarsi ogni
possibilità di accertamento di responsabilità penali: una vera e propria delega
della giurisdizione all’epidemiologia, con buona pace dei sacri principi sul
ruolo della giurisdizione in uno stato democratico proclamati più volte dallo
stesso Tribunale!) ma anche risulta obiettivamente in contrasto con le finalità
dichiarate dagli epidemiologi stessi.
Più
volte, nel corso del dibattimento, si è avuto modo di far loro precisare
che la mancanza di significatività della correlazione accertata
tra l’esposizione ad una sostanza ed una patologia non significa affatto che
deve essere esclusa la possibilità che la correlazione esista e che operi
pienamente sul piano causale. Significa, invece, limitarsi ad affermare che la
scienza, in quel caso, non è in grado di affermare che essa opera con
regolarità nella totalità dei casi, come invece si potrebbe affermare nel caso
in cui lo studio epidemiologico avesse raggiunto la dimostrazione di altri, e
più elevati, livelli di correlabilità .
In
ogni caso – come insegna il Supremo Collegio – la valutazione del Giudice in
ordine al nesso causale non può ridursi ad un mero calcolo di probabilità
(anche perché nessuno ci può dare il limite di probabilità oltre al quale
l’evento viene considerato effetto cagionato dal quel tipo di fattore causale)
ma deve essere effettuata sulla scorta di un prudente apprezzamento di tutti i
fattori tecnici del singolo caso, fattori la cui presenza viene abitualmente
rilevata dall’utilizzazione di quella “criteriologia medico-legale” sistemata
dal Cazzaniga ancora negli anni ’50 e, ancora una volta, del tutto ignorata dal
Collegio, che pure avrebbe ignorato il contributo specifico di due consulenti
medico-legali indotti dalla parte civile (il prof. Rodriguez ed il dr.
Bartolucci), i quali avevano analiticamente illustrato al Collegio i singoli
casi di operai affetti da patologie che
avrebbero dovuto essere ricondotte con certezza scientifica all’esposizione a
CVM, sulla scorta dei più
consolidati criteri di valutazione medico-legale.
Il
tema sarebbe stato ignorato, secondo l’appellante, proprio a causa della scelta
“ideologica” compiuta dal Collegio in materia, tutta condizionata dall’ovvia
impossibilità di fornire una legge scientifica di copertura per ogni singolo
evento.
Si
dovrebbe operare invece, sostiene l’appellante, una valutazione sempre ed
insuperabilmente probabilistica, in cui la certezza processuale si raggiunge
(come sempre in materia di apprezzamento della prova, del resto) sulla base di
un convincimento logico del Giudice che pone alla base del suo giudizio una
valutazione altamente probabilistica e criticamente vagliata del meccanismo
causale quale ricostruito, nella sua complessità, alla luce di tutti i fattori
conosciuti.
Alla
luce di detti principi, allora, ben altra valutazione avrebbe dovuto essere
compiuta dal Collegio in ordine alle singole patologie attribuibili
all’esposizione a CVM non solo, genericamente,
nei periodi successivi al 1973 ma anche, più specificamente, in
relazione ai periodi di gestione ENICHEM spa di cui, pertanto, possono essere chiamati a rispondere gli
imputati nei confronti dei quali questa
parte civile coltiva l’azione civile nel giudizio d’appello.
1.c3)
Erronea applicazione del regime delle concause di cui al’art. 41 cp ed omessa
e/o erronea valutazione del ruolo concausale del CVM nell’insorgenza di
patologie, con particolare riferimento al tumore al fegato ed al polmone.
Si sostiene che Tribunale non affronta nè risolve in
termini giuridicamente corretti il
problema del ruolo concausale del CVM nell’insorgenza di alcune patologie (in
particolare il tumore al fegato ed il tumore al polmone) che, invece, l’accusa
aveva puntualmente posto nel corso del dibattimento di primo grado
Si
critica l’affermazione del Tribunale secondo il quale ciò che non è causa non è idoneo ad assumere il ruolo di concausa
di un evento, sostenendosi invece, con sostanziale riproposizione delle
argomentazioni pure svolte dal P.M. e sopra ricordate, e con richiamo delle
singole specifiche vicende dei lavoratori interessati, che in tutti i casi
descritti sarebbe stata possibile un’affermazione di responsabilità degli
imputati se solo il Tribunale avesse utilizzato i proposti diversi (e corretti)
criteri di valutazione e di giudizio.
2)
In relazione all’erronea esclusione della configurabilità giuridica, in
astratto, di alcuni dei delitti contestati agli imputati (449 con riferimento
all’art. 422 cp) e della sussistenza, in concreto degli estremi obiettivi di
altri delitti (437 cp).
2.a)
Sull’esclusione della responsabilità in ordine al reato di cui all’art. 437 cp. per condotte successive al 1973.
2
a1) Asserita insussistenza del reato ex art. 437 c.p.- in generale.
2a2)
In ordine all’asserita insussistenza del reato ex art. 437 c.p. sul piano
oggettivo. La ratio dell’art. 437 c.p.
2a3)
Asserita insussistenza del reato ex art. 437 c.p. sul piano soggettivo.
Sostiene
l’appellante che la sentenza appellata commette due gravi errori di diritto dal
momento che esclude la stessa configurabilità in astratto del delitto di
disastro colposo di cui agli artt. 422 – 449 cp. e, in concreto, esclude la
sussistenza del delitto di cui all’art. 437 cp. per condotte successive
all’anno 1973.
Quanto
a quest’ultima fattispecie, premesso che, come affermato dal P.M., viene
considerata come la fattispecie normativa alla quale vanno riferite e
conseguono le singole imputazioni per i reati indicati dal decreto che dispone
il giudizio, ci si lamenta che il Giudice di I° grado - del tutto
superficialmente, ma soprattutto in netto contrasto con i molteplici e concordanti
riscontri istruttori, documentali e testimoniali, resi in dibattimento –
liquida come insussistente la relativa imputazione, dedicando peraltro a questa
norma poche, carenti, contraddittorie e generiche osservazioni sugli aspetti
oggettivo e soggettivo del reato in questione, argomentando in modo
assolutamente insufficiente, illogico e contraddittorio.
Sostiene
al contrario l’appellante, così come sostenuto anche nel proprio appello dal
P.M. ed in forza di sostanziali analoghe argomentazioni sia sulle preliminari
nozioni in ordine agli elementi costitutivi
oggettivi e soggettivi del reato di cui all’art. 437 c.p., sia
nell’analisi dettagliata delle singole condotte rilevanti ai sensi del delitto
in esame, che se si pone mente al fatto che nel presente procedimento tutte le
condotte omissive dolose ascritte agli imputati ai sensi dell’art. 437 c.p.
sono riferite, costituendo l’oggetto dell’imputazione penale, alle singole e
specifiche violazioni delle disposizioni speciali in materia antinfortunistica
e di igiene del lavoro e alla violazione dell’art. 2087 c.c., norma di
chiusura, la responsabilità avrebbe dovuto essere dichiarata in relazione a
tutte le condotte omissive attribuite
agli imputati, atteso il riscontro
probatorio che le stesse hanno ottenuto nel corso del dibattimento di primo
grado.
2b)
In ordine alla ritenuta impossibilità giuridica di configurare il delitto di
disastro colposo di cui agli artt. 449 – 422 cp. Erronea applicazione della
legge penale e difetto di motivazione.
Si sofferma l’appellante su tale
ulteriore profilo di doglianza (non avanzato dal P.M.) sostenendo che la
motivazione in proposito fornita dal Tribunale
appare troppo sintetica. Si rinnova, quindi, la richiesta relativa all’applicazione
della fattispecie risultante dal combinato disposto di cui agli artt. 449 e 422
c.p., delitto colposo la cui esistenza all’interno dell’ordinamento vigente
dev’essere affermata in forza delle argomentazioni già svolte in primo grado e
che si riprendono nell’atto di appello.
Si sostiene al riguardo che la
configurabilità di tale fattispecie emergerebbe sia da una interpretazione
letterale, atteso il riferimento testuale contenuto nell’art. 449 c.p. ai
“disastri” di cui al capo primo, onde resterebbe infirmata l’interpretazione del
Tribunale che ricollega il riferimento al solo incendio e disastri previsti
successivamente all’art. 423 c.p., sia dalla volontà del legislatore che, quasi
interpretazione autentica, laddove successivamente ha voluto escludere una
particolare previsione lo ha fatto in modo esplicito come per la ipotesi di cui
al secondo comma dell’art. 423bis c.p., sia da una interpretazione sistematica
che farebbe venir meno anche le argomentazioni del Tribunale in ordine ad
assunta inconciliabilità tra tale riferibilità del rinvio di cui all’art. 449
cp anche all’art. 422 cp, e l’elemento soggettivo (dolo specifico) del reato di
strage. In proposito si richiama dottrina che sostiene che il rinvio operato
dall’art. 449 cp deve intendersi esclusivamente per gli elementi materiali
delle varie fattispecie, con totale estromissione di ogni riferimento
all’elemento soggettivo, dovendo fare riferimento all’art. 42, comma 2, c.p.
che consente in via generale la punibilità a titolo di colpa di condotte già
punite a titolo di dolo senza alcuna limitazione rispetto al dolo generico
piuttosto che a quello specifico, e rinvenendosi nell’ordinamento altre ipotesi
di reati colposi che già sono previsti anche nella forma dolosa con dolo
specifico, quali la contravvenzione di cui all’art. 712 cp rispetto al delitto
di cui all’art. 648 cp.
Ed anche successivamente all’art. 423
(Incendio) si riscontrano “disastri” puniti
ordinariamente a titolo di dolo specifico, i quali, e ciò seguendo
proprio la tesi restrittiva del rinvio selettivo, dovrebbero comunque rientrare
nel sopradescritto meccanismo generatore (cfr., ad esempio, artt. 424, 427,
429, 431 c.p.).
Secondo l’appellante allora è coerente
concludere per la ragionevolezza e la coerenza di un’interpretazione che, in
aderenza alla legalità stretta del dato testuale, ipotizzi la chiara
configurabilità di un “disastro” ex artt. 422 e 449 c.p., disastro che certo
strage non è, proprio perché la definizione legislativa di strage è riservata
al delitto doloso e, per così dire “puro”, di cui all’art. 422 c.p.. Si
tratterebbe di diversa ipotesi che “strage” in senso tecnico non è, e che viene
punita a titolo di colpa per espresso rinvio legislativo.
Analogamente troverebbe smentita sul
piano sistematico anche l’obiezione relativa alle distorsioni che si
verificherebbero sul piano sanzionatorio laddove si ammettesse la
configurabilità di un delitto colposo ex artt. 449 e 422 c.p. Sostiene infatti
l’appellante che le asserite incongruità nel regime sanzionatorio sono frutto
non già dell’originale disegno codicistico, quanto, piuttosto, delle modifiche
settoriali di volta in volta apportate.
Al riguardo si consideri, ad esempio,
il sopravvenuto (e non ancora
ricomposto) discrimine tra le fattispecie “interne” alla disposizione dell’art.
422, commi 1 e 2, dopo la soppressione della pena di morte (ex d.l. lgt. del 10
agosto 1944) e la sostituzione alla stessa dell’ergastolo.
A seguito di tale modifica si è operata
una parificazione del trattamento sanzionatorio di fatti diversi: invero, se
dal reato derivi la morte di una o, invece, di più persone diverse risulta
essere circostanza del tutto indifferente ai fini della pena, essendo in ogni
caso applicabile soltanto la pena di un unico ergastolo.
L’incongruenza diventa poi ancora più
evidente ove si considerino gli effetti della predetta modifica in relazione al
trattamento sanzionatorio dell’omicidio volontario plurimo aggravato.
Mentre la sanzione prevista nel caso in
cui molteplici eventi di morte conseguano alla situazione di pericolo di cui
all’art. 422 c.p. è l’ergastolo, il trattamento punitivo previsto, invece, per
l’omicidio aggravato plurimo (art. 577, comma 1, n.2) risulta consistere in una
serie di ergastoli, con conseguenze giuridiche
tutt’altro che indifferenti per il reo.
Pertanto, se incongruenze sanzionatorie
sono allora ipotizzabili anche con riferimento all’ipotesi dolosa della strage
(frutto di una riforma non sufficientemente attenta a tutte le sue
implicazioni), non si potrà certo far leva su tale circostanza per contestare
la configurabilità della fattispecie colposa di cui al delitto ex artt. 422 e
449 c.p., trattandosi – in ipotesi - di incongruenza che non consegue
all’originaria concezione del Codice Penale, ma soltanto ad alcune sue
modifiche.
Ma al riguardo richiama l’appellante
anche un’ulteriore sviluppo interpretativo, che sarebbe idoneo in quanto tale a
risolvere ogni argomentazione in ordine al trattamento sanzionatorio.
In particolare ci si riferisce alla tesi,
in dottrina, in ordine alla possibile qualificazione degli eventi mortali di
cui al delitto ex artt. 449 – 422 c.p. come “condizioni di maggiore
punibilità”, che porterebbe a concludere per un concorso tra l’omicidio colposo
plurimo e la realizzazione colposa di una “strage” sviluppatasi in più eventi.
Lamenta ancora sul punto l’appellante che
nella sentenza impugnata non trovano espressa menzione due ulteriori considerazioni generali,
avanzate da questa difesa per illustrare e “contestualizzare” la discussione
circa l’esistenza del delitto ex artt. 449 – 422 c.p.
La prima attiene all’attuale
configurazione del bene “incolumità pubblica” di cui all’art. 422 c.p,
evidenziandosi da parte dell’appellante che il caso di cui si discute in questa
sede ben si concilia con lo sviluppo non solo
interpretativo ma anche normativo che il bene incolumità pubblica ha
conosciuto nel corso del tempo, potendosi oggi ritenere che tale nozione sia
idonea ad abbracciare interessi rilevanti e strettamente connessi quali la
salubrità ambientale e la salute pubblica, soprattutto laddove, come nel caso
di specie, “atti tali da porre in pericolo” (ex art. 422) gli interessi
suddetti si accumulino nel corso del tempo in un progressivo acutizzarsi dei
profili offensivi ed in un conclusivo materializzarsi, accanto ad un evento di
pericolo ed al corrispondente disvalore, di un evento di danno (morte di una o
più persone, più eventi di morte).
Dunque, secondo l’appellante, nella
fattispecie ex artt. 422 e 449 c.p. trovano adeguata collocazione molteplici
elementi emersi nell’analisi fattuale: la tutela dell’ambiente, le
ripercussioni delle alterazioni dello stesso e dei pericoli indotti
sull’incolumità di una cerchia potenzialmente indeterminata di persone, le
morti di più persone, la violazione colposa di discipline poste a tutela dei
medesimi interessi, la pervasività e la diffusività del pericolo e/o del danno.
La seconda importante considerazione
“sistematica” favorevole alla configurabilità del delitto ex artt. 449 – 422
c.p., troverebbe poi fondamento nella consolidata definizione giurisprudenziale
del “disastro”, la cui ampiezza si rivela del tutto conciliabile con le
caratteristiche della nuova fattispecie colposa generata dalla combinazione
delle suddette norme (cfr. la sentenza del 16/07/1965, n.949, della Sezione IV
della Corte di Cassazione, a giudizio della quale la nozione di disastro, in
relazione ai delitti contro l’incolumità pubblica, implica un evento grave e
complesso, che colpisca le persone e le cose, e sia altresì suscettibile non
solo di mettere in pericolo e realizzare il danno di un certo numero di persone
e di una certa quantità di cose, ma anche di diffondere un esteso senso di
commozione e di allarme; ma cfr. anche: Cass. pen., sez. I, sentenza del
10/12/1964, n.1291; Cass. pen., Sez. IV, sentenza del 28/02/1970, n.2630; Cass.
pen., Sez. IV, sentenza del 17 marzo 1981; Cass. pen., Sez. IV, sentenza del
23/07/81, n.7387; Cass. pen., Sez. V, sentenza del 17/08/1990, n.11486; Cass.
pen., Sez. IV, sentenza del 19/05/2000, n.5820).
Concludendo
sul punto sostiene l’appellante che l’esclusione della configurazione del
delitto colposo di cui al combinato disposto degli artt. 449 – 422 cp è,
pertanto, erronea, insufficientemente motivata in relazione alle argomentazioni
già prospettate dall’accusa nel corso del dibattimento di primo grado oltre che
nel corso della stessa udienza preliminare.
3)
Impugnazione dell’ordinanza dibattimentale del 7/4/1998.
Osserva
infine l’appellante come la stessa
valutazione negativa del Tribunale in ordine alla struttura del reato che si è
esaminato avesse caratterizzato anche l’ordinanza del 7/4/1998 con la quale in
Collegio, pronunciando sulle eccezioni difensive, aveva tracciato il solco dei
c.d. “periodi di pertinenza”.
Tale
indicazione, secondo l’appellante, è da criticare nella parte in cui dimostra
di non aver inteso il valore dell’imputazione del delitto di cui agli artt. 449
– 422 cp. così come ricostruito nel presente motivo d’appello. Si lamenta
infatti che l’ordinanza impugnata, al pari della sentenza, considera
atomisticamente le morti dei singoli lavoratori , quasi che le stesse fossero slegate da quel
contesto generale di disastro all’interno del quale, invece, le aveva
correttamente poste l’imputazione formulata dal P.M.
Contesto
generale ed unitario, fortemente strutturato intorno a tutti i reati contro
l’incolumità pubblica contestati (e,
dunque, oltre al delitto di cui agli artt. 449-422 cp anche il delitto di
disastro innominato, quello di cui all’art. 437 cp nonché quelli di avvelenamento e di adulterazione di cui si
dirà in seguito) ma che vedeva proprio nel delitto di cui agli artt. 449-422 cp
il contenitore naturale di condotte tutte singolarmente pericolose per la
pubblica incolumità, stratificate nel tempo, dalle quali (o dal concorso delle
quali) si erano poi verificati quegli eventi-morte che, nella struttura del
reato, costituiscono condizioni di punibilità (o, al massimo, circostanze
aggravanti).
Dunque
anche sul punto si chiede la riforma dell’impugnata sentenza, tanto nella
decisione assolutoria tanto nell’ordinanza che ne costituiva il fondamento
logico giuridico.
Conclusivamente lamenta la suddetta parte civile il
carattere parziale e limitato della decisione di primo grado, quale risulta da
una motivazione solo apparentemente ricca e completa ma rivelatasi, in realtà, incredibilmente
carente sotto numerosi punti di vista. Prove decisive ignorate, assoluzioni con la formula più radicale
(“perchè il fatto non sussiste”) del tutto rimaste prive della benchè minima
spiegazione, diritti dell’accusa privata in più occasioni violati, norme penali
erroneamente applicate, travisamento del significato di numerose consulenze
tecniche. Una sentenza ingiusta, dunque, prima ancora che sbagliata, frutto di
un grave “pre-giudizio” nei confronti dell’accusa, e tutta l’impostazione che è
stata data al percorso argomentativo seguito dalla motivazione manifesta una
scelta aperta del Collegio a favore di valori
di garanzia incondizionata verso i diritti dell’imputato. Scelta
sacrosanta e condivisibile pienamente, ma, osserva l’appellante, tale rispetto avrebbe dovuto, tuttavia, essere
dimostrato anche nei confronti delle parti offese più deboli.
Quanto alle restanti parti civili appellanti, per
lo più ripropongono, alla lettera, i motivi di doglianza, tesi ed
argomentazioni del P.M., ripresi, come visto anche dall’Avvocato dello Stato,
sui temi in oggetto (sussistenza dei reati, in special modo di quello ex art.
437 cp, causalità, natura cancerogena del cvm e conoscenze in merito alla
stessa, colpa, ecc.), con limitate specificazioni in ordine alle vicende
personali di alcune delle parti offese appellanti, concludendo quindi tutti per
la riforma della sentenza con affermazione, ai fini civilistici, della
responsabilità degli imputati in ordine agli addebiti di cui al primo capo
d’imputazione.
Circa il secondo capo d’imputazione, le
argomentazioni del Tribunale a sostegno del deciso, si sviluppano
sostanzialmente in tre parti, cui si contrappongono le specifiche
censure degli appellanti.
IL Tribunale dopo avere premesso che, anche per questo
secondo capo di imputazione, il PM ha
ritenuto necessario, in relazione alla molteplicità e complessità dei fatti
ed alla estensione dei danni, utilizzare per correttamente inquadrare le fattispecie concrete , lo schema dei delitti contro l’incolumità
pubblica ,in particolare quello del disastro innominato -per i
danni all’ambiente e
all’ecosistema nel suo complesso- e
quello dell’avvelenamento e della adulterazione delle acque o di sostanze
alimentari – per quanto riguarda il biota vivente sul sedimento contaminato dei
canali dell’area industriale e le falde acquifere sottostanti le aree di
discarica interne ed esterne al
Petrolchimico- e ricordato che in data 13 –12 2000 è stata variata
l’imputazione, rileva che la
accusa ha proposto una lettura dei
fatti basata su soluzioni in diritto controverse,e che all’esito del processo
non sono state ritenute fondate in fatto le tesi della accusa, ,né
condivisibili in diritto le ipotesi
interpretative sottostanti.
Viene quindi
puntualizzata l’ipotesi
accusatoria con cui viene
contestato ad un primo gruppo di imputati
di avere realizzato e gestito discariche abusive di rifiuti tossico nocivi– gli allegati B e
C ne contengono l’elenco di 26 siti di
smaltimento- all’interno e all’esterno del Petrolchimico dal 1970 al 1988.
Ad una seconda serie di imputati, parzialmente coincidente
con la prima – ritenuti consapevoli
degli illeciti dei propri antecessori
e dello stato di degrado ambientale preesistente -viene invece
contestato: di avere abbandonato rifiuti tossico nocivi in violazione dell’art
9 D.P.R n 915/82;di avere stoccato senza autorizzazione rifiuti tossico nocivi nelle discariche di cui sopra senza la
autorizzazione richiesta ai
sensi dell’art 16 D.P.R. 915/82; di avere effettuato scarichi nelle acque di
fanghi di derivazione da catalizzatori esausti ,cosi come di altri
sottoprodotti di risulta dei processi
effettuati presso gli impianti produttivi – relativi alla produzione del cloro
e dei suoi derivati – in particolare gli scarichi SM2 e SM15 con il superamento
dei limiti , per quel che riguarda clorurati e nitrati, di cui alle tabelle
allegate al D.P.R n .962 /73 –di avere consentito la dispersione nel sottosuolo e nelle acque sottostanti il suolo di residui tossico nocivi
e di acque di rifiuto non trattate – si tratterrebbe delle sostanze
indicate negli elenchi I e II allegati
al D .Lvo n132/1992 riguardante la
protezione delle acque sotterranee ,il cui inquinamento deriverebbe dalla
trasmigrazione passiva della pregressa
contaminazione; di avere omesso
l’adozione delle misure necessarie
al fine evitare il
deterioramento della situazione
sanitaria igienico ambientale ,dei siti contaminati, delle falde acquifere sottostanti e delle acque
finitime; di avere omesso di informare l’autorità pubblica, preposta al controllo, delle attività di discarica e smaltimento
di rifiuti tossico nocivi; di avere omesso le necessarie opere di
bonifica dei siti contaminati, iniziando un parziale interevento limitato a due
zone, solo con la richiesta di autorizzazione presentata alla Provincia di
Venezia nell’agosto del 1995.
A tutti gli imputati
viene quindi contestato di avere, attraverso
le condotte di cui ai capi a )e b)
sopradescritte, causato eventi di
danno qualificati come disastro
c. d. innominato – previsto punito
dall’art 434 c.p - richiamato nella imputazione- e dall’art 449 c.p- non
espressamente richiamato ma da intendersi
sottinteso . data la contestazione a
titolo di colpa.
L’evento di danno consisterebbe nella contaminazione dei
diversi comparti ambientali e nella alterazione dell’ecosistema.
Vengono in
considerazione innanzitutto a tal fine
la contaminazione delle acque di falda
sottostanti la zona di Porto Marghera
, dei sedimenti dei canali e
delle acque prospicienti Porto
Marghera dovuta alla elevata
concentrazione di diossine e di altre famiglie di composti tossici, secondo
quanto accertato dalla consulenza espletata
dal C. T del P.M. depositata il 3-9-1996.
Viene poi in considerazione la compromissione del suolo e del sottosuolo come conseguenza della
illegittima gestione delle discariche . e come conseguenza di tutte le condotte di cui sopra viene quindi
addebitato a tutti gli imputati l’avvelenamento delle acque di falda ,
utilizzate anche per uso domestico e agricolo tramite i pozzi , l’avvelenamento
(452 e 439 c p) e l’adulterazione (452
e 440 c.p) delle risorse
alimentari costituite dalla ittiofauna
e dai molluschi , contaminazione avvenuta a seguito dell’inquinamento del biota ,
a sua volta inquinato dai
sedimenti contaminati dagli scarichi. e dalle percolazioni delle discariche.
Il pericolo
derivante dalla condotte contestate sarebbe attuale e vi sarebbe di conseguenza la permanenza
in atto, benché invero il capo di
imputazione ,cosi come modificato all’udienza del 13 –12 2000 limiti i fatti all’autunno del 1995.
Il Tribunale richiama quindi le ordinanze con cui sono state rigettate alcune eccezioni della
difesa relative alla incoerenza o /e
vaghezza della imputazione che si sono basate sui principi generali,
relativi alla rilevanza causale di
qualsiasi condotta , che costituisca un antecedente necessario, anche nella sola
forma dell’aggravamento, dell’evento, senza che rilevi la
sua maggiore o minore importanza, la distanza temporale rispetto al momento in cui si verificato
l’evento, evidenziando però che con quelle ordinanze è anche stato ribadito che
in relazione alla funzione del diritto
penale, che è quella di accertare responsabilità individuali, la rilevanza
causale dell’apporto del singolo imputato deve essere rigorosamente provata.
Altro problema che viene esaminato è quello costituito dal
richiamo allo schema concettuale della cooperazione nel delitto colposo.
L’ipotesi
dell’accusa non si presenta come un concorso di cause tra loro
indipendenti ma richiama condotte
caratterizzate dalla prevedibilità del comportamento altrui e dalla consapevolezza di ciascuno di aderire con la propria condotta alla condotta altrui, per cui sarebbe una
reciproca consapevolezza di condotte inosservanti da cui deriva un unico evento disastroso.
In ogni caso lo schema sostenuto dalla accusa ,della
cooperazione colposa, piuttosto che quello del concorso di cause , schema ritenuto astrattamente possibile dal Tribunale, non consente
comunque di eludere il problema causale in quanto ,anche nello schema della cooperazione colposa,
condotta penalmente rilevante è quella
che , insieme alle altre ,costituisce conditio sine qua non dell’evento o,
quantomeno, può dirsi efficiente in relazione alla condotta altrui, causalmente
rilevante nella produzione dell’evento ,anche nella forma di aggravamento dell’evento preesistente.
Non potrebbe configurarsi
poi la cooperazione per il solo fatto di essere consapevoli dello stato
di inquinamento pregresso se manca un
apporto quantomeno nella forma dell’aggravamento.
Non è pertanto condivisibile la tesi dell’accusa , secondo
cui tutte le condotte sarebbero unificate
in un addebito di cooperazione colposa, in cui ,ciascun cooperante
assume corresponsabilità per l’insieme delle conseguenza prodotte dal
catabolismo del plesso industriale.
La cooperazione si ritiene configurabile solo tra coloro che
agiscono in epoca coeva ,non tra persone che agiscono in epoche diverse, in
contesti organizzativi mutati e indistinti contesti societari.
Diverso è poi il problema di una successione nella
posizione di garanzia, ma comunque sia,
non potrà mai, secondo i principi generali, essere eluso il problema delle
rilevanza causale della condotta del singolo imputato, tramite lo schema della
fattispecie concorsuale nella forma colposa. Ciascun imputato potrà essere
chiamato a rispondere solo di fatti-anteriori, concomitanti o successivi causati da altri,solo se vi un
rapporto con la sua sfera di attività , se vi è una relazione con la garanzia dovuta, se sussiste la prova
di un nesso di causa tra la sua propria condotta -non quella dell’azienda- e
l’evento.
La imputazione in tema
di disastro innominato, ancor
prima di essere infondata in fatto lo è in diritto perchè comporta accuse
indifferenziate non compatibili con il principio della personalità della
responsabilità penale.
Centrale nell’ipotesi accusatoria è la figura del reato di
disastro innominato - disastro ecologico permanente - che si concretizza nella
mancata bonifica di siti contaminati da altri in antica data.
Secondo il Tribunale invece
si può parlare di reato permanente solo quando l’offesa al bene
giuridico si protrae fino all’attualità per effetto della persitente
condotta del soggetto.
Secondo l’accusa è causale anche la condotta inattiva di chi
subentra nella titolarità dei siti
inquinati, condotta che si concretizza in una serie di omissioni,intese
come violazioni dell’obbligo di attivarsi per la bonifica di quanto contaminato
da terzi antecessori in antica data.
Ed in questa prospettiva l’accusa trascura di
verificare l’epoca della contaminazione
e l’apporto che ciascuno degli imputati
vi avrebbe avuto in termini quanto meno
di aggravamento.
Il Tribunale ritiene invece che perché una condotta omissiva
sia penalmente rilevante debba
individuarsi in capo al soggetto quell’ obbligo ,il cui adempimento è stato omesso , obbligo che non sussiste, nella fattispecie , nei confronti di chi
succede nella disponibilità di un sito
contaminato da terzi.
Non esisteva infatti nel nostro ordinamento , prima del D
Lvo n22 /1997, un obbligo generale di bonifica
di siti contaminati da terzi in
antica data a carico del successore nel potere di impresa o nella titolarità
del diritto o nel potere di fatto su un sito già precedentemente inquinato.
Rileva anche il Tribunale come nel testo della
imputazione vi siano una pluralità di
riferimenti normativi relativi a violazioni costituenti titolo
contravvenzionale , che assumono rilevanza con
riferimento alle principali imputazioni , come titolo di colpa specifica .
Ed ancora viene
rilevato come, secondo la interpretazione autentica da parte dello stesso
organo dell’accusa, il reato di disastro innominato sia unico , riguardando sia
il primo come il secondo capo di accusa, in quanto l’attività di industria ha
esplicato i suoi effetti negativi,sia all’interno come all’esterno della fabbrica, con la
conseguente continuazione tra tutti delitti contestati nel primo
e nel secondo capo d’accusa e la
continuazio0ne interna tra i reati ipotizzati in ciascun capo di accusa.
Ma il Tribunale non
ritiene essere compatibile la continuazione con l’elemento soggettivo della
colpa.
Della
ritenuta compatibilità della fattispecie di disastro innominato colposo con il
principio costituzionale di stretta legalità.
Viene quindi osservato come le fattispecie richiamate dagli art 449 e 450 c.p
contengano entrambe il riferimento al termine disastro -termine generico-
soprattutto nella ipotesi di cui
all’art 449 e 434 c.p., in cui viene usato il predetto termine ,senza
alcuna ulteriore specificazione sul
fatto costituente la fonte del pericolo.
E sulla indeterminatezza
della fattispecie la difesa ha fondato la eccezione di costituzionalità
che è stata ritenuta manifestamente
infondata dal Tribunale con le
argomentazioni che sinteticamente si ricordano.
Evidenzia il giudice
di primo grado che nell’ipotesi di cui all’art 449 c.p. il disastro, anche
quello innominato, come evento di danno grave complesso ed esteso ai singoli
comparti ambientali e all’ecosistema nel suo insieme ,deve sussistere e
come in entrambe le fattispecie per definizione deve sussistere una situazione di messa in pericolo della pubblica incolumità; che nei reati di
danno è però necessario anche che sia accertata una serie cospicua di eventi di danno alle cose, mentre invece nei reati di pericolo basta la probabilità del verificarsi
dell’evento di danno alle cose; che la sussistenza del reato
comunque non può prescindere dall’accertamento della intrinseca idoneità
del danno ,cagionato alle cose, a porre
in pericolo, in modo serio ,reale la incolumità delle persone.
Capitolo terzo
Dalla destinazione a discarica delle ventisei aree nominate
in imputazione , alla contaminazione da sostanze tossiche del
suolo e sottosuolo rilevante in termini
di disastro colposo
Dalla contaminazione
del suolo e sottosuolo a quella
delle falde acquifere e delle acque dei pozzi
che ad esse attingono rilevante
in termini di loro avvelenamento o
adulterazione
3.1 premesse
Preliminarmente nella sentenza vengono richiamati gli
addebiti rivolti specificatamente al primo gruppo di imputati e quindi viene premesso che ,nel trattare gli effetti del catabolismo degli
impianti sul suolo, sottosuolo e quindi sulla falde acquifere, l’accusa ha
considerato in modo distinto le
discariche interne da quelle esterne all’area di insediamento del Petrolchimico e che secondo lo stessa schema accusatorio
verranno dal Tribunale valutate le
risultanze probatorie
Dagli esiti delle prove assunte risulta quanto alle discariche interne : che le
acque di falda- oggetto dell’indagine processuale sono le acque della prima
e della seconda falda- attinte dal percolato di discarica verticale sono in
suscettibili di qualsiasi utilizzo per la loro modestissima portata. che
l’inquinamento delle acque di falda, sottostanti il plesso industriale , non ha
potuto attingere, seguendo processi di
trasferimento orizzontale , acque e
sedimenti dei canali lagunari confinanti con l’area industriale, perché il
flusso del primo acquifero verso la laguna è privo di significato- tali falde
sono pressoché stagnanti- né i pozzi verso l’entroterra, perché il terreno
scende in direzione opposta verso la
laguna .
In sintesi la alta concentrazione di inquinanti che
caratterizzano le discariche interne sono contenute nelle zone sottostanti e non si sono verificati significativi spostamenti
Per le falde acquifere
sottostanti le discariche esterne l’inquinamento orizzontale è escluso
per mancanza di dati .
Solo in tre casi –tre discariche-la prima falda acquifera
risulta contaminata , non vi è però
prova del trasferimento orizzontale della
contaminazione dall’ambito sottostante
le aree di discarica a quello da
cui attingono i pozzi.
Ne conseguente la
infondatezza delle accuse che derivano dall’ipotesi di avvelenamento
delle falde acquifere del suolo e sottosuolo
Dopo avere evidenziato
con le predette argomentazioni che non vi è prova di una situazione di
pericolo per la incolumità pubblica, relativamente alla situazione delle
discariche viene osservato che non vi è alcuna prova in ordine alla
realizzazione –gestione-utilizzo delle discariche senza titolo o in
violazione delle norme di protezione
ambientale vigenti all’epoca del loro
esercizio .
Viene poi evidenziato che , per il periodo antecedente l’82,
l’accusa non indica quale norma
generica o meglio regola o cautela avrebbe dovuto essere adottata e non risulta
esserlo stata, né fornisce alcuna prova
di un aggravamento dello stato di contaminazione preesistente.
Capitolo 3.2
Dalla contaminazione da sostanze tossiche del suolo e
sottosuolo nell’ambito dell’area di insediamento del plesso industriale, in
relazione allo stato delle c. d
discariche interne (rilevante in termini di disastro innominato colposo) alla
contaminazione delle falde acquifere e
delle acque dei pozzi che ad esse attingono (rilevante in termini di
avvelenamento o adulterazione).
Della
efficienza di un processo di trasferimento orizzontale della contaminazione dalla falde sottostanti
l’area di insediamento del plesso
industriale verso i pozzi siti a
monte e verso i canali lagunari finitimi
Viene fatta innanzitutto una descrizione della zona in cui insiste il plesso industriale in
questione ed evidenziato come sia
incontroverso che ,all’interno dell’area di insediamento del plesso industriale,
esistano antiche discariche di rifiuti
Richiamate le
risultanze precedenti per quanto
riguarda il rispetto delle normative in vigore viene quindi ulteriormente evidenziato come la gestione della massima
parte dei siti di discarica nominati in imputazione sia andata
materialmente esaurendosi prima della
entrata in vigore della disciplina transitoria
di cui al DPR n.915/82.
Su tale circostanza sono state raccolte le deposizioni
testimoniali di Spoladori –Pavanato
Gavagnin e Chiozzotto.
E prima dell’entrata in vigore del DPR 915/82 la attività di gestione dei rifiuti trovava la sua disciplina nell’art 216 T. U
.L. S e nelle vigenti previsioni di
piano Norme Tecniche di
attuazione del Piano Regolatore Generale di Venezia del 1956 che fornivano all’art 15 la seguente indicazione “ nella zona industriale troveranno posto
prevalentemente quegli impianti che diffondono nell’aria fumo , polvere
o esalazioni dannose alla vita umana ,che scaricano sostanze velenose
,che producono vibrazioni e rumori .
Varianti al piano regolatore sono state adottate dal Comune di Venezia solo nel marzo del
1990.
Riprendendo la descrizione del luogo in cui è stato realizzato il Petrolchimico viene ricordato che l’area di sedime, in cui
è insediato il complesso industriale , è stata in gran parte realizzata
mediante ’imbonimento delle zone di barena, attuato mediante la utilizzazione
di materiale dragato e rifiuti e residui di lavorazioni industriali fino agli
anni 70 e fino al raggiungimento di spessori medi di riporto di 2,5-3
metri sopra il livello del mare
E tale origine del
Petrolchimico risulta ampiamente documentata
in particolare dalla cosiddetta
convenzione Levi intervenuta con la Regia amministrazione che prevedeva . appunto l’utilizzo dei rifiuti industriale per imbonire le zone arenose .
Più della meta della superficie oggetto della convenzione
risulta essere oggi occupata dall’area
di insediamento del Petrolchimico.
ED in tale ambito –molti anni dopo - sono stati scavati il
canale industriale sud , il canale industriale ovest ed il canale
Malamocco-Marghera e dove le sponde non
sono protette o dove la protezione è
permeabile o danneggiata i materiali
vengono sistematicamente erosi
,entrando in soluzione nelle acque lagunari o disperdendosi sul fondo dei
canali stessi.
Dopo aver ricordato lo schema giuridico utilizzato
dall’accusa incentrato sulla figura del
disastro ecologico – art 434 c.p - e
della cooperazione colposa, tramite
omissione, assumendo la rilevanza di
una permanenza in atto delle condotte di reato (come omessa bonifica della
contaminazione preesistente) e la permanenza dei suoi effetti , osserva il
collegio come l’ipotesi sopradelineata
finisca per trascurare la prospettiva della rilevanza causale delle
condotte dei singoli imputati, cui viene riferito l’evento contaminazione – e
quindi si allontani da una schema
concettuale accettabile , quale un evento di danno alla cose causato per accumulo di differenti apporti nel tempo,
Non potendosi accettare la configurazione di cui sopra
sarebbe stato necessario accertare se i
singoli imputati avessero potuto recare
tramite la loro condotta – di gestione
della discarica attiva od omissiva – un ulteriore apporto rilevante in termini di aggravamento.
Non rileva invece
secondo l’ipotesi accusatoria accertare se ci sia stato o meno un apporto
causale della condotta di ciascuno ,trovando fondamento la responsabilità di
tutti gli imputati nella consapevolezza della esistenza dell’inquinamento e nella violazione dell’obbligo di bonifica.
Rimane cosi estraneo al programma della pubblica accusa la
verifica dell’apporto di ciascuno, durante
la gestione della discarica , all’aggravamento dello stato di
contaminazione preesistente.
Le tesi dell’ accusa sono comunque non solo non
condivisibili in diritto ma anche infondate in fatto
Vengono quindi ripetute le ragioni per cui risulta
irrilevante l’inquinamento delle falde - sottostanti il sedime delle discariche sia interne come
esterne e cioè sostanzialmente la loro inutilizzabilità per qualsiasi uso antropico e riportate le considerazioni tecniche su cui si basano le conclusioni di cui sopra ,mediante una descrizione dettagliata delle
condizioni del suolo e del sottosuolo e della struttura stratigrafica- dati tecnici questi su cui concordano tutti gli esperti delle parti.Da
atto poi il tribunale di come si sia
accertato che la contaminazione , partendo dal piano di posa dei
rifiuti, attinge le falde acquifere
sottostanti lo strato di caranto ,
fino a raggiungere il secondo
acquifero,ad una profondità superiore ai venti metri .
Ed, essendo
accertato il passaggio dell’inquinamento del sedime al primo e secondo
acquifero, tanto basterebbe secondo la
accusa a provare l’avvelenamento delle
acque – come risorsa alimentare - essendo irrilevante ai fini del reato di cui all’art 439 c.p la non
attualità della loro destinazione alla alimentazione , bastando quella
potenziale , che potrebbe rendersi necessaria ad esempio in particolari condizioni di siccità–
Tale tesi ,condivisibile secondo il Tribunale in linea di
principio , non lo è in concreto
perché le acque della prima
e della seconda falda sono
assolutamente inutilizzabili per
qualunque uso industriale o antropico, attesa la loro bassa portata- praticamente
stagnanti e le loro originarie
caratteristiche.
Anche pensando insussistente lo stato di inquinamento , le
falde sottostanti l’area del
Petrolchimico sarebbero
inutilizzabili per qualsivoglia uso.
Le prove raccolte consentono conclusivamente di ritenere con certezza che, nell’area di Porto Marghera, l’utilizzo delle falde entro i primi
30 metri di profondità non è in alcun modo ipotizzabile
Quanto alla tesi accusatoria del trasferimento orizzontale -
sia verso i pozzi a monte e verso i canali lagunari finitimi - del percolato di
discarica attraverso l’acqua di falda
inquinata, osserva il Tribunale come
l’inquinamento derivante dal sottosuolo
attraverso le falde non attinga le
acque e i sedimenti dei canali lagunari in termini realmente efficienti la loro contaminazione ,perché il flusso del
primo acquifero( il solo che comunichi con i canali non essendoci possibilità di comunicazione per il secondo
acquifero perché piu profondo del fondo della laguna ) verso la laguna è
insignificante ( si tratta di quattro litri/secondo lungo tutto il
perimetro dell’area di
insediamento del plesso
industriale 7-8 Km).
Al lento movimento delle falde- cui è attribuibile una
velocità di deflusso dell’ordine di grandezza del metro /anno - va poi aggiunto
per gli inquinanti il cosiddetto”coefficiente di ritardo”, dovuto
al rallentamento che la presenza di sostanza organica attua nei confronti dei contaminanti , che
tendono a fermarsi aderendo ai granuli di terreno, per cui la velocità di movimento dell’inquinante
è sempre inferiore a quella della falda anche di qualche decina
di volte.
Su tali dati concordano i tecnici di entrambe le parti che
indicano un valore approssimativo della portata della prima falda lungo tutto l’area del Petrolchimico dell’ordine di 4
litri/ secondo ed un tale modesto apporto risulta ininfluente in termini di rilevanza causale.
Alle conclusioni di irrilevanza della contaminazione
derivante dal percolato di discarica attraverso le falde acquifere, con riferimento alla inquinamento
dei sedimenti e delle acque, dei canali lagunari finitimi al plesso
industriale , fa seguire il Tribunale
una sintesi dei risultati degli esami analitici eseguiti , che hanno dimostrato la presenza di un inquinamento in
misura che va diminuendo, man mano che
si passa dalle acque di impregnazione
negli strati superficiali alle acque
della prima e della seconda falda ed
inoltre viene aggiunto che l’eventuale moto di trasferimento orizzontale della
contaminazione risulta ostacolato dall’ingressione dell ‘acqua marina , che determina una consistente diluizione
degli inquinanti
Altro dato certo risulta poi essere quello della insussistenza di un trasferimento orizzontale
della contaminazione dal sottosuolo, cioè dagli acquiferi situati sotto l’area
di insediamento del plesso industriale
, verso monte essendo dato un
gradiente che declina nettamente a scendere verso la laguna e peraltro
non sono stati trovati inquinanti di origine industriale nei pozzi
oggetto di campionamento.
Viene esaminata
anche la deposizione sul punto del teste Chiozzotto valorizzata dalla
difesa e contrastante con le diverse ma tra
loro concordi valutazioni dei tecnici di entrambe le parti , che viene
ritenuta dal Tribunale non
rilevante perché non aggiunge né
toglie nulla al quadro probatorio gia
esaminato e risulta inoltre
contraddetta dalle valutazione dei tecnici di entrambe le parti .
3.3 Dalla contaminazione da sostanze tossiche del suolo e
del sottosuolo in aree diverse da quella di insediamento del plesso
industriale in relazione alle
cosiddette discariche esterne ( rilevante in termini di disastro
innominato colposo) alla contaminazione
delle falde acquifere e della acque dei pozzi
che ad esse attingono,rilevante in termini di avvelenamento ( o adulterazione
)
Anche per le discariche esterne, la cui esistenza è
incontroversa, valgono innanzitutto le
considerazione gia fatte per quelle interne ,
sia per quanto riguarda tempi e
modi della loro gestione, sia per
quanto riguarda le loro caratteristiche
tecniche nonché l’inquinamento delle
falde sottostanti.
Osserva anche il tribunale ,quanto ai dati probatori
acquisiti che per 13 discariche esterne
mancano completamente i dati ,
e che mancano per tutte, al di fuori di
tre, i dati relativi allo stato delle
falde, risultando inquinate solo le acque di impregnazione , cioè quelle
immediatamente sottostanti lo strato di rifiuti e sovrastanti la linea del caranto.
Nei tre casi in cui risulta inquinata l’acqua della prima
falda non vi è però alcuna prova di trasferimento orizzontale, così come non
risultano mai prove di contaminazione da processi di lavorazione industriale
nelle acque dei pozzi oggetto di campionamento né vi è prova che l’inquinamento
del suolo e sottosuolo sia riferibile a fatti di gestione di rifiuti in discarica , attuati dagli imputati che
avrebbero gestito le discariche in conformità delle regole vigenti .
3.4
Della mancanza di fondamento giuridico della accusa di
concorso nel reato di disastro avvelenamento o adulterazione mediante omessa
bonifica o messa in sicurezza di siti contaminati da terzi antecessori in epoche
pregresse
Della carenza probatoria in punto di fatto degli addebiti di
ritardo nella bonifica mossi agli imputati di appartenenza Enichem
Della carenza probatoria pertinente agli addebiti di colpa
riferiti agli imputati di appartenenza Montedison.
Conclusioni pertinenti alle accuse fin qui considerate
Premesso che non risultano provate ,all’esito dell’istruttoria dibattimentale , condotte connotate da
antigiuridicità nella gestione dei
rifiuti in discarica da parte degli imputati di appartenenza Enichem esercenti potere d’impresa dopo il 1983,
rileva il Collegio come nei reati
casualmente orientati , quali il disastro innominato sia l’evento a svolgere
la necessaria funzione tipizzatrice nel
senso che devono essere provate non
solo le condotte contrarie alle regole generiche o specifiche , finalizzate
ad impedire il verificarsi dell’evento dannoso, ma anche il verificarsi dell’evento , in quanto il carattere colposo della condotta non può prescindere dalla esistenza di un
nesso di causalità definito.
L’accusa invece
assume unicamente come dato rilevante
la esistenza delle antiche discariche attive non oltre la fine degli anni 70 ,quando l’azione di
smaltimento dei rifiuti nelle forme
praticate dagli imputati era quella adeguata alle valutazioni
normative ,tecniche e di disciplina vigenti
La costruzione accusatoria , da cui deriva la responsabilità
e prima la riferibilità giuridica a ciascun imputato della contaminazione , si basa sulla
esistenza di un obbligo giuridico di impedire l’evento, come conseguenza della
posizione di garanzia rivestita dagli imputati , per il non verificarsi dell’evento disastro o avvelenamento o adulterazione , e con una sostanziale equivalenza della
azione all’omissione sotto il profilo
causale.
È infatti in questo quadro che si svolgono le
contestazioni relative a tutte le
condotte omissive contestate , per cui
viene ritenuto sufficiente accertare
che non sia stato impedito l’inquinamento, omettendo nelle
fattispecie la bonifica degli antichi
siti di discarica, a cui per la posizione di garanzia gli imputati erano
tenuti.
Centrale nella tesi accusatoria è infatti la esistenza e quindi la esigibilità
dell’obbligo di bonifica delle discariche realizzate e gestite in passato da
altri secondo l’art 25 D.P.R.915/82 .
Ma invero tale tesi
dell’accusa è in contraddizione
con l’indirizzo giurisprudenziale
,confermato dalla sentenza delle
Sezioni .unite C. C 5-10-1994, che ha affermato come diversa sia la realizzazione e la gestione della
discarica ,condotte che possono
assumere entrambe la forma del reato permanente , dal mero mantenere nell’area
i rifiuti scaricati quando la discarica
sia stata chiusa , condotta questa non riconducibile alla gestione delle
discarica in senso proprio .
L’accusa a sostegno della propria tesi richiama altre sentenze della C .C del 4-11- 1994 e 29-4-1997 che però riguardano fattispecie diverse , in
cui si discute di condotte contestuali alla
gestione delle discariche.
Conforme a quanto affermato dalle Sezioni unite è
invece anche la successiva sentenza
della C.C 2-7-1997 che afferma analogo principio , anche dopo l’entrata in vigore del D l vo 22/1997 ,che ha
abrogato l’art 25 del D. P R. 915/82
sostituendolo con l’art 51 comma
3
E sulla base della giurisprudenza citata il reato è
permanente , solo però per il tempo in cui l’organizzazione è presente e attiva
La norma incriminatrice ha riguardo solo alla
fattispecie commissiva , e l’equivalenza del non impedire al causare presuppone la esistenza
della giuridicità dell’obbligo di impedire, obbligo che non può derivare
dalla pura semplice disponibilità della discarica .
Ribadita la necessità di una norma agendi specifica , quale
fonte dell’obbligo di impedire l’evento
osserva il Collegio che le norme –altre dall’art 25 D .P R N n.915 /82-
richiamate dall’accusa come fonte dell’obbligo giuridico di
attivarsi per la bonifica dei siti contaminati da altri antecessori in nessun
modo possono essere ritenute tali.
Alcune hanno contenuto analogo a quella del D.P.R., quale l’art 10 L. 5-3- 1963 n. 366, l’art 9 L 16-4 -1973 n. 171 l’art 3 D.P.R.
20-9-1973 n 962 gli art 1 e 3 L .R. 23 –4 -1990 n.28
Richiamate tali norme ritiene l’accusa che pure il semplice
mantenere discariche contribuisca alla
dispersione di sostanze inquinanti mediante trasmigrazione passiva.
Il mantener discariche – osserva invece il Collegio-
concreta quella condotta omissiva che la C .C esclude possa integrare il reato
di discarica abusiva , per la ribadita
inesistenza di un obbligo di
attivarsi per la bonifica di siti contaminati da terzi antecessori e per
la necessità di individuare una
norma su cui fondare o da cui derivare
l’esistenza di un obbligo di fare , con la conseguenza che il non fare viene ad
integrare una fattispecie criminosa.
Non contengono
obblighi di disinquinare neppure le
altre norme generiche citate dal P. M
.quali l’art 1 L.16-4-1973 n171 , l’art 28 L 5-3 1963 n366 ,art 217 T. U. L .S
del 1934.
Trattasi in tutti i casi di norme che non prevedono un
obbligo generale di attivarsi per la bonifica , bensì conferiscono poteri di
intervento alla P.A., che può imporre
determinati obblighi di ripristino in
presenza di particolari situazioni.
Tra le norme richiamate vi sarebbe anche l’art 14 2° comma D
.L. vo .n132/92 -disciplina transitoria
della legge concernente la protezione delle acque sotterranee- che
riguarda i termini entro cui presentare la domanda per una nuova
autorizzazione ad effettuare operazioni di eliminazione o di deposito di
rifiuti, che comportino scarichi indiretti ,gia autorizzati dal d p r n915/82.
Tale norma secondo l’accusa consentirebbe di ritenere che,
anche il solo deposito di rifiuti in discariche chiuse ,avrebbe bisogno di
autorizzazione ai sensi del d.p.r
915/82 ciò che non è riguardando la
disciplina del citato D.P.R solo le attività di gestione dei rifiuti e non
situazioni di discariche gia esaurite
Altra fonte dell’obbligo di bonifica sarebbe stata
individuata nella Delibera del comitato interministeriale del 27-7-1984 al punto 7, che invece risulta chiaramente avere contenuto
diverso riferendosi ad impianti preesistenti, trasferiti o modificati, ma
ancora attivi e gestiti al momento delle entrata in vigore della nuova
normativa e non discariche o impianti
cessati prima della sua entrata in vigore .
Viene quindi ribadito che l’omissione è in realtà
inconcepibile senza pensare alla norma impositiva dell’agire , non tutte le omissioni rilevano ma solo
quelle violative di un dovere giuridico di fare .
Conferma ulteriore
delle inesistenza di un obbligo di bonifica
viene dall’art 17 D L. vo n22 /97 – decreto Ronchi- che per la prima
volta prevede l’obbligo di bonificare e ripristinare le aree inquinate nel caso
di superamento di determinati limiti di accettabilità della contaminazione.
Il silenzio della disciplina previgente porta invece ad escludere che sussistesse un obbligo
generale di bonifica.
Anche alla stregua della disciplina vigente sembra comunque
escluso un obbligo generale di bonifica del sito contaminato al di fuori della ipotesi di cooperazione
colposa
L’ipotesi
accusatoria rimane comunque anche in
fatto priva di fondamento risultando, dalle prove acquisite e dalla valutazione in concreto dei tempi e dei modi
di adempimento agli obblighi di disinquinamento, la legittimità della condotta degli imputati ,che avrebbero
rispettato le norme tenendo conto del momento
della loro entrata in vigore
,della estensione del sito inquinato della complessità degli interventi – vedi
confronto con altre analoghe esperienze e relazione Francani e Alberti in
data 20-4-2001.
In particolare non risulta giustificata la contestazione
specifica circa la intempestività degli interventi relativi alle discariche
di cui alle zone 31 e 32 in
quanto nessuna prova adeguata è stata fornita da chi ne aveva l’onere
circa ritardi od omissioni nella
esecuzione di interventi di disinquinamento.
Prima della entrata in vigore della normativa di cui al D. L
vo n 22/1997 ,a livello locale, era
stato raggiunto un accordo di programma, per la chimica di Porto Marghera e successivamente un accordo integrativo ,per meglio definire le procedure di
approvazione dei progetti e degli interventi, che risulta essere stato osservato da Enichem.Il Tribunale ribadisce
quindi e sintetizza i principi
generali, già prima esposti. ribadendo
la necessità che venga individuata la norma giuridica, di cui si addebita la
omissione, ed inoltre , trattandosi di reati di evento, che tra la ipotizzate
omissione e l’evento dannoso,risulti
accertata la esistenza del nesso di
causalità materiale .
Ciò che non è stato fatto né per gli imputati della
Montedison che gestirono rifiuti in
discarica quando tale pratica era abituale e non regolata , né per gli imputati
Enichem che ,dopo l’entrata in vigore della disciplina autorizzatoria, non risulta abbiano commesso alcuna violazione delle normative in vigore
Dopo avere quindi riaffermato che, prima dell’82, non
esisteva una disciplina normativa relativamente allo smaltimento dei rifiuti,
evidenzia il Tribunale che una “norma agendi”, intesa come comportamento,
che avrebbe dovuto essere tenuto e che
non lo è stato ,non risulta neppure enunciata o addebitata nell’ipotesi
accusatoria, e che il Tribunale ha comunque verificato che, le modalità di
gestione dello smaltimento dei rifiuti da parte degli imputati ,sono state
conformi a quelle seguite da chi svolgeva analoghe attività , e che
nessuna cautela o modalità
diversa risulta adottata da un agente modello, a cui confrontare la
condotta dell’agente reale .
Sul punto la enunciazione della accusa non si concretizza
mai ,rimanendo ferma ad un livello di indeterminatezza ,che interessa tanto
l’epoca precedente quanto l’epoca successiva all’entrata in vigore del D.P.R
1982/915,mentre una “ norma agendi” a cui confrontare la condotta degli
imputati, un parametro di diligenza esigibile dagli imputati usciti di scena
prima del D.P.R.915/82 avrebbe dovuto
essere comunque determinata.
Prima dell’entrata in vigore della suddetta normativa ,nessuna delle norme indicate
dall’accusa e relative alla salvaguardia di Venezia conteneva una
disciplina relativa al catabolismo nel suolo , in particolare anche la norma di
cui all’art 9 d.p.r n 962/73 aveva un contenuto del tutto generico, che non consentiva nè al privato nè alla P. A di
individuare le regole o le prescrizioni da adottarsi.
È solo nel periodo
compreso tra il 1970 ed il 1982 che prendono forma le prime iniziative di
gestione dei rifiuti secondo le tecniche allora conosciute e la Montedison, vigendo valutazioni tecniche
e di disciplina che rendevano problematica la scelta, si affidò all’unica
impresa che produceva impianti di incenerimento in Europa, commissionandole il
primo impianto di incenerimento di sottoprodotti clorurati organici nel 1972.
Il funzionamento dell’inceneritore è stato poi oggetto di
valutazione tecnica,nel contraddittorio delle parti,a causa del rilevato pericolo di provocare lo sviluppo
di diossine .
Ma sul punto rileva il Tribunale come l’accusa non sia riuscita a dimostrare che gli imputati
potevano, in base alle conoscenze tecniche dell’epoca , riconoscere le
condizioni iniziali rilevanti, proprie della formazione di diossine.
In ogni caso sul punto risulta dalla deposizione dei testi
che le temperature erano elevate e quindi il rischio di formazione delle
diossine ridotto e che le analisi fatte dall’università non avevano rilevato tracce di diossine.
Come poi si vedrà , la questione relativa allo smaltimento
delle peci clorurate ha assunto nel processo un particolare valore , atteso
che, secondo l’ipotesi accusatoria formulata, in base alla consulenza Ferrari
, tali rifiuti sarebbero stati smaltiti
tramite autobotti e bettoline fuori dal plesso del Petrolchimico, nel
canale Nord e nel canale Bretella
L’ipotesi è rimasta però priva di riscontri ed al
contrario proprio l’esistenza
dell’inceneritore proverebbe il contrario, considerato anche che, prima
di usare l’inceneritore, Montedison usava stoccare i rifiuti in
fusti,nelle immediate vicinanze dei
reparti interessati, per poi interrarli in discarica.
Le deposizioni testimoniali consentono di
ritenere provato che tutti i rifiuti erano stati depositati nelle discariche prima del 1982 e che successivamente lo smaltimento dei rifiuti era avvenuto solo
nei luoghi autorizzati e con modalità conformi a quelle previste dalla
prescrizioni accessorie alle autorizzazioni e comunque, quando le deposizioni
testimoniali non sono sufficienti, non risulta
provato il contrario.
In particolare risulta dai documenti prodotti dallo stesso
P. M che la discarica Dogaletto,era stata chiusa nell’estate 1971 , mentre la
discarica interna, sita in area 31-32 c .d Katanga , considerata particolarmente
rilevante per la sua estensione e per
il suo prolungato uso, risulta da precise deposizioni testimoniali , che era
stata esaurita e chiusa prima del 1983 – vedi la deposizione del teste Spoladori e dei testi Gavagnin e Mason -
dalle quali risulta che la discarica predetta
era stata aperta nel 1976 ed esaurita nel 1982.-
Non consta quindi
che siano state gestite dopo il 1983 discariche senza titolo o violando
le prescrizioni accessorie ;
una tale ipotesi non viene peraltro neppure esaminata dalla
accusa che basa le sue richieste
sulla equivalenza ,della mancata
bonifica delle discariche
definitivamente cessate in epoca pregressa all’assunzione del potere di
impresa da parte del singolo imputato,
alla gestione senza titolo.
Di fatto risulta
comunque che nel 1988 venne iniziata la bonifica della discarica Dogaletto e che successivamente venne dato allo stesso ingegner Gavagnin
l’incarico di mettere in sicurezza la discarica in sito Malaga e di studiare la
cauterizzazione necessaria per la bonifica della area 31-32 e dei
sedimenti de canale Lusore- Bretelle , antico corpo recettore degli scarichi di
provenienza del Petrolchimico.
Sintetizzando nell’ultima parte del capitolo le motivazioni prima esposte osserva conclusivamente il Tribunale come sia infondata l’ipotesi accusatoria per
quanto riguarda la contaminazione del suolo e del sottosuolo, rilevante in
termini di disastro colposo e per
quanto riguarda altresì l’accusa di avvelenamento o adulterazione delle acque
delle falde sottostanti ai siti di discarica
( Le pagine della sentenza
da numero 575 a 578 contengono una sintesi della motivazione sopra
esposta e contenuta nelle pagine da 477
a 574 ).
Parte terza
Capo
di imputazione n 2 Parte ambientale
Capitolo
3.1
La
deformazione della accusa operata dal Tribunale
Il
disastro innominato e l’art 437 c.p.
3.1 Il P. M evidenzia nelle premesse dell’appello la deformazione
dell’accusa operata dal Tribunale. Secondo il P.M, il Tribunale, pur dando atto
in questa seconda parte della
motivazione della sentenza, della
modifica dell’imputazione intervenuta all’udienza del 13-12 2000, ha come nella
prima parte della decisione
deformato le accuse del PM ed
erroneamente ritenuto che l’accusa avesse formulato delle contestazioni generiche e generalizzate.
A)
Esempi
della deformazione.
Mentre
risulta dal capo di imputazione, che i fatti sono stati contestati in modo
specifico, indicando i luoghi in cui l’inquinamento delle acque e dei sedimenti
viene ricondotto alla attività del Petrolchimico e addebitandone la causa a ciascuno degli imputati, che avrebbe contribuito a darvi origine o ad incrementarlo, in modo
altrettanto preciso e, con riferimento
ai periodi in cui ciascuno aveva svolto il proprio incarico all’interno
della azienda,il Tribunale ha invece parlato
di zona industriale nel suo complesso ,di decenni di catabolismo industriale ,di decenni di gestione del
plesso produttivo , usando termini che l’accusa mai aveva impiegato.
Al contrario di quanto affermato sono invece ben individuati nella imputazione i
luoghi inquinati : i siti delle discariche, le acque di falda,
i sedimenti e le acque dei canali e
specchi lagunari prospicienti Porto
Marghera, dal cui inquinamento sarebbe
derivato l’avvelenamento o
l’adulterazione della ittiofauna
e dei molluschi a causa della gestione degli impianti appartenenti al ciclo del cloro.
B) Non è poi
vero che sia stato contestato il disastro innominato permanente. ma solo la permanenza in atti degli
effetti,mentre le condotte risultano nel capo d’accusa chiaramente e
temporalmente ben delimitate, e di tanto invero ne aveva dato atto lo stesso
Tribunale con l’ordinanza del 2-2-2001 di rigetto delle eccezioni di
indeterminatezza delle imputazioni
sollevate dalla difesa.
C) Prima di passare ad una rassegna critica dei vari
punti della sentenza premette quindi il
P.M come siano condivisibili i principi generali enunciati dal Tribunale e sviluppati nella pagine 482 e 483- in materia di rapporto di
causalità,– art 40c.p. - secondo cui il rapporto di causa si identifica con
quello di un fattore e necessario,rispetto al verificarsi dell’evento per cui
, una volta accertatane l’esistenza ,rimane privo di rilievo, ai fini del giudizio penale, valutarne
l’intensità dell’apporto e – in materia
di concorso di cause – art 41 c. p-
secondo cui in presenza di piu
fattori causali ,addebitabili a più
persone, succedutesi nel tempo, è
irrilevante stabilire quale sia
più prossimo e quale piu remoto.
È infatti in
base a questi principi che sono state respinte
tutte le eccezioni di nullità sollevate dalle difese con riferimento a
profili di in coerenza interna o di vaghezza
della imputazione.
Non sono invece affatto condivisibili le successive deformazioni delle tesi dell’accusa , operate dal
Tribunale e che derivano dalla premessa
,secondo cui , avrebbero dovuto assumere rilevanza nelle indagini le condotte che avevano determinato condizioni di aggravamento dell’evento gia verificatosi;
aveva
infatti sempre l’accusa
parlato nel capo di imputazione di contributi dei singoli imputati alla
causazione e /o all’incremento dei diversificati inquinamenti ,individuandone
altresì la fonte negli impianti del
ciclo del cloro dettagliatamente indicati nel capo di imputazione.
E questi danni sono diversi da quelli generici e generali cui fa riferimento la difesa ed il
Tribunale.
D) Non contesta poi
il P.M , ed ancora una volta l’accusa viene deformata, che ciascuno
debba rispondere per come ha adempito alla garanzia da lui dovuta e nei limiti dell’apporto recato, non potendo mai
l’imputato rispondere di fatti che non siano casualmente riconducibili alla sua condotta, ma risultino
causati da altri.
Mai il P.M. ha preteso di addebitare a ciascun imputato, condotte diverse da
quelle sue proprie ,nè conseguenze che alle predette condotte non siano
riconducibili in base al nesso di
causalità
Non risulta inoltre
che il tribunale abbia preso in
considerazione il disastro contestato ai sensi dell’art 437 c.p.
Viene quindi avanzata la prima richiesta di riforma totale della sentenza di primo
grado.
Capitolo 3.2
Le norme esistenti prima del 1970
Il divieto di scarico dei rifiuti industriali
Presentazione della tesi fatta propria dal Tribunale
Osserva
poi il PM come i primi giudici, abbiano escluso l’esistenza , in materia di
gestione dei rifiuti industriali, di norme agendi prima del D.P.R.915/82;
abbiano
ritenuto la conformità delle modalità
di gestione dei predetti rifiuti da parte
degli imputati a quelle utilizzate da chi svolgeva attività simili;
abbiano
affermato che la gestione dei rifiuti prima dell’82 trovava la sua disciplina
nell’art 216 TULS. e nell’art 15 del P. R .G del 1956 che destinavano la zona industriale agli impianti inquinanti .
Contrariamente a quanto sopra affermato e che viene punto per punto contestato vi
erano invece delle norme di riferimento
in materia di rifiuti ed a queste
norme gli imputati avrebbero dovuto
attenersi .
Innanzitutto va
rilevato che agli imputati non viene contestata solo la illegittima gestione delle discariche ma anche la loro
illegittima creazione e che comunque,
anche prima dell’82, il deposito e la realizzazione delle discariche era
oggetto di limiti e divieti .
In primo luogo vi era la legge regionale del
Veneto 6-6-1980 n.85 che cosi statuiva
“ divieto di abbandonare e depositare
rifiuti di qualsiasi genere su aree pubbliche e private nonché scaricare o gettare rifiuti nei corsi d’acqua,canali, laghi,
lagune o in mare .
Su tale divieto nessuna motivazione si rinviene nella
sentenza del Tribunale
Altra norma indicata nel capo di imputazione ,che
vietava condotte idonee a produrre inquinamento era l’art 10 legge 5-3-1963
n.366 che non consentiva lo scarico
di rifiuti o sostanze che potessero
inquinare le acque della laguna , nonché
l’esercizio di industrie che refluissero in laguna rifiuti atti ad inquinare o intossicare
le acque .
Vi
era poi la L n.366/ 41, che è stata abolita
solo dal Dl vo 5-2-1997 n.22 e che
si occupava invero dei rifiuti solidi urbani , in particolare
rilevava l’art 17- che vietando in modo assoluto il gettito di
rifiuti ed il loro temporaneo deposito nelle pubbliche vie ,piazze ,terreni
pubblici e privati- e utilizzando il
termine rifiuti in modo del tutto generico , dimostrava cosi che la volontà del legislatore era quella di porre dei divieti per qualsiasi rifiuto
,senza distinzione in ordine alla sua natura o provenienza .
Ed una diversa interpretazione invero porterebbe all’assurdo risultato di ritenere
esistente dei divieti per i rifiuti , provenienti dalla abitazioni,e non
invece per i rifiuti provenienti dalle industrie.
Limiti e
regole relativamente al deposito dei rifiuti sono poi contenute anche nel
regolamento comunale di igiene del Comune
di Mira pubblicato nel 1954–nel cui
ambito risultano esserci cinque discariche
tra quelle di cui all’imputazione – che vietava ,all’art 36, di
accumulare sul suolo qualunque
materiale di rifiuto lurido o nocivo ,all’art 50 ,di depositare
prodotti chimici al di fuori dei
luoghi indicati dall’autorità comunale
,all’art 199 imponeva di costruire i
luoghi destinati a discariche con
materiale impermeabile per evitare qualsiasi inquinamento del sottosuolo, e nel regolamento comunale di igiene
del Comune di Venezia – art 6
-art 74- art 78.
Tutte le violazioni delle norme in esame comportavano
la applicazione delle sanzioni e delle pene previste dal T.U. leggi
sanitarie ,dal regolamento
stesso,nonché di quelle previste dal
CP.
Esisteva
quindi una regolamentazione locale che vietava l’esercizio di determinate
attività ritenute pericolose od
insalubri e comunque subordinava ad un provvedimento della P.A. l’esecuzione
dello smaltimento dei rifiuti industriali
Esistevano
poi altre due norme –art 9 e art 36 R D n 1064 del 8-10-1931- che
vietavano lo scarico di rifiuti industriali nella acque pubbliche : norme specifiche a tutela delle acque da
pesca rispetto ai rifiuti industriali.
Esistevano conclusivamente delle norme che dovevano
essere rispettate e che non lo sono
invece state , e non essendo state in alcun modo le discariche autorizzate . ne
consegue che quelle realizzate
,violando le predette normative, devono ritenersi contra legem.
Quanto all’art 15 del N. T. A del
P. R. G del 56 richiamata dal Tribunale rileva il P.M.
che è norma di natura esclusivamente
urbanistica,che non riguarda la possibilità di creare delle zone di rilascio,
scarico ,gestione incontrollata dei rifiuti ed che è comunque superata dall’art 10 L1963/366, norma di rango
superiore alla previsione regolamentare e di chiaro contenuto precettivo .
Inoltre, in
atti normativi successivi al 1956, che prevedevano l’ampliamento della zona
industriale di Porto Marghera, si prevedeva che il completamento dei cicli produttivi
dovesse essere attuato, seguendo il criterio connesso alle esigenze di sicurezza , igiene pubblica ed incolumità degli abitanti (art 8
lett d) L397-02-03 63
Errata risulta quindi la conclusione dei giudici
laddove ritengono che prima del 1982 non ci fosse alcuna normativa relativa
alla gestione dei rifiuti delle produzioni industriali .
Rifiuti tossico nocivi e scarichi idrici
3.3.1 Illecito scarico di rifiuti anche dopo
l’entrata in vigore del D.P.R 915/82
Ricorda innanzitutto il P.M. come, secondo il
tribunale, le discariche sarebbero state realizzate per la maggior parte prima dell’82 e, per quelle successive, le
norme in vigore sarebbero state sempre rispettate o comunque non risulta che
siano state realizzate senza titolo autorizzativo o con modalità incompatibili
con le prescrizioni accessorie
pertinenti alle autorizzazioni rese”
Ne conseguirebbe che gli imputati sotto questo
profilo non avrebbero commesso alcuna violazione delle disposizioni in materia
di gestione dei rifiuti .
Ritiene invece l’accusa che non sia vero che le discariche siano state
realizzate per la massima parte prima
dell’entrata in vigore del D.P.R.915/82 ed evidenzia come valgano a smentire la
affermazione del Tribunale sul punto la deposizione dell’ispettore Spoladori del 20-9-2000 e dello stesso
Gavagnin all’udienza del 16-3 2001
,nonché la elaborazione scritta dello Spoladori del 13-12 2000.
Né
possono essere ritenute
decisive sul punto le deposizioni del
teste Gavagnin che ha solo riferito di una razionalizzazione del sistema dei
rifiuti dopo il 1983 , aggiungendo che
,di conseguenza ,solo la serie di fenomeni macroscopici in precedenza
verificatisi,non sarebbero piu avvenuti; il teste predetto ha anche precisato
che le sue convinzioni erano basate non
su una conoscenza diretta dei fatti bensì sul fatto che da
quell’anno responsabile del servizio
Pas era divenuto il perito Ceolin.
Né dirimente poteva ritenersi la deposizione del teste Pavanato, che aveva
precisato di non essere in grado di escludere che il fenomeno delle
discariche abusive fosse cessato dopo il 1982.
Il Tribunale
ha poi affermato ,senza indicare le fonti di prova di queste affermazioni ,che
dopo il 1982 le discariche erano autorizzate e gestite secondo le
prescrizioni contenute nelle relative autorizzazioni ma l’affermazione del Tribunale con cui si ritiene che la normativa di riferimento per i
conferimenti a discarica successivi al
1982 risulti osservata è del tutto generica.
Capitolo 3.4
L’obbligo di attivarsi in relazione ai siti inquinati
da terzi antecessori
1) la posizione del Tribunale sul punto
Esamina
quindi il P .M la decisone del
Tribunale, secondo cui non rientrerebbe nel concetto di gestione della
discarica penalmente rilevante il solo mantenere nell’area rifiuti scaricati da
altri quando ormai la discarica era chiusa ,
decisione fondata sulla
sentenza della C.C Sezioni Unite del 5-10-1994
La questione
riguarda la imputabilità dei dirigenti ed amministratori indicati nel capo di
imputazione per la gestione di
discarica abusiva di rifiuti e
smaltimento non autorizzato, in violazione rispettivamente degli art 25 e 26 cpv DPR n915/82 , poi sostituiti
dall’art 51 D.Lgs n22/1997 ,nell’ambito della contestazione del reato di disastro innominato colposo.
Osserva quindi il P .M come la questione sia
stata effettivamente affrontata e
decisa con la nota sentenza della
Cassazione Sezioni Unite , a cui ha
aderito il Tribunale, ma come
successivamente sia intervenuta giurisprudenza di merito e di legittimità
difforme.
2) La
sentenza della Cass. SS. UU.
5-10-1994
Secondo la
citata sentenza non si configurerebbe alcun reato di gestione di
discarica abusiva o smaltimento non
autorizzato di rifiuti tossico nocivi nella condotta di chi solo mantiene in un ‘area rifiuti scaricati da altri , in assenza di qualsiasi
attiva partecipazione, e nonostante abbia
consapevolezza della loro esistenza.
Alla
affermazione di tale principio la Cassazione era pervenuta in base alle
seguenti considerazioni:
in primo
luogo un dato testuale ,
rappresentato dal fatto che il concetto
di gestione di discarica e smaltimento
dei rifiuti non consente di ricomprendervi
anche quello di solo
mantenimento degli stessi ; in secondo luogo la inesistenza nell’ordinamento di
un preciso obbligo positivo di porre
fine alla situazione antigiuridica in
corso , non essendo rinvenibile una norma che imponga al nuovo detentore la
rimozione dei rifiuti del terreno entrato nella sua disponibilità .
3) la nozione di gestione di discarica non
autorizzata alla luce del dato
testuale del DPR n915/82 e del D.LG.vo
n.22/1997: la gestione successiva alla chiusura.
Ritiene invece il PM che la decisione della
Cassazione del 1994 non sia condivisibile
alla luce di un attento esame delle normativa di settore sia statale come comunitaria .
Innanzitutto
va esaminato il DPR 915/82 ed in particolare
gli art 10 e16 che contengono
anche delle prescrizioni che riguardano
la fase di chiusura, successiva all’esaurimento dell’impianto e relativa alla
sua messa in sicurezza.
E da tali
disposizioni risulta in modo inequivoco che, anche dopo la chiusura, è
ravvisabile un esercizio ossia una gestione della discarica di rifiuti tossico
nocivi e che ,anche tale fase è ritenuta importante ,in quanto il legislatore
impone alla autorità di controllo di
dare precise prescrizioni da osservare
proprio in tale fase,mentre alcune prescrizioni sono gia contenute nel testo dell’art 16 quali : la ricopertura della discarica ,il
riutilizzo dell’area.
Ed il successivo Dlgs n 22/1997 conferma tali prescrizioni là dove ,nel fornire una
definizione di “gestione dei rifiuti”,
vi include espressamente il controllo delle discariche e degli impianti di
smaltimento dopo la chiusura , attribuendo al
gestore del sito precisi
obblighi e responsabilità .
E non
può certo dubitarsi del fatto che tali
obblighi ,nel caso di cessione della proprietà e della gestione della
discarica,si trasferiscano in capo al
nuovo proprietario del sito .
La diversa
interpretazione fornita dalla Cassazione porterebbe alla assurda conseguenza
che chi riceve una discarica
autorizzata ,sarebbe tenuto ad
osservare determinate prescrizioni ,che non sarebbe invece tenuto ad
osservare chi subentra in una
discarica abusivamente realizzata .
4) La
delibera interministeriale 27-7 1984 e l’obbligo giuridico di attivarsi per
evitare l’inquinamento da percolato :
il reato di gestione di discarica abusiva in forma omissiva.
In relazione agli
obblighi di gestione della
discarica ,anche quando la discarica è stata chiusa , osserva la accusa come
rilevi anche quanto stabilito dalla Delibera interministeriale del 27-7-1984-
contenente disposizioni per la prima applicazione del DPR n915/82- che al punto
4.2 cosi testualmente stabilisce, con
riferimento allo stoccaggio definitivo di discariche di prima e seconda
categoria “ i sistemi di drenaggio e captazione del percolato,
nonché l’eventuale impianto di
trattamento del medesimo dovranno
essere mantenuti in esercizio anche dopo la chiusura della discarica stessa e a carico del gestore di
quest’ultima ,per il periodo di tempo che sarà stabilito dall’autorità
competente “
Prescrivendo la delibera degli obblighi a carico del
gestore della discarica , per impedire lo sversamento del percolato anche dopo
la chiusura, si configurano i reati, a
carico di colui che non li adempie, di
cui agli art 25 e 26 D P. R n.915/82 come fattispecie omissive improprie in
forza della clausola di equivalenza
dell’art 40 capoverso c.p .
Risulta
quindi chiaro il vizio logico contenuto
nella sentenza della Corte di Cassazione, in quanto quand’anche non fosse possibile configurare un obbligo di rimozione dei rifiuti a carico
del detentore di un discarica chiusa, ciò non significherebbe certo la
inesistenza a suo carico di un obbligo
di porre fine alla situazione giuridica in corso, impedendo il protrarsi o l’aumentare del degrado ambientale .
Esisteva
pertanto, anche in base alla disciplina normativa all’epoca
vigente, un obbligo giuridico di attivarsi affinché i rifiuti fossero posti e
mantenuti nelle condizioni di massima sicurezza, in particolare sotto il
profili dell’inquinamento da percolato, finchè non perdevano la loro
capacità lesiva dell’ambiente.
Secondo
il Tribunale invece un obbligo di
bonifica, a carico di chi subentra nella detenzione di una discarica chiusa,
sarebbe stato introdotto solo dalla legge Ronchi , mentre invero, a parte la introduzione di un obbligo
specifico di bonifica a carico di chi subentra nell’area in cui altri hanno
abusivamente smaltito rifiuti,attuata dalla successiva normativa, già il
DPR.915/82 e la citata Delibera Interministeriale del 27-7-1984 stabilivano un
obbligo di vigilanza e mantenimento in sicurezza della discarica ,obbligo che viene solo ribadito dall’art 28 D
Lgs n 22/97 , che espressamente richiede che, l’autorizzazione all’esercizio
delle operazioni di smaltimento,
prescriva le modalità di messa in sicurezza , chiusura e ripristino
degli impianti esauriti.
4) La
interpretazione della normativa statale alla luce della disciplina comunitaria
La suddetta
interpretazione della normativa statale
risulta in linea con la disciplina comunitaria- Infatti una disposizione base della
normativa comunitaria in materia di rifiuti
l’art 4 della Direttiva 75/442/CE
stabilisce che gli stati membri
devono adottare tutte le misure necessarie
per assicurare che i rifiuti siano recuperati o smaltiti senza pericolo
per la salute dell’uomo e senza usare procedimenti che potrebbero creare
rischi per l’acqua ,l’aria ,il
suolo ed in base a tale normativa la
Corte di giustizia ha ritenuto sussistere a carico del detentore di un’area
utilizzata in passato come discarica abusiva , l’obbligo di adottare le misure
necessarie per impedire la protrazione del degrado ambientale
6) La giurisprudenza di legittimità e merito
successiva
Per tali motivi la sentenza della CC.SU. del 5-10-94
non può essere ritenuta soddisfacente ed in senso contrario si sono
infatti gia pronunciate altre sezioni
della Corte - Sez III 11-4-1997 imputato Vasco- C.C. Sez III 4-11- 1994 imputato
Zagni -C .C 17-12- 1996 n 8468 –
C.C Sez III 11-4-1997 - nonché giudici
di merito .
L’accertamento della responsabilità andrà quindi verificato in
concreto attraverso l’accertamento della consapevolezza della esistenza della
situazione antigiuridica ,della conoscenza del protrarsi nel tempo dell’offesa
al bene giuridico protetto e della sua esposizione a pericolo di ulteriore
degrado , nonché della volontarietà della persistente condotta del soggetto.
E nel caso di specie non può dubitarsi del fatto
che i dirigenti e gli
amministratori,succedutesi dopo la cessazione dei conferimenti, pur sapendo che
esistevano numerose discariche abusive di rifiuti tossici, ed avendo di
conseguenza consapevolezza del rischio di contaminazione del
suolo,sottosuolo e delle falde
idriche e della laguna non abbiano posto termine né limite alcuno
alla situazione giuridica in corso ed ai suoi
effetti .
Le prove in atti relativamente alle predette
circostanze sono numerose e sono state presentate al tribunale dall’Ispettore
del corpo forestale Spoladori ,dal maresciallo della Guardia di Finanza Porcu
e da altri testimoni, nonche dai consulenti tecnici dell’accusa .
Significativa,
anche se non come prova , della conoscenza da parte degli imputati del
grave degrado ambientale di Porto
Marghera è anche la intera vicenda definita American Appraisal nell’ambito
della quale è emerso che tutti erano a
conoscenza del grave degrado ambientale .
1)
sulla utilizzazione delle falde
Dopo
avere ricordato quanto affermato dal Tribunale sul punto e cioè la
inutilizzabilità delle acque di falda-attinte per moto verticale dal percolato
di discarica - per qualsiasi uso alimentare o antropico ,osserva la pubblica accusa come risulti invece
provato da numerosi documenti- vedi
indagine idrogeologica del territorio provinciale del 1998- che in tutta l’area lagunare
esistono pozzi che attingono alle prime falde del sistema idrogeologico
veneziano, più profonde di 10 metri,
per un utilizzo dell’acqua a diversi fini.
Ne consegue che pur considerando la modesta quota di
risorse attribuibili ai pozzi superficiali, contrariamente a quanto
affermato dal Tribunale,anche attualmente, il complesso delle falde
minori, oltre i 10 metri di profondità , era utilizzato proprio per usi
alimentari e continua ad essere
utilizzato per usi antropici.
2) circa il
trasferimento degli inquinanti e le
caratteristiche idrogeologiche del sottosuolo del petrolchimico
Dopo avere
ricordato che,secondo il Tribunale ,le acque di falda risulterebbero
pressoché stagnanti e la permeabilità complessiva del sottosuolo bassissima , dell’ordine di 10-4 cm/S
,fino ad una profondità variabile tra i 2 ed i 6 metri , per la presenza di
materiale di riporto e di rifiuti
fangosi , ed a causa del banco di sabbia prevalentemente fine e limoso , tra gli 8 e i 15 metri , rileva
il P .M come il tribunale abbia utilizzato un valore errato perché ha confuso l’unità di misura , utilizzando l’unita
cm/s anziché m /s .
In ogni caso i valori di questo ordine di grandezza
rientrano tra quelli di grado medio con drenaggio buono.
Osserva
ancora il P:M come da questa erronea valutazione del tribunale ne conseguono altre e come in ogni caso la complessità delle indagini,in
relazione alla variabilità del terreno, renda comunque difficile un
accertamento preciso dei valori di permeabilità .
Le
affermazioni del Tribunale comunque si pongono in contrasto con quanto dallo
stesso successivamente ritenuto –vedi pagina 522 –525- laddove si da atto del
fatto che la contaminazione riesce ad attingere le falde acquifere
immediatamente sottostanti lo strato di caranto, sino a raggiungere il secondo
acquifero ad una profondità superiore
ai 20 metri.
Contraddittoria è anche la affermazione del Tribunale laddove, prima riconosce in
astratto la idoneità delle acque di falda ad essere oggetto di tutela penale ai
sensi degli art 439-440 c. p. in quanto la destinazione alla alimentazione non
implica certo la potabilità delle acque di falda e poi lo esclude in
concreto, affermando che la ragione della esclusione consiste nella circostanza
che si tratta di acque di falda inutilizzate per il consumo umano . Non è poi vero che la portata delle acque
di falda sia insignificante in quanto se si parla dell’acquifero superficiale
solo dal Petrolchimico escono 4 l/s (per quanto inquinati)che vuol dire 345600
litri / giorno , e 126 milioni
di litri/anno.
E ci sono poi
le centinaia di pozzi ,fino a 10 metri ,citati dalla provincia, certamente di interesse pratico anche se modesto .
Ed ancora
male interpreta il Tribunale le conclusioni cui perviene il consulente
tecnico della difesa, relativamente
alla bassa portata ed alla cattiva qualità originaria delle acque ,che le renderebbe inutilizzabili a prescindere dall’inquinamento, e cioè anche
se l’inquinamento non sussistesse, in quanto estende la predetta valutazione
del consulente Dal Prà, riferita solo
alla falda superficiale, al complesso di falda superficiale, prima falda
e seconda falda .
Ed infatti,
a conferma dell’errore in cui è incorso il tribunale, si evidenzia come
la salinità della seconda falda non risulta sussistere .
In ogni caso
deve osservarsi come le acque salmastre possano essere utilizzate per
uso agricolo sopportando alcune coltivazioni
elevate quantità di sali , per cui anche le acque salmastre –senza
contare la dissalazione –costituiscono una risorsa per l’uomo a meno che non siano inquinate .
Anche la
affermazione ,secondo cui la portata massima estraibile è di un decimo di litro
al secondo e quella secondo cui l’utilizzo delle acque sotterranee finirebbe
per richiamare acque salate , si riferisce solo alla prima falda ed è
informazione di carattere marginale , ristretta all’area indagata, che difficilmente può essere estrapolata
all’intero stabilimento considerata la
notevole complessità e diversità dei depositi presenti -vedi
sul punto la relazione
Aquater-Basi-96 pagina 25 -
Ed egualmente
la affermazione, secondo cui l’utilizzo per i primi 30 metri delle falde, non
sarebbe ipotizzabile, perché in tempi brevissimi si prosciugherebbero a causa
del loro ridotto spessore , è affermazione apodittica e indimostrata.
Si deve quindi concludere che le dimensioni adottate
dalla difesa per proporre i propri modelli sono minimali e che il Collegio è stato indotto in errore .
Erronea e
travisante è stata poi anche la valutazione del Collegio circa l’andamento dei flussi sotterranei.
Il Tribunale ha infatti ritenuto che l’impatto degli
inquinanti, veicolati dalle acque di falda
sottostanti le aree di discarica interna , sulle acque e sui sedimenti
dei canali finitimi all’area di insediamento del plesso industriale ,secondo un
processo di trasferimento orizzontale , avrebbe un andamento degradante verso
sud est, salvo il rilievo che le acque di impregnazione , e cioè la falda superficiale , potrebbe degradare anche verso Nord.
Ed invece
risulta incontestato, dalla ricerca Aquater Basi 96 e 2000, che le falde hanno
un andamento centrifugo, in particolare nella zona di ponente dell’area di
insediamento del Petrolchimico,corrispondente
alle aree in cui si trovano le discariche isola 31 e 32 .
Anche la
affermazione secondo cui, il flusso del primo acquifero verso la laguna è
insignificante perché nella peggiore delle
ipotesi si tratta di 4 L/S lungo tutto il perimetro dell’area di insediamento
del plesso industriale ,non è condivisibile
in quanto in ogni caso 4l/s fanno 120.000 metri cubi /anno.
E comunque la ridotta mobilità delle acque al
contatto tra falde e acqua di mare, che
è del tutto ovvia per ragioni fisiche ed idrodinamiche , specie con i gradienti
in gioco, è comunque dell’ordine di
qualche metro / kilometro.
Il trasferimento orizzontale seppure lento comunque
avviene e come dimostrato dai flussi registrati da Aquater Base 96 e 2000.
Occorre poi ribadire
che i 4 L/S non escono dalla prima falda ma da quella superficiale e che i anche in questo caso il Tribunale è
incorso in equivoci ,utilizzando spesso il termine generico di falda del
Petrolchimico e non è comprensibile la
ragione per cui il Tribunale abbia considerato ancora più basso il flusso delle
acque sotterranee ed affermato che le
stime degli esperti indicano un valore approssimativo della portata della prima
falda , lungo tutta l’area del Petrolchimico dell’ordine di 4/litri al secondo .
I dati
elaborati dalla struttura pubblica ,sulla base di elementi conosciuti in
letteratura e contenuti nel Piano direttore 2000 , avrebbero comunque dovuto
essere confrontati e verificati con i dati strumentalmente attestati dai
puntuali rilievi Aquater Basi che sono certamente più completi e aggiornati .
Deve comunque
essere ribadito secondo l’accusa che i
4l/s non escono dalla prima falda bensì
da quella superficiale e che il consulente della accusa Nosengo ha
utilizzato gli stessi dati del
consulente Francani ,giudicandoli come valori minimi di un range in realtà più ampio .
Indimostrata
è infine la affermazione secondo cui , oltre alla bassa permeabilità del
sottosuolo,alla stagnazione delle falde sottostanti le discariche interne, alla portata insignificante della falda
stessa concorrerebbe ad escludere
l‘apporto inquinante della acque di falda (per quanto riguarda sedimenti e
acque dei canali lagunari a tale area
finitimi) la enorme diluizione che
comunque le stesse subiscono ad opera di altri apporti .
La
affermazione relativa alla diluizione si basa sua un errata
interpretazione del lavoro del prof
Perin che indica un valore di apporto
dalla gronda lagunare di 600 m c/s come corrispondente all’apporto
massimo ,mentre nella relazione Francani cui si riferisce il Tribunale questo
valore viene considerato un valore medio, con la conseguenza che il
ragionamento relativo alla enorme diluizione risulta errato.
Il Tribunale ha infine omesso di considerare che in
ogni caso la pretesa -ma inesistente diluizione- potrebbe riguardare solo le acque superficiali e non certo quelle della falda piu profonda
.
Conclusivamente risulta accertato che le falde hanno
capacità di movimento ;
che la falda superficiale raggiunge i canali
perimetrali con la velocità almeno di 4l/s e
che dove manca il caranto
inquina ,con trasferimento verticale , la prima ed in misura piu ridotta
anche la seconda falda ;
che la prima
falda a sua volta , dotata di gradiente generato dagli afflussi
provenienti dalla sue zone di alimentazione
poste a monte, si muove dove può e cioè verso i canali perimetrali abbastanza profondi da raggiungerla e, se vi sono ostacoli e
permane un gradiente in direzione diversa da quella generale NW-SE ,la prima
falda si muove in altra direzione( la
citata direzione Nord ) secondo il ben
noto, in idraulica, fenomeno del rigurgito , che è il moto retrogrado di un
flusso ostacolato.
La sentenza conterrebbe dunque errori e contraddizioni
e trascurerebbe le valutazioni di
American Appraisal , dei dati
Aquater base 95-96-2000 ,né tiene in alcun conto le valutazioni e note critiche
del prof Nosengo, che ha ritenuto le indagini svolte insufficienti a
valutare correttamente sia la permeabilità
del terreno come la validità dei modelli di simulazione.
3.9.1
Trasferimento orizzontale di inquinamento verso la laguna e contaminazione
della falda sottostante il
Petrolchimico e dei suoli.
Osserva il
P.M come, secondo il Tribunale, risulti incontroverso che da tutta l’area del
Petrolchimico derivi un apporto per moto di trasferimento orizzontale dalla
prima falda verso i canali della zona industriale di quattro litri al secondo .
Quantitativo solo apparentemente piccolo
perché corrisponde a 345600 litri al
giorno ed in termini di apporto annuale
a 126 milioni di litri all’anno .
Le
misure di concentrazione delle diossine nelle acque sottostanti il
petrolchimico , effettuate a cura dell’Enichem in relazione al disposto del DM 471/99 sulle bonifiche.
Le analisi sulle acque sottostanti il Petrolchimico
sono state fatte solo per 6
campioni anche sulle diossine e ,su 3
campioni, sono state rilevate concentrazioni superiori ai limiti di cui alla tabella del DM 471/99, di cui per un campione in
modo molto elevato .
In un
campione è stata rilevata anche la presenza della diossina 2,3,7,8 –TCDD ad
elevato livello.
E se da un
controllo su solo 6 campioni è risultato un superamento elevato in due casi,
non può considerarsi che il superamento sia un fatto solo sporadico e
raro,secondo calcoli statistici il superamento dei livelli potrebbe essersi
verificato in un percentuale compresa tra il 20% e l’80 % e quella del livelli piu elevati potrebbe essere stimata
come compresa tra circa il 9 %e il 67 %.
L’intervallo
dei valori misurati è tra 2.31 p g /L(I-TE) e 634 p g/L(I-TE) e la media è
circa 112 p g/ L(I-TE) ( anche non considerando il dato piu elevato la media
risulta di circa 8 PG/I (I/TE) con un valore sempre molto elevato.
L’appello
contiene quindi una descrizione per ciascun campione di acqua dei singoli
valori delle diossine misurate .
L’impatto del trasporto verso la laguna di 4 litri al
secondo delle acque sottostanti il petrolchimico
Anche il valore minimo misurato nelle acque di falda
pari a 2,31 p g (I-TE/litro)è superiore
al valore limite proposto dalla
Commissione consultiva tossicologica nazionale
(CCTN) per gli scarichi di PCCD e PDDF nei corpi idrici pari a 0,5 p
g(I-TE/litro).
Con riferimento alla contaminazione media dell’acqua
di falda ,di circa 112 p g/I (I-TE) ed un rilascio di 4 litri /secondo verso i
canali ovvero 126 milioni di litri/anno, il quantitativo di diossine
trasportato verso i canali risulterebbe dell’ordine di circa 14 miliardi di p g
(I-TE/anno) pari a circa 14 mg I-TE
/anno).
Questo
apporto inquinante diventa significativo con riferimento alla gia esistente
contaminazione dei sedimenti della laguna di Venezia.
Anche un solo milligrammo ( corrispondente a un
miliardo di picogrammi) può contaminare ogni anno, ad un livello pari a10 volte
quello di fondo, un quantitativo di sedimenti pari a100 tonnellate .
Ed un milligrammo rappresenta un valore che è 14
volte inferiore a quello che sarebbe
immesso in laguna nell’arco di un anno con il trasporto di 4 litri / secondo di
acque contaminate al valore medio misurato a cura dell’ENICHEM .
A pagina 526
delle sentenza si dice che le falde di cui si discute non possono fornire
portate compatibili con qualsiasi l’uso e ciò è certamente vero,soprattutto per
l’inquinamento delle acque inaccettabile secondo il DM 471/99.
La portata è
invece un fattore molto meno rilevante
in quanto possono esistere usi che richiedono un quantitativo limitato di acqua al giorno.
Premesso
che i dati di contaminazione del suolo da diossine sono presentati in termini
di ITE, senza differenziare i vari congeneri ,risulta che i livelli di diossine
e composti simili rilevati sui diversi
strati di suolo nell’indagine promossa
da Enichem, in relazione a quanto previsto dal DM 471/99 su un totale di
30 siti campionati superino in otto siti il livelli previsti dal D. M.
citato (limite per le aree industriali
pari a 100 n g I-TE/kg) ;
che in 6
campioni la contaminazione supera 1000 n
g I-TE/kg con valori massimi di circa 3300,3748 e 3507 n g I-TE/kg ,piu di 30
volte superiori ai limiti .
Trattasi di percentuali di superamento dei limiti non
irrilevanti che dimostrano come
esistano strati non superficiali dell’area del Petrolchimico contaminati
a livello superiore della cosiddetta Zona B di Seveso .
Trattasi di valori di inquinamento del suolo che
trovano corrispondenza in quelli dell’acqua, in quanto, tenuto conto della
scarsa idrosolubilità delle diossine e della loro elevata affinità con il
carbonio organico contenuto nel suolo , i
livelli nell’acqua risultano
inferiori piu di 10.000 volte rispetto a quelli del suolo .
Ed i livelli accertati nell’ acqua e nel suolo sono
coerenti con questa ipotesi.
Segue
nell’appello l’elenco degli 8 campioni in cui sono stati rilevati i valori
superiori ai limiti di cui al D. M 471/99.
In conclusione : per quanto riguarda le acque
sottostanti il Petrolchimico i dati indicano per i 6 campioni livelli da 2.31 p
g I- TE litro a 634 p .g I- TE litro
con un valore medio di circa 112
p g I-TE /litro , 3 campioni su 6
superano il limite del DM 471 /99 e
tutti i campioni hanno concentrazioni non compatibili con il criterio proposto dalla
Commissione Consultiva Tossicologica nazionale per gli scarichi idrici .
Calcoli elementari indicano che 4 litri al secondo
corrispondono a 345.600 litri al giorno
e circa 126 milioni di litri /anno.
Un tale trasferimento d’acqua inquinata comporta la
contaminazione di 100 tonnellate di sedimento ad un livello pari a10 volte
quello di fondo.
Le
concentrazioni rilevate nelle acque sono quelle che erano prevedibili in base
al rapporto con il grado di contaminazione del
suolo e sottosuolo.
I suoli inquinati rilasciano inquinanti nelle acque
ed anche se il rilascio d’acqua è quantitativamente limitato risulta di notevole impatto ambientale in relazione
alla tossicità delle sostanze in esame.
La affermazione del tribunale sul punto non può di
conseguenza essere condivisa, perché se è vero che il flusso è limitato è anche
vero che il carico inquinante è rilevante e che comunque il flusso d’acqua in
un anno è considerevole..
II parte -sentenza
Capitolo quarto
La compromissione del sedimento dei canali dell’area
industriale ( rilevante in termini di disastro colposo e come antecedente
dell’avvelenamento del biota su di esso
vivente
4.1 Premesse
Secondo il P.M l’evento disastro consisterebbe nella alterazione dell’ecosistema dell’area industriale e nella contaminazione dei
comparti ambientali che lo costituiscono attinti dal catabolismo del
Petrolchimico
Secondo l’ipotesi accusatoria il sedimento dei canali
dell’area industriale sarebbe stato
attinto dal catabolismo del Petrolchimico-
con effetti rilevanti in termini di disastro colposo - e dal sedimento
la contaminazione si sarebbe estesa al
biota ( su di esso vivente) con effetti rilevanti in termini di avvelenamento
L’inquinamento sarebbe causato da
microcontaminanti – organici ed inorganici- in particolare diossine che ,
per la costante presenza di
“octaclorodibenzofurani,”troverebbero la loro matrice nelle filiera del cloro
ed i conseguenza nella produzione del Petrolchimico
La cosiddetta
impronta delle diossine denota la matrice della contaminazione, ed è improbabile che la matrice possa essere
individuata in altro tipo di produzione, in quanto le diossine derivanti da
altri processi produttivi, diversi dal
Petrolchimico, sarebbero diversamente connotate.
La
circostanza è confermata dalla corrispondenza delle impronte caratteristiche
del sedimento dei canali inquinati con quelle dei pozzetti interni al plesso
Petrolchimico .
L’accertamento
avente per oggetto la presenza nel sedimento dei canali delle diossine , dei
policlorobifenili ( PCB), degli idrocarburi policiclici aromatici (IPA) degli
idrocarburi clorurati,ammine aromatiche, nitrofenoli e metalli
pesanti,dimostrerebbe la sussistenza dell’evento di danno ambientale disastroso
Per
dimostrare il grado “disastroso” dell’inquinamento vengono fatti confronti tra
il sedimento dei canali dell’area
industriale ed il sedimento dei canali dell’isola di S.Erasmo
Per molti campioni risultano superati, ora per un
parametro ora per più parametri , i limiti della classe B) e talvolta quelli
della classe C) del Protocollo d’Intesa 1993 del Ministero dell’Ambiente
In particolare risulterebbero molto inquinati i
sedimenti del canale Lusore Brentelle- antico corpo ricettore degli scarichi di
provenienza del Petrolchimico- il bacino di evoluzione del Canale
Industriale Sud , per la concentrazione di IPA, la darsena
della Rana per la concentrazione di IPA di esaclorobenzene e di PCB.
Cause di contaminazione del sedimento sarebbero in
sintesi :
1) gli scarichi
incontrollati nel canale Lusore Brentelle , antico corpo ricettore di
quelli attivi fino alla metà degli anni settanta., salvo per quel che
riguarda taluni scarichi superstiti;
2) lo smaltimento delle peci clorurate trasportate con autobotti e bettoline in
tutte le acque dei canali industriali della prima e della seconda zona industriale;
3) gli apporti inquinanti recati fino all’attualità
dall”SM15 ( scarico principale di
provenienza del Petrolchimico) ritenuto responsabile della contaminazione dei
cd “Bassi Fondali” antistanti l’area di insediamento del plesso
industriale -dove comunque anche secondo l’ accusa i valori di
PCDD/F si riducono di tre ordini di grandezza rispetto a quelli della prima zona industriale.
Le prime due cause sarebbero pertinenti a fatti meno
recenti, la terza a fatti più recenti anzi al presente , in particolare l’accusa osserva come nelle
acque in uscita dallo scarico SM15 si rinvengano quelle sostanze che ,in
concentrazioni significative, si trovano nei sedimenti ,all’esterno del
Petrolchimico , in primo luogo le
diossine.
In tesi di accusa sarebbero attuali apporti rilevanti
di inquinanti
In
particolare la immissione di diossine
nelle acque dei canali finitimi al plesso industriale si sarebbe protratta almeno fino al1998.
Lo proverebbe il fatto che un campione prelevato dal
Magistrato delle acque nel 1998 avrebbe rilevato un valore di concentrazione –
150 picogrammi /litro- 300 volte superiore al valore limite per gli scarichi
industriali, proposto dalla Commissione consultiva tossicologica nazionale (per
diossine e furani) pari a 0,5 picogrammi /litro.
Gli scarichi del Petrolchimico sarebbero stati
effettuati in violazione del noto
divieto di diluizione - art 9 quarto e
settimo comma L n.319/76, come modificato dalla L n .650/79- stante la
confluenza di acque di processo e di
altre correnti nel principale scarico
del plesso industriale
prima del recapito nel corpo
ricettore.
Osserva ancora
l’accusa come decine di migliaia
di bollettini di analisi interne – dimostrerebbero il superamento dei limiti di
legge anche in epoca recente .
L’imputazione
addebita agli imputati lo scarico di fanghi, di catalizzatori esausti e
di altri sottoprodotti di risulta attraverso gli scarichi SM2e SM15, con
concentrazioni di nitrati e clorurati superiori ai limiti di accettabilità previsti
dal D.P.R n. 962/1973, normativa speciale per la con terminazione lagunare e tale condotta si porrebbe così in nesso
causale con il disastro e
l’avvelenamento del biota
Un ulteriore addebito di colpa , pertinente la
disciplina dei rifiuti ma rilevante anche
per quanto riguarda la gestione degli scarichi nelle acque , è quello
conseguente alla presenza di C .V. M nelle acque di processo e nei
reflui di provenienza dal Petrolchimico
,che . comporta la qualifica di tutti i rifiuti recapitati nel corpo
ricettore nel corso del tempo, anche
quelli convogliati attraverso gli
scarichi SM15 e SM2, come rifiuti tossico nocivi
Tanto
consegue al fatto che gli imputati non avrebbero dimostrato che ,nelle acque di
processo provenienti dagli impianti CV22/23 e CV 23/24 le concentrazione del
CVM fosse compatibile con le concentrazioni limite relative alla diossina
sostanza nominate nella tabella 1.1 allegata alla delibera del Comitato
Interministeriale 27-7-1984.
Tutti
i reflui avrebbero dovuto essere smaltiti come rifiuti tossico nocivi ,in forme
adeguate a quelle indicate dal d.p.r
915/1982( termodistruzione) e non nelle forme adeguate alla disciplina relativa
agli scarichi nelle acque
Le condotte sopradette integrerebbero i reati di
disastro innominato per i danni interessanti l’ecosistema nel suo
complesso,nonché quelli di
adulterazione e avvelenamento, estendendosi la contaminazione attraverso
l’inquinamento del biota alle risorse alimentari costituite da pesci e molluschi, suscettibili di essere immessi
nel mercato attraverso la pesca abusiva praticata nei luoghi . Il pericolo
per l’incolumità pubblica
sarebbe attuale e il reato di disastro innominato sarebbe permanente in atto
4.2 Illustrazione delle tesi di accusa sulla compromissione del sedimento dei
canali dell’area industriale veneziana
a causa dei microcontaminanti
inorganici ed organici rilevante in termini di disastro innominato colposo
Illustrazione delle tesi di accusa attinenti alla
sussistenza di una relazione tra tale
evento di danno e gestione del catabolismo nelle acque del <petrolchimico
(riferibili agli imputati)
Sinossi:
a) i dati della
contaminazione
b) profilo storico
degli scarichi attraverso il riferimento alla autorizzazioni rese dal magistrato alle acque
c) dell’attuale rilevanza dell’apporto
costituito dal flusso dell’SM 15”
principale scarico di provenienza del petrolchimico intermini di contaminazione
da diossine
d) tipicità dell’impronta delle diossine di risulta
dalla produzione del cloro
e) studio dei profili di congenere delle diossine presenti nei campioni di sedimento prelevati dai
canali dell’area industriale
f) confronto tra tali impronte e quelle relative
all’esito di analisi di campioni di fanghi prelevati da pozzetti del sistema
fognario del Petrolchimico
Alcuni dati sono incontroversi
La contaminazione del sedimento dei canali dell’area
industriale esiste ed è quella
descritta nel “Piano Direttore 1989
della Regione Veneto” che descrive la situazione qual’era negli anni della transizione del petrolchimico da Montedison a
Enichem evidenziando anche che la grave
situazione che aveva portato
l’ecosistema lagunare vicino al collasso agli inizi degli anni 70,appariva in miglioramento ,grazie agli interventi di depurazione già avviati e al miglioramento e riconversione delle tecnologie
industriali , ma non facilmente
superabile per quanto riguardava la
componente inglobata nei sedimenti.
Lo stato di compromissione del sedimento dei canali
dell ’area industriale è attribuibile al catabolismo industriale risalente nel
tempo ( vedi consulenti tecnici della
accusa Bonamin e Rabitti e
deposizione teste Pavanato e Ferrari ) tutte convergenti nel riconoscere che la
maggior parte delle sostanze inquinanti
è stata immessa in laguna nel
ventennio 50-70
Gli esperti dell’accusa – Baldassari - Bonamin e
Fanelli hanno accertato la presenza degli inquinanti di derivazione da processi
di lavorazione industriale oggetto di interesse processuale ( PCDD, PCDF, IPA,
esclorobenzene , metalli pesanti) e hanno individuato, nel contesto dell’intera
conterminazione lagunare, sei distinte aree di rischio , seguendo
l’andamento della concentrazione degli inquinanti e rilevando ,come da tutti
atteso ,per tutti gli inquinanti concentrazioni più elevate nella zona
industriale.
Nel canale Lusore Brentelle hanno rilevato alte concentrazioni di mercurio ed hanno altresì rilevato, nei campioni di
sedimento dei canali dell’area industriale, diossine che recano l’impronta del
cloro
Tanto premesso – trattasi di circostanze sostanzialmente
incontestate - osserva il
Tribunale come sia essenziale nel
processo accertare se tale situazione sia riferibile a fatto degli imputati-se
non altro in termini di aggravamento della contaminazione preesistente , e
come altrettanto essenziale nel
processo sia il verificare se tale situazione possa dirsi obiettivamente
riferibile al Petrolchimico degli anni interessanti l’imputazione .
Procede quindi il tribunale alla analisi del consulente dell’accusa Racanelli
Premesso che l’analisi è stata orientata su policlorodibenzodiossine,
policlorodibenzofurani PCDD/PCDF, policlorobifenili, PCB, idrocarburi
policiclici aromatici IPA, idrocarburi clorurati, ammine aromatiche nitrofenoli pesanti
e metalli pesanti; che degli esiti è stata fatta una valutazione
secondo i parametri del Protocollo
d’Intesa del 1993; che nessuna
distinzione è stata fatta tra la Prima e la Seconda Zona industriale ; che sono stati assunti i dati di sedimenti
superficiali campionati dal 1992 a tutto il 1999 con conseguenti
differenze influenzate dalle variabili
spaziali , temporali , analitiche – dipendenti queste ultime dai risultati ottenuti
da diversi laboratori , per cui sono
state considerate significative solo le differenze tra dati che variano per più di un ordine di grandezza; che quale
parametro di confronto sono stati presi i campioni prelevati in prossimità
dell’isola di S. Erasmo; che nella zona industriale sono stati fatti
campionamenti in sette punti denominati rispettivamente da S1, a S 7 e
tutti raffrontati ai parametri di cui alla colonna A),B)e C) del Protocollo
d’Intesa 1993 del Mistero
dell’Ambiente; sulla base delle indagini tecniche eseguite seguendo i criteri sopraindicati si sono
avuti i seguenti risultati: la presenza di Mercurio in misura superiore ai
parametri sopraindicati nel punto S 7- sedimento del Canale Lusore – Bretelle-
antico corpo recettore degli scarichi di provenienza del vecchio petrolchimico-
la presenza di esaclorobenzene HCB – sotto prodotto delle produzioni di
interesse processuale , composti clorurati – e presente in dosi massicce nelle peci clorurate.
In base a tali dati ritiene l’accusa che la contaminazione
del sedimento dei canali della zona industriale sia causato da pratiche di smaltimento dei rifiuti mediante getto
diretto nei canali mezzo di autobotti e
bettoline di provenienza del
Petrolchimico
Quanto sostenuto dall’accusa non risulta in alcun
modo provato per quanto riguarda il periodo di gestione del Petrolchimico da
parte degli imputati: –1970 –2000.
Le analisi evidenziano poi in particolare
percentuali che superano le
soglie del citato protocollo d’intesa
nei policlorobifenili –P C B- , nei Policlorodibenzodiossine policlorodibenzofurani PCDD/PCDF, negli Idrocarburi policiclici
aromatici tossici IPA , negli IPA
tossici nel piombo, nel rame ,
nell’arsenico - l’arsenico supera in quattro punti il livello dei protocollo –
ed il
c .t evidenzia che l’arsenico è
contenuto nelle ceneri di pirite- fanghi rossi- usati in antica data per
l’imbonimento dell’area di sedime della zona industriale.
Conclusivamente ora per un parametro ore per l’ altro
,talvolta per più parametri i campioni
di sedimento , prelevati dai canali della zona industriale , superano i limiti
di cui alla classe B del Protocollo d’intesa.
Per i campioni di sedimento superficiale prelevati
dai punti sotto indicati risultano superati i limiti di cui alla classe C dello
stesso protocollo
Il sedimento del canale Lusore Brentelle presenta un grado di inquinamento
più elevato che non è classificabile in base al protocollo e dovrebbe essere
gestito come “rifiuto tossico nocivo “
Segue quindi l’esame della analisi del consulente dell’accusa Ferrari
Il c t. accerta
innanzitutto che gli scarichi
erano autorizzati dal Magistrato alle Acque ;
che la
produzione dei clorurati avviene nel vecchio Petrolchimico .e che gli scarichi
versavano direttamente nel canale Lusore Brentelle senza alcun tipo di trattamento;
che verso la metà degli anni 70 la produzione dei clorurati si spostava nell’area del
nuovo Petrolchimico e che a questa
stessa epoca risalgono i primi impianti
di trattamento e termocombustione dei reflui clorurati denominati CS30 e CS28.
Il consulente
ha poi indicato, elencandoli, gli impianti che
scaricavano direttamente nel
canale Lusore –Bretelle :
A impianto cloro- soda avviato nel 1951 e chiuso nel
1972
B impianto di produzione del CVM e cioè il CV1-
chiuso intorno al 1970- il CV10
chiuso nell’81
C altri impianti, fino alla realizzazione
dell’impianto chimico fisico biologico SG31 avvenuta nel 1978;
D le
produzioni di tetracloroetano e trielina ,cloruro di benzile e benzale scaricavano le acque reflue con recapito nel canale
Lusore B fino all’avvio dell’impianto di strippaggio dei clorurati CS30
E in realtà incontroverso che il canale Lusore
Brentelle sia stato gravemente
compromesso dal catabolismo del Petrolchimico
e ciò nel tempo, per cui si sarebbe dovuto verificare se si
trattava di tempi storici che
trascendevano o meno l’imputazione
L’accusa non si è invece posto il problema di accertare
se si tratta di tempi storici che superino quelli dell’imputazione ,né
di verificare , se vi sia una relazione tra la condotte degli imputati ed una qualche forma di aggravamento della
contaminazione preesistente.
Sul piano
normativo viene evidenziato che la
legislazione speciale per la salvaguardia di Venezia – l.366/73 l .171/1973
DPR 962/73 – entra in vigore tardivamente essendo stati i termini per la installazione di impianti di
depurazione dei reflui in laguna prorogati
fino a tutto l’1-3-1980 e che
prima di questa data non possono considerarsi operativi i parametri di accettabilità degli scarichi di cui alle
tabelle allegate al D. P R. 962
/73 e che neppure altrove opera la
legge Merli
Consta che al
1-3-1980 gli scarichi di provenienza del Petrolchimico . erano muniti di
impianti di trattamento delle acque di scarico
Secondo
l’ipotesi accusatoria .l’inquinamento dei canali e della laguna nella parte antistante
la zona industriale – causato dalla presenza
di diossine e idrocarburi clorurati di risulta della produzioni del P.
sarebbero stati causati per il passato da:
a ) scarichi
nelle acque di reflui senza trattamento
b) evacuazione diretta in laguna di rifiuti clorurati
a mezzo di bettoline e autobotti
Per l’epoca più recente invece dallo scarico S.M.15
Con riferimento a tale scarico e premesso che i sistemi di trattamento sono
rimasti sostanzialmente gli stessi ,salvo alcune migliorie nel 1995/ 98 a
seguito di interventi della magistratura , viene evidenziato che nello scarico S12 che poi confluisce in
quello predetta erano stati fatti dei campionamenti ed era stato trovato un
valore di concentrazione pari a 150
picogrammi litro superiore di 300 volta
al limite degli scarichi industriali
proposto dalla Commissione Consultiva Tossicologica Nazionale per
diossine e furani che lo pone eguale a 05 picogrammi per litro che la diossina,
rinvenuta nei bassi fondali, ha la stessa impronta di quella dei reflui di
produzione dei DCE e CVM e degli altri idrocarburi clorurati provenienti dallo
scarico SM15
Gli esperti
dell’accusa pervengono a ritenere che la fonte di contaminazione dei canali
dell’area industriale debba essere individuata nella produzione del
Petrolchimico e nei relativi scarichi perché le diossine rinvenute nei sedimenti dei canali avrebbero
la stessa impronta di quelle presenti nei reflui di derivazione delle produzioni di DCE e PVC .
Viene quindi spiegato il procedimento attraverso il
quale diventa possibile individuare la cosiddetta impronta delle diossine
collegarle ad un determinato processo chimico.
Sinteticamente viene spiegato come la famiglia
delle diossine e dei furani è composta
da 210 congeneri e che usualmente
vengono esaminati solo 17 congeneri , quelli
con tossicità più elevata che
viene correlata mediante il fattore di
conversione (TEQ tossicità equivalente )
a quella più pericolosa
2,3,7,8-TCDD /tetraclorodibenzodiosssina- classificata come cancerogena
.
I 17 congeneri
vengono poi ridotti a 10 omologhi
attraverso il grado di clorurazione
tetra –penta esa epta e octa
diossine e furani ed in relazione al
diverso processo produttivo che genera le PCDD/F varia anche la proporzione tra
i predetti gruppi di congeneri ,ciò che
consente di identificare u profilo o impronta del PCDD/F ed associarlo da un
determinato processo chimico
Il collegamento e l’impronta avvertono però i periti non è comunque paragonabile
alla impronta digitale essendo certo meno precisa, peraltro le variazioni che
caratterizzano i processi produttivi dello stesso tipo di quello
considerato inducono importanti
variazioni nel disegno di congenere e
portano alla configurazione di profili relativamente diversi, che comunque
mantengono la loro peculiarità o tratto caratteristico.
Sinteticamente i confronti effettuati dagli esperti
consentono di accertare che nella
impronta dei fanghi prelevati
nei pozzetti interni del Petrolchimico vi è prevalenza di OCDF-
octaclorofurano e la stessa prevalenza viene notata nei sedimenti superficiali di tutta la zona industriale
Questo ,
unitamente ai dati di letteratura in materia di prevalenza di OCDF nei reflui
di provenienza dalla filiera del cloro ,consente all’accusa di ritenere che il Petrolchimico sia la causa dell’inquinamento di tutta l’area industriale , non essendo
peraltro possibile individuare
nell’area interessata altri processi produttivi,responsabili della
presenza del tipo di diossine PCDD/F rinvenute nei sedimenti dei canali ,atteso che le diossine di risulta degli
altri processi produttivi non sono in nessun modo connotate dalla presenza
del OCDF .
Ricorda a questo punto il Tribunale come uno studio
del C .N. R perviene a diverse
conclusioni, escludendo che le impronte
dei sedimenti prelevati nei punti di campionamento siano sovrapponibili a
quelle tipiche della produzione del CVM.
Ritiene
comunque l’accusa che i profili e le
impronte delle diossine di risulta delle lavorazioni del Petrolchimico possono essere associate ad una impronta
media comunque peculiare , che esclude la possibilità di individuare
un’altra matrice della contaminazione ,caratterizzata dalla prevalenza di
octoclorofurano seguito da
eptaclorofurano o anche da
octaclorodiossina
I
profili e le impronte delle
diossine di risulta delle lavorazioni del Petrolchimico non possono essere
associate ad una impronta tipica però possono essere associate ad una impronta
media comunque caratteristica peculiare ,tutti i sedimenti dei canali
industriali denunciano la stessa
matrice della contaminazione in quanto
tutti i campioni dei sedimenti sono riferibile allo stesso insieme.
Non si fa
carico invece l’accusa di datare l’epoca della contaminazione pur essendo tecnicamente possibile
Osserva a
questo punto il tribunale come l’accusa
trascuri due importanti evidenze che provengono dalla stessa analisi dei suoi
consulenti :
1)l’andamento
delle concentrazioni delle sostanze
inquinanti evidenzia una forte
diminuzione procedendo da nord verso
sud , man mano che ci si allontana dalla prima
zona per avvicinarsi alla seconda zona industriale;
2) nello spazio antistante lo scarico SM15 –lo
scarico principale di provenienza del plesso industriale ,dalla meta degli anni
70 ad oggi- i valori di concentrazione degli inquinanti risultano più
bassi di quelli rilevati nel sedimento
di altri canali industriali .
Prima di
affrontare problematiche più complesse il Tribunale ritiene di esaminare quella secondo cui la
contaminazione è proseguita almeno fino
al 1998, con l’immissione di diossine attraverso lo scarico SM15 del
Petrolchimico, ipotesi che ritiene non plausibile.
4.3 Definitiva confutazione della tesi di accusa sulla
rilevanza attuale dell’apporto costituito dal flusso del SM15 (scarico nelle
acque di provenienza dal Petrolchimico dell’oggi)
Alla base dell’ipotesi accusatoria sopra esposta ci sarebbero i risultati di un
analisi di un prelievo fatto allo scarico S12- affluente nello scarico
SM15- in cui è stato rilevato un valore
di concentrazione pari a150 picogrammi
/l, risultato 300 volte superiore al limite proposto per gli scarichi industriali dalla CCTN( Commissione consultiva
Tossicologica Nazionale per le diossine e furani eguale a 0,5 picogrammi /l)
Tali
esiti non sarebbero rilevanti secondo
le condivisibili critiche del c. t della difesa Foraboschi che ha evidenziato:
gli errori delle valutazioni fatte dalla accusa .
Innanzitutto si evidenzia che si tratta di un unico
prelievo e non di campionamenti, fatto in un momento in cui la corrente andava
alimentando l’impianto biologico e non all’atto di essere scaricata
direttamente nel
corpo idrico ricettore ; che il valore indicato è erroneo perché quando
venne indicato il predetto valore limite 0,5 picogrammi/ litro nell’87, la
misura di tossicità equivalente (TEQ) era calcolata secondo i criteri EPA /87, adottando i quali la concentrazione
dello scarico S12 risulta di 14 p picogrammi /l, e non di 151 p. g /l come indicato dalla accusa adottando i criteri successivi EPA/89; che
mancano altri rilevamenti tali da rendere il dato significativo, mentre la stessa Commissione ritiene
necessario disporre di un numero di rilevamenti statisticamente
significativo;che non esistevano all’epoca, secondo la normativa italiana limiti per le concentrazioni di PCDD/F nelle
acque di scarico e tanto meno nelle
correnti interne inviate a trattamento cosi come lo era la corrente S12 al
momento del campionamento; che il limite di cui sopra era stato indicato dalla
Commissione , con riferimento ad un caso particolare molto diverso: ricaduta di
polveri esistenti nei prodotti di
combustione derivanti da un impianto dall’ inceneritore della città di
Firenze ( per cui la situazione
esaminata dalla commissione non era confrontabile con quella in esame; che comunque
l’apporto inquinante era limitato –l’ accusa non si era fatta carico di
indicare le conseguenza derivanti dalla
immissione delle diossine nella misura rilevata attraverso lo scarico Sm15 – il consulente
della difesa aveva invece dimostrato che il flusso di massa dello scarico S12
dati per buoni i risultati delle analisi risultava pari a 6 microgrammi all’ora espressi in TEQ 1987.
In via esemplificativa venivano riportati alcuni
esempi per dimostrare che l’apporto dello scarico SM15 non aveva potuto essere rilevante in termini di disastro
Rilevava
ancora il Tribunale che la portata delle acque , proveniente dagli
impianti di produzione del Petrolchimico, trattate dai suoi sistemi di depurazione e confluenti nello scarico finale
SM15 è pari a circa 0,3 metri cubi /s e che non è fondata la affermazione del c t. Ferrari secondo cui invece lo
scarico SM15 sversa circa 12 metri cubi al secondo di acque
Risulta invero anche
dalla relazione del Magistrato alle acque che il flusso dello scarico
SM15 era di 11 milioni di metri cubi
ogni anno volume che corrisponde ad una
portata media di 0,3 metri cubi /s.
Risulta
ancora che lo scarico era stato regolarmente autorizzato e che erano stati
imposti con le prescrizioni accessorie
controlli analitici e che quello
evidenziato risulta essere l’unico controllo positivo noto in materia di
formazione di diossine.
Ad
integrare la infondatezza dell’accusa
sul punto vengono richiamate considerazioni che saranno sviluppate poi e che riguardano la tesi
dell’accusa- ritenute tutte infondate-
secondo cui gli scarichi erano stati effettuati in violazione del
divieto di diluizione ;
il superamento dei parametri di accettabilità di cui
al DPR n.962/1973 aveva determinato condizioni peggiorative dello scarico delle
acque ;
la presenza di CVM nella acque di processo dei
reparti CV22/23 e CV24/25 conferiva all’intero flusso in uscita dagli scarichi
SM2 e SM15 il carattere di rifiuti tossico nocivi con la conseguenza che
tutti i reflui di provenienza del Petrolchimico dovevano essere gestiti come rifiuti tossico nocivi e non alla stregua delle valutazioni tecniche
e di disciplina pertinenti agli scarichi nelle acque.
Nessun addebito può essere fatto con riferimento ad epoca più recente- dal 1990 al 2000-
risultando provato che lo scarico
inquinante del Petrolchimico risulta
attestato su valori medi inferiori al carico ammesso dai parametri tabellari di riferimento
Viene quindi
ribadito prima di procedere analiticamente alla valutazione di tutti i passaggi
che secondo l’ipotesi accusatoria i sedimenti
dei canali di tutta l’area industriale sono contaminati da
microinquinanti inorganici ed organici,in particolare da diossine,che per la
costante presenza della specie di octaclorobenzofurani denunciano la loro provenienza dalla filiera
del cloro e perciò del Petrolchimico :
e che quindi nella tesi accusatoria assume rilevanza centrale il tema relativo alla impronta delle
diossine .
Innanzitutto rileva la difesa come i prelievi di
campioni siano stati fatti da pozzetti
pertinenti a rami di impianti chiusi da tempo e nei quali venivano convogliate acque meteoriche ed acque di lavaggio ,non acque di processo.
Dall’80 le acque meteoriche vengono raccolte in vasche ed inviate all’impianto
di strippaggio CS30 dei clorurati i cui
fanghi vengono smaltiti nei forni dell’impianto CS28.
Ciò pone
innanzitutto un problema di rappresentatività
dei campioni di fango prelevati
nei pozzetti.
Comunque dalle analisi dei prelievi di fango
effettuati dai consulenti della difesa negli stessi pozzetti in cui erano stati
fatti i prelievi da parte dei tecnici del P. M ., orientate alla ricerca dei
composti organo alogenati e dei PCDD/F risulta – secondo i grafici
riportati alle pagine da 626-a 629 che ,contrariamente a quanto ritenuto
dalla accusa, le impronte delle
diossine rilevate nei pozzetti non
hanno caratteristiche proprie , essendo
costituite da mescolanze eterogenee , comunque non rappresentative che vi sono
differenze al confronto delle impronte caratteristiche del Canale Lusore-
Brentelle - antico corpo recettore degli scarichi del Petrolchimico e quelle del canale industriale Nord.
Non solo le
impronte delle diossine rilevate nei
pozzetti non hanno caratteristiche proprie ma anche non vi è corrispondenza con
la distribuzione delle PCDD/F presenti nelle acque reflue dei processi
produttivi .
Risulta invece
e ne danno atto gli stessi esperti delle difese che le impronte delle
diossine di cui ad un campione il n. 4
– di cui peraltro l’accusa non aveva fornito i risultati- corrispondono
esattamente a quelle dei sedimenti del canale Lusore- Brentelle
I composti che sono stati trovati nel canale Lusore -
Brentelle sono stati trovati in tutti i
pozzetti esaminati
Le impronte del canale Lusore –Brentelle sono diverse da quelle degli altri canali - canale Industriale
Nord, canale Brentella, canale Salso , canale San Giuliano
L’impronta
del pozzetto n 4 –fango di fognatura del CV10-11- è del tutto identica
all’impronta del canale Lusore –Bretelle.
Le impronte dei campioni prelevati dagli altri
pozzetti del sistema fognario TS1 e CS3
non sono sovrapponibili a nessuna altra impronta
Tali
rilievi tecnici pongono il serio
problema di verificare la corrispondenza delle impronte rilevate dove
transitavano acque reflue convogliate nei pozzetti del vecchio Petrolchimico.
con le impronte dei canali diversi dal Lusore Brentelle
4.5 Ancora sulla questione delle impronte delle
diossine confutazione della ipotesi che individua nel Petrolchimico la matrice della contaminazione del sedimento dei canali della area
industriale, indistintamente considerata
Osserva il Tribunale come la difesa
abbia sostenuto che la identità delle impronte rilevate nel sedimento del canale
Lusore Brentelle con quelle tipica della produzione del CVM e
quelle rilevate nelle analisi dei campioni di fanghi prelevati dagli scarichi
SM15 , SM 12 ,S M 22- vecchi e nuovi scarichi del Petrolchimico - consente di
ritenere che le caratteristiche delle
emissioni inquinati del Petrolchimico
rimangano almeno tendenzialmente uniformi nel tempo in contrasto con l’ipotesi formulata
dall’accusa secondo cui invece le differenze
riscontrate tra tali impronte – in particolare tra quelle dei canali della
prima e della seconda zona industriale-
derivano da variazioni indotte
nel tempo delle caratteristiche dei processi produttivi del medesimo
tipo di quello considerato (petrolchimico filiera del cloro).
Procede
quindi il Tribunale ad elencare le ragioni della tesi difensiva elaborata sulla
base della consulenza del c. t . Vighi,
che giustifica le conclusioni di cui sopra
Il
consulente delle difese attraverso il confronto tra le impronte dei sedimenti inquinanti nelle diverse aree
della con terminazione lagunare ed in particolare nel campo della prima e
seconda zona industriale – evidenzia la
differente matrice della contaminazione ;
muovendo dall’ambito della prima zona verso
la seconda zona industriale evidenzia altresì che , per tutti gli inquinanti di interesse processuale, i livelli di
concentrazione tendono nettamente a diminuire .
Sulla base delle accertate differenze è possibile affermare che le due aree ,quella
della prima zona industriale e quelle relative alla seconda zona industriale sono soggette a fonti
diverse di contaminazione da PCDD/F
La prima zona industriale ha risentito di
emissioni che presentano caratteristiche diverse da quelle degli scarichi del Petrolchimico , le quali
sicuramente caratterizzano l’impronta dei sedimenti del canale Lusore
Brentelle
Ciò confuta la tesi accusatoria della
identità della causa della
contaminazione di tutti i sedimenti dei
canali della area industriale indistintamente
considerata , da identificarsi nel catabolismo delle acque di provenienza del
Petrolchimico .
La evidenza di tali differenza viene giustificata dalla accusa con variazioni indotte nel tempo nel ciclo
produttivo
E
vero che le impronte variano e non sono
riconducibili ad una unica impronta bensì ad una impronta media ma ciò
perché varia nel tempo il processo
produttivo
Nella sua analisi il consulente della difesa
utilizza un data-base di 1300 campioni
di sedimenti e come il consulente
dell’accusa segue il metodo di analisi
delle componenti principali, applicandolo ai dati dell’intero data base
Descrive le analisi dei componenti principali
, con un metodo di analisi
statistica che consente di trasferire
in un sistema a due o tre dimensioni quindi graficamente rappresentabile
la maggiore o minore analogia
Inoltre
elimina alcuni dati che avrebbero potuto falsare gli esiti, escludendo tutti quei campioni che sono
caratterizzati da valori inferiori al
limite della rilevabilità analitica per almeno 6
congeneri
Da tali analisi risulta che i campioni
del Canale Nord e del canale Brentella
– canali della prima zona industriale-sono riconducibili al medesimo insieme ,
mentre quelli del canale Lusore Brentelle non sono riportabili al medesimo insieme.
Questa
differenza consente di affermare che le due aree sono soggette a fonti di inquinamento da PCDD/F diverse
Il contesto della prima zona industriale ha
risentito nel tempo di emissioni che hanno caratteristiche diverse
da quelle degli scarichi del
Petrolchimico ,che caratterizzano invece l’impronta dei sedimenti del canale Lusore Brentelle
Di
conseguenza risulta infondata la tesi accusatoria secondo cui invece il
Petrolchimico sarebbe responsabile
dell’inquinamento di tutta la zona industriale indistintamente.
L’ipotesi
della accusa secondo cui le differenze delle impronte di congenere
dipenderebbero da varianti nel ciclo produttivo è rimasta a livello di sola
ipotesi
E stata invece
dalla difesa dimostrata la sua inconsistenza in quanto lo studio di
campioni superficiali e profondi
evidenziano una sostanziale uniformità della impronta PCDD/F da
cui è lecito dedurre che le variazioni indotte nel ciclo produttivo non
hanno modificato le caratteristiche delle emissioni
In conclusione
dall’esame delle impronte
risulta che : le impronte rinvenute nel canale Lusore Brentelle corrispondono alle impronte riportate in
letteratura come caratteristiche della
produzione del C V. M .; che sono diverse da quelle rinvenute nei canali
della prima zona industriale –canale Brentelle, canale industriale nord; che
l’impronta del canale Lusore Brentelle
è rimasta costante nel tempo
pertanto mutazioni del ciclo produttivo non hanno influito sulla impronta ;
che la spiegazione dei c t dell’accusa , secondo
cui la differenza dipenderebbe da variazioni nella produzione non si giustifica
; che le impronte dei sedimenti del Lusore
Brentelle corrispondono a quelle
caratteristiche della produzione del CVM nonché a quelle riscontrate nei fanghi
prelevati dagli scarichi SM15,SI2 ed SM22; che queste impronte sono
diverse da quelle caratteristiche della prima zona industriale che a loro volta dimostrano invece analogie
con quelle tipiche di altre produzioni
industriali
4.6 Segue
confutazione della ipotesi che
individua nel Petrolchimico la matrice
della contaminazione del sedimento dei canali dell’area industriale indistintamente considerata
Vanno innanzitutto evidenziate alcune circostanze che
sono incontestate o comunque adeguatamente provate.
E
incontestato che il gradiente di contaminazione diminuisce passando
dalla prima alla seconda zona
industriale e cioè da nord a sud , avvicinandosi ai canali prospicienti
l’area di insediamento del Petrolchimico; che a sud nella zona dei cosiddetti
bassi fondali, area che intesi di accusa continuerebbe ad essere inquinata
dagli apporti dello scarico SM15 il
livelli di concentrazione di PCDD/F sono notevolmente ridotti; che ‘unica eccezione
è rappresentata dal canale Lusore .Brentelle , che risulta molto
inquinato verosimilmente perché
antico corpo recettore degli scarichi del Petrolchimico in epoca in cui non vi
era alcuna regolamentazione .
Ed il gradiente di inquinamento dalla prima alla
seconda zona industria contraddice l’ipotesi accusatoria secondo cui la contaminazione avrebbe la sua origine nel Petrolchimico
Secondo gli
esperti delle difese invece la
contaminazione da diossine e furani avrebbe inizio nella prima metà del secolo
e si sarebbe intensificata fino a raggiungere
i valori massimi per le diossine e i furani negli anni 50 e negli anni 60,
e per gli IPA negli anni 60
Gli esperti –Bellucci e Colombo- hanno poi
individuato le cause della contaminazione della prima zona industriale
,identificando la sorgente
dell’impronta di PCDD/F presente nella prima zona industriale , ed accertandone
la diversità da quella presente
nell’antico corpo recettore del Petrolchimico;hanno poi giustificato la contaminazione del canale sud-seconda zona
industriale- e spiegato la
influenza negativa dell’antico sito di
discarica dell’isola delle Tresse
vicino allo scarico SM15.
Prima di esaminare il lavoro degli esperti il
Tribunale riprende però alcune delle valutazione gia fatte in ordine alla
normative vigenti in epoca precedente l’entrata in vigore di norme di
protezione ambientale , relativa alla insalubrità delle lavorazioni, norme che
hanno disciplinato per decenni
l’esistenza e l’andamento delle
produzioni inquinanti
Innanzitutto
viene ricordato l’art 216 TULS che ,prevedendo l’isolamento delle fabbriche
e manifatture che producevano gas
vapori o altre esalazioni insalubri, indicava chiaramente che la norma veniva intesa con finalità di tutela solo
sanitaria e non di tutela ambientale
È tale
disposizione per quanto riguarda il contesto territoriale di causa venne
attualizzata dall’art 15 e 16 delle Norme tecniche di attuazione del PRG di
Venezia del 1956.
In
particolare la PA aveva previsto per attività che oggi definiremmo di impatto
ambientale la destinazione delle aree prospicienti la zona industriale di Porto Marghera , che
attualmente occupa un fronte di 6 km per una profondità di circa 4 Km.
Da un punto
di vista storico doveva poi
essere tenuto presente –ciò che l’accusa aveva invece ignorato -che la
prima zona industriale era stata
realizzata mediante l’imbonimento di vaste aree di barena ,con materiale di risulta degli scavi dei
canali portuali ,e la seconda zona industriale invece mediante l’imbonimento,
avvenuto quasi esclusivamente con rifiuti di provenienza dalle lavorazioni
della prima zona industriale – rifiuti che alla stregua delle valutazioni
normative vigenti dal 1984 sono definiti tossico-nocivi.
Di questi
rifiuti usati per l’imbonimento una
grande quantità di colore rosso ,i cosiddetti
fanghi rossi derivano da processi di
“decuprazione delle ceneri di pirite” e da processi di lavorazione della
bauxite ,entrambi estranei al catabolismo del Petrolchimico
Naturalmente
insieme vi erano rifiuti di molte altre produzioni- produzioni del ciclo
dell’acido solforico, materiali di risulta della produzione metallurgica,
scarti di fonderia , ceneri di carbone
di centrali termoelettriche , fosfogessi di scarto di produzione
dell’acido solforico.
Al
catabolismo delle predette produzioni si aggiunse poi quello derivante dalle
produzioni del cloro da parte del
Petrolchimico ,. i cui insediamenti produttivi vennero collocati nella
seconda zona industriale e per cui gli scarichi a avvenivano nel canale Lusore
- Brentelle
Il sottosuolo della seconda zona industriale per alcune
centinaia di ettari( ad est dell’ alveo del canale Bondante ) è costituito da
rifiuti di antica derivazione dalla produzioni della prima zona industriale.
Nello zoccolo di questa enorme massa di rifiuti
sono stai scavati interamente il canale
Industriale sud, ,il canale Industriale ovest e in parte il canale Malamocco
Marghera.
Nella seconda zona industriale ,in area adiacente ai
bassi fondali vicino allo scarico SM15- scarico principale del Petrolchimico ,
dopo la cessazione, a metà degli
settanta, di quelli che recapitavano nel canale Lusore Brentelle trova collocazione l’isola delle Tresse,sito storico di discarica di rifiuti
della prima zona industriale.
Tutte le predette acquisizioni solo assolutamente
certe e documentate e non possono essere messe in discussione sul piano
probatorio.
E attraverso lo studio e la analisi dei sedimenti dei canali Industriale nord e Brentella è
possibili associare al catabolismo proprio delle tipologie
produttive della prima zona industriale
l’inquinamento dei sedimenti in
tale ambito.
Lo studio
verifica inoltre le conseguenze della
trasmigrazione della contaminazione dalla prima alla seconda zona
industriale.
È stato
accertato dai consulenti della difesa
attraverso l’esame di dati di letteratura
innanzitutto che dal 1932 era presente nella prima zona industriale la
lavorazione del magnesio- e a tale tipologia produttiva , secondo quanto
riportato in US .EPA.2000, la tabella
allegata alla predetta relazione
associa come contaminante
proprio le diossine ;
che la
decuprazione delle ceneri di pirite ,attuata dal 1932 a tutti gli anni 60, è in
grado di produrre rilevanti quantità di
diossine, caratterizzate da un impronta
simile a quella diffusa nell’ambito della prima zona industriale.; che
le ceneri di pirite rientrano nel
catalogo dei materiali di risulta,provenienti dalla prima zona industriale, e
utilizzati per imbonire la seconda zona industriale
Il tracciante
principale di tale rifiuto ,utilizzato in grandi quantità per imbonire la seconda zona industriale , è
costituito dai cosiddetti fanghi rossi.
Data la
rilevanza di questa tipologia di rifiuti
sono state fatte specifiche analisi, previa loro raccolta e
classificazione, prelevando sei campioni di fanghi rossi, i primi cinque
( da ES1 a ES5) sulla sponda del canale sud e l’ultimo ES6 sulla sponda del
canale industriale ovest
Tutti i
campioni sono stati prelevati nella seconda zona industriale e dove i fanghi rossi si trovano
in zona a diretto contatto con le acque dei canali ,le cui sponde
subiscono continua erosione .
Le analisi
effettuato hanno consentito di accertare
la presenza in uno solo dei
campioni, di ceneri di pirite e in tutti gli altri la presenza di fanghi rossi bauxitici,entrambi rifiuti
estranei al catabolismo del Petrolchimico ;inoltre in tutti questi campioni l’impronta di congenere .che
distingue un tipo di diossina
dall’altra è la stessa del
canale Nord e del canale Bretella.
Le analisi
dirette alla ricerca delle diossine hanno portato ad accertare anche concentrazioni di arsenico –che caratterizza
la pirite –ed alluminio –che caratterizza la bauxite-
E ciò
consente di associare i campioni alle tipologie produttive che li hanno
originati.
Inoltre per tutti i campioni prelevati al di fuori di uno l’impronta della diossina
è eguale a quella del Canale Industriale nord ed al canale Brentella e si
tratta di impronta eguale a tutte
quelle rinvenute negli altri canali al di fuori del canale Lusore . Brentelle
E l’impronta
che consente di associare la presenza di PCDD/F rinvenuto nei canali ai fanghi rossi provenienti dalla
lavorazione della pirite e della bauxite ,entrambi presenti nell’ambito della
seconda zona industriale e soggetti a fenomeni di intensa trasmigrazione
passiva
Da
documentazione non contestabile risulta inoltre che i fanghi rossi bauxitici
erano prodotti in misura molto rilevante
e che venivano usati non solo per imbonire ma che venivano anche
spappolati direttamente nei
sedimenti dei canali e che tra le aree
imbonite e contaminate risulta essere indicato il canale Industriale sud (della
seconda zona industriale)
Gli esperti
delle difesa hanno anche evidenziato
sulla base delle informazioni assunte che la bauxite veniva lavorata dalla Save utilizzando il processo
Bayer, cominciare dagli anni 30, che non produce diossine e dalla società
Italiana Alluminia con il processo
Haglund che come verificato sperimentalmente produce invece diossine
Osserva a
questo punto il tribunale che le sponde dei canali della seconda zona
industriale e l’area di insediamento
del Petrolchimico in tutta la sua
lunghezza sono caratterizzati dalla presenza di una notevole quantità di fanghi
rossi –che nulla hanno a che vedere con la produzione del Petrolchimico -tanto
risulta obiettivamente rilevabile anche percorrendo il canale Sud fino a giungere alle sponde del canale
Industriale ovest.
E risulta anche la attuale trasmigrazione passiva di
tali inquinanti dalle sponde dei canali industriali alle acque e ai sedimenti, cosi come analoga
trasmigrazione avviene dalla isola delle Tresse dove sono stati smaltiti oltre
un milione di metri cubi di fanghi
rossi verso i cd bassi fondali prospicienti lo scarico SM15.
Risulta anche
dalla deposizione del teste Chiozzotto- teste dell’accusa -che nell’isola delle
Tresse sono stati convogliati enormi quantitativi di rifiuti ed il fenomeno di erosione della isola delle
Tresse risulta avere causato un
arretramento delle sue sponde di oltre
50 metri, proprio davanti al punto di recapito dello scarico SM15, e che il progetto di messa in
sicurezza del sito prevede il
contenimento della percolazione delle sostanze inquinanti .
Viene poi rilevato che nel canale Malamocco –Marghera
frontistante lo scarico SM15, per
tutti quasi i parametri analizzati i sedimenti presentano livelli di concentrazione piu bassi di
quelli osservati in altre zone dell’area industriale e che i livelli di
concentrazione delle sostanze
inquinanti si riducono notevolmente nel passaggio dalla prima alla seconda zona industriale e in
prossimità dello scarico SM 15
raggiungono valori non eccedenti quelli attesi ,comunque non
sproporzionati ,rispetto a quelli che
caratterizzano situazioni paragonabile , connotate da un impatto ambientale
moderato certo non disastroso.
Dei valori
di contaminazione raggiunti in
prossimità dello scarico S. M15 ne da atto invero lo stesso consulente dell’accusa.
L’accusa di
fronte a questi accertamenti assume che la presenza di diossina nei fanghi
rossi lungo le sponde dei canali della
seconda zona industriale dipende da pratiche di commistione di tale residuo con peci clorurate provenienti dal Petrolchimico ,che
rimarrebbe cosi l’unica matrice di
contaminazione dei sedimenti della zona industriale per quanto riguarda le diossine
Ma si tratta
di una asserzione non provata né
sorretta da indizi.
A sostegno
della sua tesi l’accusa replica che nel tempo in ambiti distanti dal
Petrolchimico. sono state attuate pratiche di evacuazione diretta in laguna di residui clorurati di
provenienza da tale plesso a mezzo di bettoline e autobotti.
Anche questa
affermazione rimane non provata.
Contrariamente a tale ipotesi accusatoria risulta invece che dagli
inizi degli anni 70 le cosiddette peci
clorurate furono inviate per trattamenti presso l’impianto di
incenerimento CS28, costruito nel 72 e che in epoche
precedenti erano smaltiti in discarica .
La tesi
accusatoria è smentita anche dal fatto che
nei canali della prima zona industriale non si riscontra associazione di
diossina con clorurati, come avrebbe dovuto riscontrarsi se fosse vero quanto
affermato dalla accusa , mentre è stretta la relazione tra diossine e
metalli pesanti –arsenico ed alluminio
tipici delle lavorazioni della prima zona industriale.
Nel canale
Lusore .Brentelle . è invece presente in elevata concentrazione la
contaminazione di solventi clorurati
E viene anche ribadito che non è vero che la lavorazione della bauxite non produca
diossine, valendo questa affermazione , solo per il processo Bayer, ma non per il processo Haglund ,come
dimostrato dalla difese e non contestato dalla accusa.
Le conclusioni che il tribunale ritiene di
dovere trarre in base all’evidenza
probatoria sopra esaminata sono quindi le seguenti:l’inquinamento ha diverse
matrici:
a)
scarichi nella acque aventi recapito ei canali della prima zona
industriale provenienti dagli
insediamenti produttivi cola insediati dagli anni 20 e in grado di rilasciare
gli stessi inquinanti che secondo l’accusa proverrebbero unicamente dal
Petrolchimico e ciò contro l’evidenza
del forte gradiente di contaminazione nella prima zona industriale e contro l’evidenza delle differenti impronte delle diossine nell’uno e
nell’altro ambito
b)
rifiuti tossici- nocivi di risulta delle medesime produzioni-fanghi rossi
bauxitici e ceneri di pirite che sono
stati certamente utilizzati per l’imbonimento delle aree della seconda zona
industriale e nel corpo dei quali sono
stati scavati i canali della
seconda zona industriale e che sono
stati altresì oggetto di erosione da parte delle acque a seguito degli
scavi dei canali e a seguito delle maree , del moto ondoso e del transito delle navi
c)
il catabolismo nelle acque del Petrolchimico come fattore inquinante delle sue
immediate adiacenze ;
il
canale Lusore Brentelle antico corpo
ricettore degli scarichi del vecchio
Petrolchimico e di alcuni scarichi
superstiti, muniti tutti all’entrata in vigore della prima
normativa in materia d p r 962/1973 –l’ 1-3-1980 di impianti di abbattimento del loro carico inquinante è stato certamente inquinato dal
Petrolchimico.
Segue la verifica della compatibilità delle
acquisizioni probatorie sopraindicate con l’andamento dell’inquinamento
nell’ambito della zona industriale e
della esistenza di eventi
disastrosi in senso proprio.
4
.7 Sulla base di quali premesse ed
entro quali limiti è possibile constatare la presenza di eventi di danno
per l’ecosistema
L’accusa ha assunto, per sostenere l’evento di danno
rilevante in termini disastrosi per l’ecosistema, le tabelle allegate al protocollo d’intesa per la
laguna di Venezia del 1993.
Queste
tabelle però non definiscono parametri
di qualità ambientale ma sono
finalizzate solo a stabilire criteri di
mobilizzazione dei sedimenti , individuando i parametri secondo cui valutare le
caratteristiche che devono avere i materiali
sedimentari per essere immessi o
reimmessi in laguna , trattasi sostanzialmente di criteri di mobilizzazione dei sedimenti .
I valori indicati rispettivamente nelle tabelle A,B,C del predetto Protocollo d’Intesa non significano pertanto pericolo reale perchè non esprimono condizioni di rottura di sicurezza
per l’ecosistema e non definiscono
parametri di qualità ambientale
Né si ritiene
congruo assumere, come dato probante la rottura delle condizioni di sicurezza
dell’ecosistema ,il confronto tra le concentrazioni di inquinanti rilevate nei
sedimenti dell’area industriale e
quelle rilevate nel sedimento dell’isola di S Erasmo , considerato anche che spesso l’accusa assume ,a termine di
confronto, il valore massimo di
inquinamento rilevato nei canali della zona industriale . cioè il campione
rilavatosi in assoluto “il più inquinato”
Sono
pertanto condivisibili le critiche della difesa relative alla impostazione seguita dagli esperti della
accusa .
Condivisibile
è invece il diverso criterio di
verifica dalle stesse
proposto che si basa sul confronto tra
le concentrazioni rilevata nell’area
industriale e criteri di qualità
ambientale.
Il consulente delle difesa premette innanzitutto che
secondo il Comitato scientifico tossicologico ed ecotosssicologico della
commissione europea 1994 un obiettivo di qualità ambientale, per una
determinata sostanza dovrebbe esprimere un livello od una concentrazione tale da non determinare alcun effetto
indesiderato nell’ambiente e tale da garantire la protezione delle comunità
biologiche e degli ecosistemi naturali
Esempio di un obiettivo di qualità per un ambiente acquatico: dovrebbe permettere che tutti gli stadi del
ciclo vitale di tutti gli organismi
acquatici possano compiersi con successo e senza alterazioni; non dovrebbe
produrre condizioni tali da determinare l’allontanamento degli organismi dall’habitat o da parte di esso in cui sarebbero presenti in condizione
naturali – assenza di impatto antropico- non dovrebbe produrre bioaccumulo di sostanze
a .livelli pericolosi per il biota ( incluso l’uomo) attraverso la
catena alimentare o per altre vie ,non
dovrebbe produrre condizioni capaci di
alterare la struttura e la funzione
dell’ecosistema acquatico.
Per
quantificare questo obiettivo il massimo risultato conseguibile
sperimentalmente è il cosiddetto
livello di non effetto osservato (
NOAEL) , cioè un livello che, nelle condizioni
sperimentali note, non ha permesso di osservare alcuno degli effetti
avversi.
Il metodo più
usato è quello che si basa sulla estrapolazione dei dati sperimentali, mediante la applicazione di
fattori di sicurezza , che saranno tanto più elevati quanto più carente è l’informazione
o quanto maggiore è il livello di incertezza dei dati sperimentali.
Nel caso dei criteri di qualità per i sedimenti l’informazione è molto scarsa e sono
pertanto necessarie ulteriori estrapolazioni.
A questo
scopo normalmente viene utilizzato il
metodo degli equilibri partitivi che si basa sul principio del
calcolo della ripartizione delle sostanze tossiche tra acqua e
sedimento
Si immagina
che l’effetto tossico sugli organismi del sedimento sia provocato dalla parte
di sostanza in soluzione nell’acqua interstiziale e si fa riferimento ai valori di tossicità noti per gli organismi
acquatici.
Data la
incertezza che il metodo degli equilibri partitivi comporta vengono applicati ulteriori fattori di
sicurezza
Il criterio
di qualità ambientale ha finalità essenzialmente preventive ed è espressione
del principio di precauzione.
I criteri di qualità devono considerarsi quindi come
uno strumento preventivo ,ampiamente protettivo, per cui il superamento di questi criteri non deve però essere
visto come raggiungimento di livelli ambientali tali da determinare un rischio
reale ,ma soltanto come l’erosione di
margini di garanzia , che in generale
possono avere l’ampiezza di alcuni ordini di grandezza rispetto al
livello degli effetti osservati.
Ed è evidente
che nell’ambito di tale scelta vi possano essere differenze come
conseguenza della esistenza di margini
di discrezionalità
Quello che
varia nei diversi criteri o livelli
protettivi è il maggiore o minore grado
di sicurezza, il loro superamento non comporta il superamento di una soglia di
pericolo reale
Il c t degli imputati Vighi utilizza un data base per valutare lo stato di
contaminazione dei sedimenti da metalli e
microinquinanti organici che ha
riguardo a 1300 campioni di sedimenti,
che sono stati prelevati in diversi settori dei canali industriali e della
laguna, e confrontati con i valori limiti
indicati secondo i diversi criteri di qualità ambientale .
I campioni
sono stati prelevati a profondità di
oltre due metri che si riferiscono a
contaminazione pregressa di molti decenni or sono ed a profondità più ridotte di 10-15 cm che possono essere
considerati rappresentativi di una
contaminazione più recente, relativa agli ultimi 20 anni
In molti casi la profondità del prelievo non è
indicata e comunque la datazione delle
contaminazioni non è rilevante nelle prospettive accusatoria che riferisce al fatto dell’imputato –quello
successo per ultimo nella posizione di
garanzia - l’intero ordine delle conseguenze la cui causa ritiene di individuare nel catabolismo del
Petrolchimico
Nessun rilievo viene dato nella prospettiva dell’accusa al problema causale delle condotte
dei singoli imputati
Vengono quindi nella sentenza a questo punto esposti
in modo analitico gli esiti del primo
confronto, innanzitutto per quanto riguarda i metalli , attraverso dati
e grafici dalla cui lettura derivano in sintesi le seguenti conclusioni : i livelli complessivi di contaminazione
dei sedimenti mostrano un netta differenza tra i canali della prima zona
industriale, nei quali i valori medi superano spesso i criteri di qualità ,e i
canali della seconda zona, nei quali i
valori medi risultano essere compatibili con i limiti di accettabilità
considerati; il superamento dei limiti
nell’ambito della seconda zona industriale è relativo solo ad alcuni
sporadici valori massimi; i valori relativi ai campioni superficiali sia nella
seconda zona come nella prima sono
compatibili con i criteri di qualità di cui si detto ,e, le situazioni di maggiore contaminazione sono imputabili ad
emissioni pregresse presumibilmente anteriori all’ultimo ventennio.
per il PCDD/F:
valgono le
precedenti osservazioni con la precisazione che, nei campioni superficiali della prima zona, diminuiscono i valori
massimi ma aumentano quelli medi;
tuttavia, nella seconda zona industriale e nel resto della laguna, i valori sia medi sia massimi sono
costantemente al disotto del limite indicato dal NOAA.
per gli
IPA:
il gradiente di diminuzione è meno evidente ed è
significativo il valore relativamente alto, anche nei sedimenti superficiali
relativi alla zona urbana ,dati che dimostrano come questo tipo di inquinamento
può derivare anche da fattori diversi da quelli industriali
in ogni caso i valori specialmente nei sedimenti
superficiali sono sempre entro i limiti
di accettabilità.
per gli
HCB:
in questo
caso i valori misurati, sebbene sia ancora evidente il gradiente , superano
anche nella seconda zona industriale i livelli di riferimento.
Deve
però a questo punto accertarsi se il superamento dei limiti di cui sopra
significhi pericolo reale per
l’ecosistema lagunare
A tale scopo
è stata calcolata la concentrazione prevista di non effetto (PNEC) utilizzando
la metodologia ufficiale proposta dalla Commissione europea basata sul principio degli equilibri partitivi e su
dati tossicologici sperimentali.
Viene cosi stabilito il limite, al disotto del quale
non si verificano effetti tossici ,con una riduzione però sostanziale dei margini di sicurezza.
Con
riferimento al valore PNEC risulta che sia i valori medi come quelli massimi
dei canali della seconda zona industriale
sono inferiori al valore soglia , e pertanto non esiste pericolo reale
di effetti tossici per gli organismi,nonostante la riduzione dei margini di
sicurezza
Il confronto
tra il valore PNEC ed il criterio di qualità dimostra l’ampiezza dei margini di
sicurezza che sono stati applicati
anche nei confronti effettuati per le altre sostanze.
Al metodo
sopraesposto seguito dai tecnici della difesa sono state fatte dalla accusa le seguenti critiche : il confronto
con i criteri di qualità sarebbe di
affidabilità incerta; l’uso frequente di medie e mediane ridurrebbe i
significati della contaminazione; viene
trascurato il fatto che, nei sedimenti dei canali, vive una comunità di
organismi detritivori, per cui dovrebbe
tenersi conto anche delle condizioni favorenti
la biodisponibilità dell ‘inquinante incorporato nel materiale sedimentario.
Alle critiche predette va risposto –secondo il
Tribunale- che, per quanto riguarda i sedimenti, non si dispone di altri dati
basati su criteri sperimentali , e tanto vale sia per i metalli come per i micro contaminanti organici; che i pochi
paesi ed organismi che hanno esaminato il problema hanno declinato il principio di precauzione , introducendo normative finalizzate alla tutela dell’ecosistema acquatico, che non vi è motivo per ritenere inaffidabile; che i
protocolli usati dal consulente tecnico
delle difese sono quelli elaborati dagli organismi internazionali; che
si sono occupati della materia;
che, come tutti
i criteri di qualità, rappresentano delle estrapolazioni e sono stime
teoriche che vengono corrette da
adeguati fattori di sicurezza ,che sono
tanto più ampi quanto minore e l’effettiva base sperimentale.
E gli esiti complessivi della valutazioni fatte dal
Vighi, condivisibili per le argomentazioni sopraesposte dimostrano che le concentrazioni
di inquinanti rilevate nei sedimenti
sono compatibili nei valori medi ( spesso anche in quelli di picco) con i
parametri assunti.
Casi di
superamento si riferiscono solo ad aree distanti dal Petrolchimico, nell’ambito
della prima zona industriale .
Per quanto
riguarda poi la critica relativa alla non adeguata valutazione della
biodisponibilità degli inquinanti si rileva come non sia facile la
valutazione e come in ogni caso con riferimento ai metalli , secondo il principio di precauzione , i
metalli si assumono totalmente
biodisponibili.
Per quanto riguarda i microinquinanti organici
viene fatto presente che le sostanze in esame PCDD/F, PCB; IPA;HCB sono
composti ad elevata persistenza , per cui l’intervento di organismi detritivori
non può rendere più o meno disponibile la sostanza.
Per quanto riguarda la critica fatta all’uso delle
medie e mediane viene fatto presente che contrariamente ad un valore massimo e
proprio quelli medio o mediano che
rappresenta adeguatamente la reale
situazione e che in particolare
risulta più corretta la
rappresentazione quando si fa
riferimento alla media geometrica anziché a quella matematica.
Media geometrica
e mediana fanno parte dei parametri che gli statistici chiamano robusti
cioè sufficientemente solidi da non essere alterati troppo da valori non
rappresentativi della serie di dati considerata.
Rileva infine il Tribunale come le conclusioni
del consulente tecnico dr Vighi , che sono per le argomentazioni
sopraesposte condivisibili, vengano a
coincidere con quelle del Piano
Direttore del 1989 , che ha accertato
una situazione al limiti del collasso
fini agli anni 70, ed il miglioramento , certo l’assenza di un
aggravamento, dopo l’inizio degli
interventi di depurazione e di
riconversione delle tecnologie industriale , ma non facilmente superabile per
quanto riguarda la componente inglobata nei sedimenti.
Ma le concentrazioni di inquinanti nei sedimenti dell’area industriale non significano comunque rottura delle
condizioni di sicurezza per l’incolumità pubblica.
Da ultimo
viene ancora osservato come , con riferimento al valore del fall-out
atmosferico ,per quanto riguarda la contaminazione dei sedimenti dei canali ,le emissioni di PCDD /f di
attuale derivazione dagli impianti di incenerimento del petrolchimico siano compatibili con i limiti di legge.
Non può sostenersi un progressivo inquinamento nel
tempo delle concentrazioni di PCDD/F
nei sedimenti perché i dati
confrontati si riferiscono stazioni di
prelievo totalmente diverse.
Rimane infine
non confutata la affermazione e secondo
cui ,per valutare la progressione nel tempo della contaminazione , l’unico
metodo sperimentato consiste
nell’esame delle carote di sedimento
per cui sia possibile una sia pure approssimativa datazione .
Rimane altresì non confutata la valutazione , secondo
cui le informazioni derivate da questo tipo di analisi , significano una
progressiva diminuzione delle concentrazioni
dei principali inquinanti,
almeno negli ultimi decenni.
Premesse:
infondatezza della tesi di accusa secondo cui gli scarichi del Petrolchimico
sarebbero stati effettuati in
violazione del divieto di diluizione.
Primo
addebito: gli scarichi del Petrolchimico. sarebbero stati effettuati in violazione
del divieto di diluizione.
Premesso che l’ipotesi accusatoria collega l’evento
disastro- consistito nella
contaminazione del sedimento dei canali- e l’avvelenamento e adulterazione del
biota – vivente nel sedimento dei canali al supposto malgoverno degli scarichi
di provenienza del plesso industriale nelle acque - concretizzatosi nello
smaltimento di reflui convogliabili in condotta , catalizzatori esausti e altri sottoprodotti di risulta attraverso
gli scarichi SM2 e SM15 ( con concentrazione di nitrati e clorurati superiori
ai limiti di accettabilità previsti
dalle tabelle allegate al D.P.R n 962 /1973)- osserva il Tribunale come, in
ipotesi accusatoria, tre siano gli
specifici addebiti di colpa:
1) :gli scarichi del Petrolchimico sarebbero stati effettuati in violazione del
divieto di diluizione;
2) sarebbero
stati violati i parametri di accettabilità stabiliti dal DPR 962/1973
3) i reflui
di provenienza del Petrolchimico
avrebbero dovuto essere smaltiti
come rifiuto tossico nocivo ,in forme adeguate a quelle nominate dal d.
p .r n.915/1982 , e non nelle
forme adeguate alla disciplina
pertinente gli scarichi della acque
Tutti gli addebiti sono infondati.
Nel corso degli ultimi venti anni interessanti il
periodo di imputazione, si trovano ad essere in vigore le tabelle allegate al d
.p .r n.962/73 ;
il termine
previsto per la costruzione degli impianti di depurazione risulta essere stato
prorogato fino a tutto l’1-3- 1980
la prima
disciplina normativa degli scarichi nella acque opera quindi dal marzo 1980;
molto prima
di tale data i gestori del Petrolchimico sono intervenuti sul catabolismo delle acque :
Nello
specifico è innanzitutto infondato che gli scarichi del petrolchimico siano
stati effettuati in violazione del noto divieto di diluizione
E per spigare i motivi di tale valutazione
viene premesso l’elenco degli scarichi e delle correnti del Petrolchimico ,
aventi recapito in laguna- con la indicazione dei vari canali interessati- e
che sono tenuti al rispetto dei parametri di cui alle indicate tabelle:
SM15
SM 2
SM 7
SM
8
SM
9
SM
22 corrente e non scarico
diretto per cui valgono comunque gli stessi limiti di accettabilità
S
11 e S 12 correnti che convogliano
reflui clorurati e reflui mercuriosi , a cui si applica la
disciplina prevista dal DLVo n133/1992
Viene quindi osservato che tutti gli scarichi veri
e propri- per i quali e richiesto il rispetto
dei parametri di accettabilità – risultano regolarmente autorizzati e
che tutte le confluenze di correnti
interne sono note al magistrato
alle acque
Premesso che è incontestato che nei predetti
scarichi confluissero la acque di processo trattate del Petrolchimico . ,oltre
ad acque meteoriche , di
raffreddamento, civili chiarificate,
rileva il Collegio come l’accertamento
dei requisiti di legge debba essere fatto in corrispondenza del punto di immissione delle acque nel
ricettore – salvo deroghe - mentre quanto attiene alle correnti interne è
irrilevante , e ,salvo deroghe, le correnti interne non richiedono autorizzazione
.
Ne
consegue che la tesi accusatoria
,secondo cui il principale scarico del Petrolchimico ,. SM15- in cui
confluivano e confluiscono , oltre le acque di processo , le acque di altre
correnti- avrebbe funzionato quale grande diluitore , in violazione del divieto
di cui all’art 9 comma quarto e settimo L319/1976 come modificato con
legge 650/1979- è infondata perché in
nessun modo la diluizione era vietata.
A
chiarimenti di quanto affermato ricorda il tribunale come, in un insediamento
produttivo, possono esserci più scarichi parziali- provenienti diverse
lavorazioni o da un determinato ciclo tecnologico - oltre allo scarico totale -che è quello rappresentato dalla
miscela dei diversi effluenti parziali-
e come sia la legge Merli a
precisare in quali termini possa
essere lecita la diluizione
Due sono le enorme che si occupano della
questione :l’art 9 4° comma che precisa “ i limiti di accettabilità non
potranno in alcun modo essere
conseguiti mediante diluizione
con acque prelevate esclusivamente allo scopo”
L’art
9 7° comma che precisa “ non è comunque
consentito diluire con acque di
raffreddamento, di lavaggio o prelevate esclusivamente allo scopo gli scarichi parziali contenenti le sostanze
di cui al n10 delle tabelle A) e C) prima del trattamento degli scarichi
parziali stessi per adeguarli ai limiti
previsti dalla presente legge “
Dalla lettura di queste norme risulta chiaro
che è vietata sempre la diluizione con acque prelevate esclusivamente allo
scopo , ,mentre la diluizione con acque di lavaggio o di raffreddamento è vietata solo quando ha per oggetto taluni
scarichi parziali ,. contenenti sostanze ritenute particolarmente inquinanti e
cioè quelle indicate alle tabelle A e C della legge Merli
La normativa citata ,cosi come quella attualmente in vigore- D.lvo n152/1999 - prevedeva anche la possibilità
che gli scarichi particolarmente inquinanti
venissero sottoposti a specifiche prescrizioni, che ,nella fattispecie,
non risultano essere state imposte ,nè pertanto violate
Tanto premesse va ritenuto che in assenza di
specifiche prescrizioni , sia possibile
la confluenza di acque di raffreddamento , di lavaggio nello scarico terminale,
tenuto quest’ultimo al rispetto dei
limiti di accettabilità.
E la P.A. risulta avere dato prescrizioni –
nel senso dell’obbligo di rispetto dei limiti di cui alle tabelle del d .p .r
n.962 prima della miscelazione- solo per la corrente SM22 , mentre per tutte le
altre non risulta presa alcuna disposizione
.
La
separazione delle acque di raffreddamento da quelle di processo è stata
disposta per gli scarichi in
laguna solo con D. M 30-7-1999 che
innova il quadro di riferimento normativo pertinente agli scarichi di cui si
discute
Conclusivamente secondo le valutazioni
normative ,tecniche e di disciplina
correnti all’epoca dei fatti dal 1980 al 1999 , l’addebito di colpa risulta pienamente
infondato, perché la miscelazione delle correnti era consentita, le pubbliche
amministrazioni ne erano informate, tanto che hanno, in alcuni casi ,dato
specifiche prescrizioni che risultano essere
state rispettate.
4.9 Della infondatezza degli addebiti di colpa
Infondatezza delle tesi d’accusa secondo cui il superamento dei parametri di
accettabilità di cui al D.P.R n962/1973 determinò condizioni peggiorative dello scarico delle acque
Anche questa
tesi non è fondata
Hanno accertato i consulenti della accusa e il dato è
incontestato, basandosi sull’esame dei bollettini di analisi interna che ci
sono stati più superamenti istantanei
e puntuali dei limiti stabiliti dalle
tabelle allegate al D.P.R. n962 /73
Il consulente
delle difese ha però ritenuto utile
anche riferire i superamenti , oltre
che ai bollettini, e alle date di
verificazione ,alla entità delle misure effettuate .
Ed è stato
innanzitutto evidenziato che per tutti
gli scarichi vi è stato un progressivo miglioramento della situazione, nel
senso che la percentuale dei superamenti
è andata drasticamente diminuendo dal 4,4% del 1990 all’1% del 1994.
La difesa ha
poi orientato l’analisi nel senso della verifica dell’effettivo carico
inquinante ed ha quindi proposto
di verificare se il superamento
puntuale dei limiti di accettabilità determina –nell’unità di tempo considerata
– l’immissione nel corpo ricettore di un carico inquinante superiore o
inferiore rispetto a quello ammesso dalla norma.
Determinata
quindi per ciascuno dei parametri- in relazione ai quali sono stati accertati
superamenti puntuali istantanei - la
concentrazione media annua , la difesa verifica per gli anni
1994-1997-1998-1999 e 2000 che mai risulta
superato il valore medio di
concentrazione nell’anno.
Gli scarichi
di provenienza Petrolchimico , nel loro reale andamento, si attestano su valori
medi evidentemente inferiori rispetto ai parametri di riferimento, producendo
un impatto ambientale corrispondente a quello di una scarico regolare .
La
validità ed il significato dell’accertamento fatto dalla difesa deriva dalla
imputazione che non è quella contravvenzionale bensì quella del delitto di disastro e avvelenamento –
comunque eventi di danno
Sul punto la
accusa sostiene che parlare di medie non avrebbe nessun significato nè sul piano scientifico né sul piano
normativo.
La norma si preoccupa infatti solo di stabilire la concentrazione limite senza
considerare il diverso problema della
quantità globale di inquinante , immesso in un certo intervallo di tempo nel
corpo ricettore, non prendendo in considerazione il criterio di concentrazione massima
ammissibile di inquinanti che il corpo ricettore può tollerare .
Nell’economia
dell’accertamento che ne occupa
non avrebbero pertanto cittadinanza i concetti di quantità giuridicamente consentita o di portata
autorizzata
Ritiene
invece il Tribunale ,con riferimento alla necessità di accertare l’evento di
danno rilevante in termini di
disastro o avvelenamento ,
giuridicamente necessario accertare la
entità del carico reale effettivo in termini di impatto ambientale
, verificando se degli apporti inquinanti dello scarico,
nella unità di tempo, superino la
disciplina normativa concernente il catabolismo nella acque
E la difesa dimostra che uno scarico che si attesti
su valori medi inferiori a quelli limite nel suo andamento nel
tempo,determina un impatto ambientale
corrispondente a quello di uno scarico regolare
Diverso è l’accertamento avente per oggetto i singoli
superamenti ,da quello relativo all’impatto ambientale e la sommatoria dei
singoli superamenti non costituisce una lettura di sintesi del catabolismo nelle acque .
Evidenzia ancora , il
Tribunale, a sostegno della fondatezza della tesi difensiva, che la tecnica
usata dal nostro legislatore ha una funzione
semplificativa degli accertamenti, e che in altri paesi vengono adottate
tecniche diverse, che tengono invece conto
delle caratteristiche del corpo idrico ricettore e si basano sul metodo
che verifica la concentrazione massima
ammissibile di inquinanti che il
ricettore può tollerare .
Il metodo seguito dalla legge Merli di stabilire
tabellarmente concentrazioni limite di
inquinante , senza considerare la quantità globale di inquinante –prodotto
della concentrazione per la portata
dello scarico immesso in un determinato arco di tempo nel corpo ricettore - costituisce un limite e non un valore
della legge.
Normative più
recenti e conformi alle direttive comunitarie
assumono come parametri di riferimento non solo le concentrazioni ma
anche le quantità di inquinante effuse
Ed anche la normativa applicabile-legge Merli- non
ignora invero le categorie di portata autorizzata e/o quantità
giuridicamente consentita , tanto che
l’art 21 prevede un reato contravvenzionale , quando la domanda di
autorizzazione non risulta corredata dalla puntuale precisazione delle caratteristiche quantitative e
qualitative del carico inquinante .
4.10 Segue infondatezza degli addebiti di colpa
Infondatezza della tesi di accusa
secondo cui la presenza di C. V .M
nelle acque di processo dei reparti CV 22/23 e CV 24/25 conferirebbe all’intero
flusso in uscita dagli scarichi SM.2 e SM.15 il carattere di rifiuto
tossico nocivo
Secondo il c t dell’avvocatura – Cocheo - gli
scarichi nelle acque di provenienza del
Petrolchimico sarebbero soggetti
alla disciplina normativa pertinente ai rifiuti tossico- nocivi e non a quella
concernente la tutela delle acque
applicandosi nella fattispecie il regime di eccezione previsto dal comma 6
dell’art 2 D:P:R 915/82.
Intesi di accusa l’unico trattamento consentito dell’intera masse di reflui
consisterebbe nella termo
distruzione o nel conferimento in discarica
,adeguatamente alle valutazioni normative ,tecniche e di disciplina di cui al
D.P.R n 915/82
Secondo l’interpretazione dell’accusa ,la legge n.319
/76, alla stessa stregua del d. p .r n.962/73 avrebbe carattere di
sussidiarietà rispetto al D.P.R n 915/82,
e rilevante in tal senso sarebbe il
disposto del penultimo comma dell’art 2 D. P .R n 915/82 che cosi recita” resta salva la normativa dettata dalla legge
10-5-1976 n319 e successive modificazioni e relative prescrizioni tecniche per
quanto riguarda la disciplina dello smaltimento nelle acque,nel suolo e nel
sottosuolo dei liquami e dei fanghi di cui all’art 2 lettera e punti 2 e 3
della citata legge, purchè non tossici
e nocivi ai sensi del presente decreto
Rileva il
Tribunale come la norma parli invero di liquami e fanghi e non di scarichi.
La differenza sostiene l’accusa è però solo apparente perchè il disposto del primo punto dell’allegato 5 della delibera
4-2-1977 del Comitato dei ministri per
la tutela delle acque dall’inquinamento stabilisce una equivalenza normativa tra il termine liquame ed il termine scarico.
Sarebbe di
conseguenza secondo la accusa la reale tipologia del refluo a definire se ad
uno scarico sia applicabile la
disciplina di cui alla legge 319/1976 o quella di cui al D.P.R 915/1982
In tesi di
accusa la normativa tecnica di
attuazione del D.P.R n.915/82 e pertanto la deliberazione 27-7-84
del Comitato interministeriale- norma madre l’art 4 D.P.R n.915/82-
definirebbe in modo preciso quali scarichi possono essere regolati dalla legge
n319/76 e quali invece siano sottoposti al più rigoroso regime di cui al
D.P.R.n.915/82.
Sono regolati
dal D. P . R n 319/76 tutti gli scarichi che non derivano dalle attività
produttive che figurano nell’elenco 1.3
della deliberazione sopra citata,
purchè il soggetto obbligato
dimostri che i rifiuti non sono classificabile come tossico nocivi,
Conclusivamente
spetterebbe al produttore
provare che nei reflui della lavorazione non siano contenute una o
più sostanze indicate nella tabella 1.1 in concentrazioni superiori ai valori
di concentrazione limite, e/o una o più della altre sostanze, appartenenti ai 28 gruppi di cui all’allegato al D.P.R.
n915/82- 20 nel gruppo sono indicate le sostanze chimiche di laboratorio non
identificabili e/o sostanze nuove i cui effetti sull’ambiente non sono conosciuti- ,in concentrazione
superiore ai valori di C. L ,ricavati dalla applicazione dei criteri generali
desunti dalla tabella 1.2
L’onere di
dimostrare quanto sopra incomberebbe al produttore e quindi agli imputati prima
della attivazione dello scarico
Tra le sostanze per le quali non sarebbe possibili
escludere a priori la presenza di concentrazioni superiori al limite del
consentito dalla tabella 1.2 citata
verrebbe in rilievo il C. V .M
Non avendo
gli imputati dimostrato che la concentrazione delle sostanze predette era entro il limite delle
concentrazioni limite ,tutti i reflui convogliati in condotta provenienti dal Petrolchimico avrebbero
dovuto essere smaltiti in forme adeguate tramite la termodistruzione
E se i reflui
22 milioni di metri cubi/
annui provenienti dagli impianti CV22 e CV23 sono definiti come rifiuti liquidi tossico nocivi , con la conseguenza che avrebbero dovuto
essere inceneriti , tale carattere
tossico -nocivo sarebbe stato
conferito all’intero flusso dello
scarico SM15- 370 milioni di metri cubi/anno
Ed un così rilevante scarico di rifiuti tossico
nocivi qualificherebbe la colpa dei delitti di pericolo contestati : disastro e
avvelenamento del biota.
Sempre in tesi di accusa, da premesse legalmente
presunte come vere, deriverebbero delle conclusioni che neppure sarebbe
necessario sperimentare in fatto e ciò perché
gli imputati avrebbero dovuto rendere la prova del contrario
Ritenendo
invece il tribunale ,non condividendo l’ipotesi accusatoria , che fosse
necessario accertare in concreto la
natura tossico nociva delle sostanze inquinanti alla stregua delle norme di legge in vigore rivolgeva al consulente della accusa la domanda se ,al di la di ogni presunzione legale,
egli fosse al corrente di un qualche indice della presenza delle sostanze
nominate nella D. I.1984 in particolare
del C. V. M nelle acque di
processo dei reparti CV e/o nei reflui
convogliati dagli scarichi S.M.2e S.M15. ed in caso affermativo della
concentrazione rilevata , e riceveva
una risposta negativa.
Alla domanda
ulteriore,avente per oggetto quale prova avrebbe dovuto essere data dal titolare dello scarico per essere legittimato ad applicare la
normativa sugli scarichi anziché quella
sui rifiuti, riceveva la risposta
che per escludere che un refluo
sia tossico nocivo occorrerebbe fare
una analisi completa dello stesso
,determinando le diverse sostanze presenti
sino a chiudere l’analisi alla milionesima parte in massa (1mg/kg)
Ciò
comporterebbe delle analisi
praticamente impossibili che non sono
mai state richieste dalla autorità amministrativa competente al rilascio della
autorizzazioni .
Ritiene
comunque il Tribunale che, la pretesa della accusa di ritenere il produttore onerato dalla prova della presenza delle
sostanze di cui alla tabella indicata in concentrazioni inferiori a quelle limite , sia errata con riferimento
ai principi generali che riguardano l’onere della prova nel processo penale ,
in cui il principio della presunzione di non
colpevolezza fino a prova contraria
comporta che la prova deve
essere data da colui che la nega
elevando l’accusa
L’onere della prova spetta pertanto alla accusa in quanto anche dalla delibera del C. I del
1984. non emergono regole di significato tanto pregnante da smentire questo
principio
In materia e
cioè sul tema della definizione dei campi di intervento delle due fondamentali
discipline normative di protezione ambientale- quella relativa ai rifiuti
quella relativa tutela delle acque - le
Sezioni Unite hanno stabilito alcuni
fondamentali principi.
A ) Il D.P.R
915/82 regola l’intera materia dei rifiuti
, in essa si inserisce come cerchio concentrico la normativa
relativa agli scarichi , disciplinati
dalla L n 319/76 e per Venezia dalla legge speciale 962/73
B) Se la sostanze è solida rileva la disciplina di smaltimento di cui al D.P.R 915/82
C) Per le sostanze liquide o a prevalente contenuto acquoso o convogliabili o
convogliate in condotta rileva la L
319/76
D)Il quarto
criterio deriva dalla disposizione del sesto comma dell’art 2 D.P.R n 915 /82
che riserva alla disciplina degli scarichi nelle acque anche liquami e fanghi ,ivi compresi quelli
derivati da cicli di lavorazione e da
processi di depurazione
E..)Ulteriore criterio è definito dalla
inclusione nel D. P. R n 915/82 di
liquami e fanghi appartenenti alla classe tossico –nociva
F)Ultimo criterio discretivo deriva dal fatto che il D.P.R. n.915/82
disciplina tutte le singole operazioni di smaltimento ( conferimento ,raccolta,
trasporto, ammasso, stoccaggio etc) dei rifiuti prodotti da terzi,siano essi
solidi liquidi ,fangosi o informa di liquame
con esclusione di quelle
fasi,concernenti i rifiuti liquidi (o assimilabili) attinenti allo scarico e riconducibili alla disciplina
stabilita dalla legge n 319/76 o 962/73 con l’unica eccezione dei fanghi o dei
liquami di verificata appartenenza alla classe dei tossico nocivi che sono
regolati dal D. P .R n. 915/82.
Tanto premesso ritiene il T tribunale di poter
escludere la applicazione della normativa di cui al D.P.R piu volte
citato ai reflui di reparti CV per i seguenti motivi:
non si tratta di sostanze solide rientranti per natura nella disciplina di
cui al D.P.R;
si tratta di acque
di processo ,sostanze liquide convogliabili e convogliate in condotta
,direttamente immesse nel corpo ricettore senza alcuna soluzione di continuità,
previo trattamento e abbattimento del carico inquinante; non si tratta di
fanghi , che se tossico nocivi sarebbero disciplinati dal D.P.R 915/82; non si
tratta di acque di processo o di
rifiuti liquidi veicolati e/o scaricati
in forma non canalizzata, nel qual caso sarebbe certa la definizione di
rifiuto del refluo.
Nel caso in esame non consta che il collegamento tra
fonte di riversamento e corpo ricettore sia in alcun momento della sequenza
interrotto .
Al di la delle congettura sull’onere della prova si
tratta di scarichi che non rientrano nell’unica eccezione prevista dall’art 2
comma 6 del D.P:R 915/82.
Sollecitata
poi alla verifica in fatto della
presenza di C. V .M nelle acque di
processo dei reparti di C. V in misura superiore ai limiti fissati dalla delibera del comitato interministeriale del
1984 , la accusa non è riuscita nel suo intento .
L’accusa ha
poi insistito sul monitoraggio in continuo
del C. V.M. nell’aria , presso
le vasche di neutralizzazione delle acque reflue (cd SG31), tale è in
estrema sintesi il ragionamento
dell’accusa : non è mai stata ricercata la presenza di C. V M nell’acqua delle vasche del reparto SG31 ma
solo nell’aria sovrastante ,mediante la istallazione di gascromatografo; se si
intende monitorare la presenza del CVM
nell’aria non vi è ragione per non
monitorare la presenza del CVM
anche nell’acqua se il C VM è presente
nell’aria deve essere presente anche nell’acqua delle vasche.
Ed in tal
senso il c. t dell’accusa ha orientato le sue ricerche nell’illustrare gli esiti delle quali lo stesso ha fatto presente che non esiste
un parametro di accettabilità nella legge, per quanto riguarda il CVM , perché
i clorurati sono sussunti sotto una
unica voce e che in particolare il CVM
in acqua ha una vita effimera brevissima, di nessuna durata ed è difficile
reperirlo per mancanza di tempo.
Deve quindi
essere ricercato nella vasche durante
il trattamento prima delle operazioni di abbattimento del carico inquinante dei
reflui e delle operazioni che permettono al titolare dello scarico di
perseguire l’obiettivo della loro compatibilità con i parametri tabellari di accettabilità
Applicando
una legge termodinamica , legge di Henry, il c t dell’accusa spiega come sia possibile determinare la
concentrazione media del C .V .M
nelle acque di processo , partendo dalla concentrazione presente
nell’aria , in 149 milligrammi /litro, e quella massima di picco in1328 milligrammi per litro
Solo in 10 occasioni nell’arco di un decennio –dal
1984 al 1994- si rileva il superamento
del limite di 500 milligrammi /litro ( la CL di cui alle tabelle
allegate alla delibera del C. I di cui si è detto)
In tesi di
accusa quindi questi 10 superi basterebbero conferire all’acqua delle vasche di
neutralizzazione e cosi all’intero flusso dello scarico S.M15 e SM2 il
carattere di rifiuto tossico nocivo
Ne consegue
che l’intero flusso del SM15 dovrebbe rientrare nella eccezione prevista dal
comma 6 art 2 D.P.R 915/82
Non ritiene invece il Tribunale che il superamento
dei limiti di concentrazione in solo 10
casi giustifichi le conseguenze che ne ha tratto l’accusa
Comunque la
stima del C.T risulta errata in eccesso
in quanto, secondo una corretta
applicazione della legge di Henry – segue una dettagliata esposizione delle
ragioni per cui ilo calcolo effettuato
dal consulente dell’accusa non sarebbe corretto bensì affetto da errori
esiziali - la concentrazione del C. V.
M in acqua risulta ,a parità di concentrazione nell’aria,
40.000 volte inferiore rispetto a
quella che risulta in base alla relazione erroneamente
utilizzata nella consulenza tecnica
della accusa .
Comunque,
rileva il consulente .tecnico della
difesa ,che, anche accettando l’erronea concentrazione calcolata dal consulente
tecnico della accusa, mai si
arriverebbe a concentrazioni di C .V M
tali da superare la concentrazione limite di 500 mg/kg fissata dal DCI
27-7-1984 in quanto il valore calcolato dall’accusa è circa 20 volte inferiore
alla C .L
A questo
punto il consulente tecnico dell’accusa
introduce un fattore correttivo, giudicato dalla controparte del tutto
arbitrario , e che comunque,
quand’anche lo si volesse applicare,
non comporterebbe il superamento di limiti di concentrazione massima
stabiliti dal DCI dell’84in materia di rifiuti: si otterrebbe infatti circa 0,03 mg/kg contro i 500 mg/kg
della CL
Le
valutazioni del consulente Cocheo non sono
pertanto attendibili
Il consulente delle difesa ha invece verificato che nel periodo dal 1990 al
1994 risultano:
102 casi di presenza di C. V.M. nell’aria
sovrastante le vasche in1360 giorni
una durata totale di 338 ore di presenza di C. V .M
nell’aria su un periodo di 32640 or
pari quindi all’1 % del tempo
La presenza del CVM nelle vasche risulta comunque
essere fatto del tutto eccezionale e
ciò invero trova una ragionevole
spiegazione oltre che nelle esame delle tabelle fatta dal consulente .tecnico .
della difesa anche in altre circostanze
In particolare risulta che non vi era alcun
collegamento permanente tra la fognatura dei reparti di produzione CVM/PVC e le vasche di neutralizzazione
Ed invero i dati analitici confermano la assenza di
CVM nell’ acqua delle vasche , e
dimostrano la inutilità di un controllo di questo parametro nelle acque di
scarico ,considerata la bassa solubilità del CVM ed infatti le vigenti normative non pongono limiti di
concentrazione in acqua perché la concreta assenza del CVM in acqua e intrinsecamente assicurata dalle sue
proprietà fisiche , in particolare dalla sua bassissima solubilità.
Conclusivamente risulta che normalmente il CVM nelle acque di
processo , provenienti degli impianti di
produzione del CVM, era assente
,quando era presente lo era in una percentuale ampiamente al di sotto delle C L
,di cui alla delibera attuativa della
disciplina normativa dei rifiuti
Circa la
ragione della presenza del gascromatografo in prossimità delle vasche va invece
rilevato come esso servisse alla misurazione di altri gas oltre il CVM.
Nelle vasche
di neutralizzazione infatti doveva essere abbattuto il carico inquinante
dei reflui e ciò avveniva mediante degli agitatori che favorivano la evaporazione dei gas non solubili , come il CVM ; rilevava a questo punto evidenziare che le vasche sono
chiuse e munite di una cappa di
aspirazione che porta ad un camino di
altezza di 46 metri che è stato
autorizzato e della cui funzione legata
anche alla possibile presenza del CVM è
stato dato atto
Il consulente . tecnico della difesa ha anche evidenziato come le correnti del reparto CV
24 andassero all’impianto biologico solo dopo lo strippaggio , mentre le
correnti dei reparti CV22 e CV 23 recapitavano nelle vasche solo e solo in
occasione di eventi eccezionali ,che portavano a straordinari superamenti di
livelli o disfunzioni altrettanto rare.
Comunque la
tesi di accusa risulta essere irrilevante ,posto che l’assenza certa ed incontroversa tra le parti del CVM. nel
biota nei sedimenti e/o nelle acque del corpo ricettore- laguna – rende
irrilevante l’ipotesi della presenza di
CVM negli scarichi idrici a monte
Oggetto della imputazione non è infatti ,né lo
potrebbe essere, perché a contatto con l’acqua evapora immediatamente , la presenza o meno del CV
M nell’acqua della laguna.
Le tesi di accusa sulla supposta e in dimostrata
presenza del cloruro di vinile nei reflui di provenienza dagli impianti CV,
presenza che comporterebbe la necessità di un loro trattamento secondo la
normativa relativa ai rifiuti,anziché secondo la normativa relativa agli
scarichi delle acque, oltre che essere
infondata e priva di rilevanza, atteso che nessun evento di danno risulta essere correlato nella ipotesi
accusatoria a tale presunta violazione , perchè in nessun modo viene sostenuto che l’inquinamento della laguna possa
essere ricondotto al CVM. sversato
Conclusivamente la tesi accusatoria è infondata ed
irrilevante.
4.11 Il caso
particolare della contaminazione del sedimento del canale Lusore –Brentelle, antico corpo recettore
degli scarichi nelle acque di provenienza
dal Petrolchimico e delle sue
immediate adiacenza
I
rilievi fatti con riferimento alla ipotesi accusatoria, secondo cui gli
imputati sarebbero responsabili
dell’inquinamento causato da altri per omessa bonifica dei luoghi contaminati
vale, sia per le discariche come per il catabolismo delle acque e dei sedimenti
del corpo ricettore e si ribadisce che
la scelta di un modello unitario di
qualificazione della fattispecie concorsuale richiede comunque che tra la condotta del concorrente e
l’evento sussista un nesso di condizionamento , mentre non si può rispondere di
disastro innominato colposo per il solo fatto di essere consapevoli
dell’inquinamento pregresso .
Il ricorso alla schema concorsuale –113 c.p-.
non esime dalla accertamento del nesso causale , mentre l’accusa ,rifiutando
questa impostazione, e rimanendo ancorata allo schema della cooperazione per
omesso disinquinamento della contaminazione preesistente , rifiuta
qualsiasi indagine diretta ad accertare
il riferimento ad una base –line della
contaminazione, a partire dalla quale
ricostruire e valutare l’apporto dei singoli imputati
E fonda la
prova del disastro esclusivamente sul gradiente di concentrazione tra il sedimento dei canali dell’area
industriale e delle aree non
interessate ad impatto ambientale
nonché sulla in verificata tipicità della impronta di
congenere delle diossine , come indice
della loro derivazione dalla filiera del cloro e perciò dal Petrolchimico
Esclude dalla
ricerca l’andamento della contaminazione nel tempo, le conseguenze del
catabolismo industriale nel tempo, la datazione in ogni caso della
contaminazione e ciò anche con
riferimento a quei siti ,come il Canale
Lusore –Brentelle e le sue immediate
adiacenze che risultano essere stati
sicuramente inquinati dal catabolismo del Petrolchimico
Si imponeva
invece la necessità di accertare se ci fosse stato un aggravamento della
contaminazione preesistente per effetto
delle condotta degli imputati, essendo certamente la contaminazione preesistente ai tempi storici interessati dalla imputazione .
La nozione di causa penalmente rilevante ,intesa come
condizione necessaria in un contesto
complesso ,comporta che ,se un evento si produce solo quando un
determinato insieme di condizioni si
verifica, rimane poi privo di significato accertare se uno dei fattori causali
appartenenti a quel complesso ,sia prossimo o remoto rispetto al verificarsi
dell’evento
L’apporto causale ben potrebbe configurarsi anche
solo come aggravamento di un evento dannoso già prodottosi.
L’apporto causale di ogni singolo imputato comunque
,entro la cornice concorsuale di riferimento,
e fermo restando il principio di equivalenza delle condizioni, deve
essere sempre provato
Nelle precedenti pagine della motivazione sono state
indicate le ragioni per cui non può addebitarsi al Petrolchimico la
matrice della contaminazione della prima zona industriale
Sono state anche esposte le ragioni per cui non sia
facile stabilire in che limiti il
catabolismo del Petrolchimico . possa avere causato l’inquinamento del
sedimento dei canali della seconda zona industriale , considerato l’apporto dei preesistenti scarichi nelle acque e gli apporti recati
da altre matrici di contaminazione : imbonimento dell’area della seconda zona
industriale con enormi masse di rifiuti
provenienti dalla prima zona industriale , erosione delle sponde
dell’antico sito di discarica
dell’isola Tresse
Rimane comunque indiscusso che dal Petrolchimico siano derivati nel tempo apporti
significativi in termini di evento di danno ambientale
Certo il catabolismo del Petrolchimico ha
avuto un apporto significativo in termini di contaminazione delle sue immediate
adiacenze , perché è incontroverso che
il sedimento del canale Lusore – Bretelle – corpo ricettore degli scarichi del
vecchio Petrolchimico, dall’atto della sua fondazione fino a tutto il ciclo di
ristrutturazione della prima meta degli anni 70, sia stato gravemente
compromesso dal catabolismo di quegli impianti
Si tratta però di tempi storici, che trascendono quelli dell’imputazione
L’inquinamento del canale Lusore –Brentelle , è
certamente riconducibile al catabolismo
del Petrolchimico.dagli anni della sua fondazione fino alla ristrutturazione
risalente alla prima metà degli anni 70.
Dal
catabolismo delle acque in epoca più recente
deve invece escludersi che sia potuto derivare alcun apporto,in termini
di aumento dello stato di inquinamento
preesistente , in quanto ,quando le allegazioni della accusa hanno consentito
di operare verifiche è venuto in rilievo il contrario
Nel canale
Lusore –Brentelle anche attualmente recapita l’SM2 ,scarico che risulta essere
di sicura ininfluenza in termini di impatto ambientale ,attestandosi il suo scarico inquinante su
valori di gran lunga inferiori ai limiti del consentito ex lege o in base alle prescrizioni
accessorie al titolo autorizzativo pertinente ( sporadici accertati superamenti
puntuali devono ritenersi irrilevanti in termini di impatto ambientale).
Dalla
ricostruzione del consulente tecnico dell’accusa relativa gli apporti ritenuti
influenti , in relazione al verificarsi della situazione ,risulta oltre alla
conferma del fatto che nel canale Lusore Brentelle scaricavano senza alcun trattamento le acque di processo del vecchio petrolchimico quali
erano degli impianti del vecchio
petrolchimico che sono andati
scaricando nel canale Lusore – Brentelle: gli impianti cloro-soda avviati nel
1951 fermati nel 1972,che utilizzavano catodi di mercurio e anodi di grafite- (
con conseguente inquinamento da
mercurio e da PCDD/F)
gli impianti
di produzione del C. V .M . a partire
dall’acetilene e cioè il CV1 chiuso
intorno al 1970
gli impianti
di produzione CV 10 chiusi nel 1981 –che utilizzavano un catalizzatore a base di cloruro di mercurio, altri
impianti attivi fino alla realizzazione dell’impianto chimico -fisico –
biologico SG.31- avvenuta nel 1978- ad esempio l’impianto di produzione di
acetilene da metano (ACI) con conseguente sversamento nel canale di acque con presenza di inquinanti ,tra cui IPA, altri
impianti fonti di inquinamento da
PCDD/F,che scaricavano nel canale fino alla avviamento dell’impianto di
strippaggio dei clorurati, il CS 30, e
cioè fino al 1980.
Viene a questo punto ricordato dal Collegio che solo a cominciare dal 1-3-
1980 diventano operativi i parametri di
accettabilità degli scarichi, essendo stata la normativa –legislazione speciale
per la salvaguardia di Venezia -
prorogata fino a quella data e che gli
scarichi di provenienza del P erano da quella data muniti di impianti di
trattamento operativi
Gli interventi
per il miglioramento delle condizioni ambientali e di sicurezza di Porto Marghera furono
effettuati dopo il 72 tra il 73 ed il
75 e sono documentati da commesse di
lavoro e da verbali di collaudo.
In
particolare ,dalla testimonianza Mason,
risulta che la vasca baricentrica
pertinente all’impianto di trattamento biologico delle acque reflue fu
realizzata nel 1976- e non come sostenuto dall’accusa a meta degli anni 80.
Dal 73 all’80
si realizza l’adeguamento di Montedison alla costruzione degli impianti di depurazione richiesti dalla legge di Venezia.
Quanto ai risultati
ottenuti mediante l’impianto di trattamento biologico in un periodo
antecedente l’entrata in vigore delle
tabelle del d. p .r 962/73 , non risulta,nè l’accusa lo prova che se ne
potessero ottenere di migliori
Con atto 2-5-1983 il Magistrato alle Acque attesta
che le acque di scarico provenienti dal
gruppo Montedison risultano essere a norma delle prescrizioni del D.P.R n
962/73
Sostiene
l’accusa che il depuratore biologico poteva gia essere fatto negli anni
cinquanta
Consta che
Montedison .verificò la tecnologia esistente in Italia e che non trovando impianti biologici
industriali per grosse dimensioni
e si
rivolse all’estero ,in Germania
Nella
motivazione delle sentenza segue a questo punto un elenco dettagliato degli
interventi eseguiti, commessa per commessa, con indicazione per ciascuno della data di realizzazione o di collaudo o di messa in esercizio
Il caso
particolare della gestione del catabolismo del mercurio
È certamente
presente tale tipo di inquinamento nel
canale Lusore –Brentelle, non c’è però,
come per gli altri inquinanti, informazione adeguata sull’andamento delle
contaminazione nel tempo.
Risulta
invece che la Montedison realizzava tra
il 1973 ed il 1981 in adempimento agli obblighi della legge speciale l’impianto
di demercurizzazione entrato in esercizio nell’anno 1976 e collaudato nel 1982.
La contestazione riguarda la scelta della Montedison . di realizzare negli anni
dal 1971 in poi un impianto di cloro soda a celle di mercurio
Consta pero
che all’epoca dei fatti le solo tipologie di celle applicate industrialmente
nella produzione del cloro e della soda erano a diaframma e a catodo di
mercurio , mentre impianti con celle a
membrana- meno inquinanti non erano
ancora stati realizzati ed erano
invece a livello progettuale , fino al
1978 in corso di perfezionamento , mentre nel 1981 ci sono impianti sperimentali.
Risulta
conclusivamente provato che la nuova tecnologia delle celle a membrana si dovette
perfezionare nel corso dei primi anni ottanta .
Negli Usa il primo impianto per la produzione del
cloro con celle a membrana è del 1983.
Gli impianti di cui si controverte entrarono in
funzione nel 1971.
Anche negli anni 80 la maggior parte degli impianti
utilizzava celle a mercurio o diaframma a base di amianto.
La
realizzazione dell’impianto di demercurizzazione ha consentito di ridurre le immissione di mercurio in laguna
ad un microgrammo litro 0,001mg/l nei limiti della legge speciale.
La data di
costruzione dell’impianto predetto collaudato solo nell’82 , risulta con
certezza essere quella di molto antecedente,e cioè del 1974, e la sua entrata
in funzione risale al 1976
Ne consegue
la infondatezza di tutti i relativi
addebiti di colpa pertinenti all’uso
del mercurio e alla realizzazione tardiva dell’impianto.
Rileva il
collegio come non venga individuata dall’accusa ,quando vengono sollevate
critiche alla condotta di gestione del catabolismo nella acque ,la norma agendi
che sarebbe stata violata .
Quando gli
addebiti di colpa si specificano prendendo forma in proposizioni verificabili viene in considerazione la loro
infondatezza.
Il generico
riferimento alla migliore tecnologia possibile
da parte dell’accusa , non specifica mai che cosa concretamente gli
imputati avrebbero dovuto fare , nelle condizioni rilevanti all’epoca di
assunzione del potere di gestione da parte loro, per prevenire il supposto evento di danno e quando
l’addebito si specifica risulta
infondato.
Dirimente al di al della chiara infondatezza degli
addebiti è comunque la inverificabilità di una relazione tra la condotta degli
imputati ed un eventuale aggravamento dello stato di contaminazione preesistente alla loro entrata in scena.
Va ancora
rilevato come secondo la tesi della accusa il disastro innominato che presuppone un pericolo per la incolumità
pubblica deriverebbe dall’inquinamento
del biota in quanto l’inquinamento dei sedimenti dei canali non sarebbe
pericoloso se non lo fossero gli asseriti effetti –in termini di avvelenamento
e adulterazione dell’ittiofauna su di essi vivente.
Ed accertata
la infondatezza delle accuse di avvelenamento e adulterazione di acque e sostanze destinate alla
alimentazione viene di conseguenza
esclusa anche la fondatezza della imputazione di disastro , che si caratterizza
come matrice degli insussistenti pericoli alimentari
La prova
negativa della pericolosità della ittiofauna e cioè della fonte immediata del
supposto pericolo per la salute pubblica ,costituisce prova che nessun
pericolo per la incolumità pubblica
può essere ricollegato alle cause mediate ( stato dei sedimenti e
della acque) .
II parte -appello del P.M.
Capitolo 3.8
Critica alla selezione dei dati di fatto da parte del
Tribunale
( Capitoli n 3 e 4 della sentenza )
Le consulenze tecniche del P.M.
L’accertamento del laboratorio M. P. U. di Berlino
3.8.1 Rapporto tra la prima e la seconda zona industriale
La tesi difensiva fatta propria dal Tribunale
secondo cui l’inquinamento dei canali industriali sarebbe la conseguenza dell’utilizzo dei rifiuti provenenti dalla prima zona industriale per
l’imbonimento della seconda zona ,in
cui vennero poi realizzati gli impianti del PETROLCHIMICO,risulta fondata sulla
diversità delle impronte della diossina
cosiddette “vecchie”( relative
alla prima zona industriale , con OCDF in quantità maggiore dei OCDD , ma con percentuali rispettive di
50 /60 % per OCDF e 10-20% per OCDD ) rispetto a quelle “recenti” del Petrolchimico ( prevalenza
assoluta di OCDF = 80-90%).
Si è contestata in aula da parte della accusa la ricostruzione cronologica delle carote ,
rilevando che entrambe le impronte venivano prodotte nei diversi impianti relativi al ciclo del cloro ,e rilevando
altresì che anche i
rifiuti, prodotti nella seconda zona
industriale, sono rimasti in questa zona sotto forma di discarica, circostanza
questa che dimostrava la inconsistenza della tesi difensiva , basata sulla
analisi dei campioni ( da E1 a E6) ,raccolti ai bordi della seconda zona industriale, che avrebbero dimostrato
trattarsi di fanghi rossi vecchi inquinati da diossina ,
mentre invece si trattava di
campioni misti e molto spesso di rifiuti anche della seconda zona industriale
L’accusa
evidenzia anche che gli stessi rifiuti erano stati spostati, dalla seconda alla
prima zona, quando erano stati scavati i canali Brentelle , Industriale nord e
Industriale ovest con camion ,dato che
solo una parte poteva essere bruciata nel termocombustore, e che inoltre i rifiuti erano stati continuamente
rimaneggiati dalle maree.
A supporto dell’’accusa vi sono i seguenti documenti:
1)mappe che dimostrano come negli anni 40 e 50 gran
parte della seconda zona industriale fosse stata gia bonificata con
ampi spazi agricoli
2) foto di discariche all’interno della seconda zona
industriale formatasi prima del 1970 fino alla fine degli anni 80
3) dragaggio del canale Brentella e del canale
industriale nord attorno al 1960 ciò
che comporta la deposizione dei fanghi inquinati in un periodo successivo
4) le barene campionate a S Erasmo e a Fusina hanno la concentrazione massima della
asserita impronta della prima zona industriale in strati, che la stessa difesa
dice corrispondere agli anni 60-80 e questo vuol dire che erano emissioni della
seconda zona industriale, che possono
essere arrivate là solo attraverso l’atmosfera; non è infatti possibile che
rifiuti solidi come quelli che sarebbero stati prodotti con quella impronta
prima del 1940,si siano potuti ridistribuire sulle barene a quella distanze.
5) anche attualmente il ciclo di lavorazione DCE –
PVC - CVM produce non uno solo ma
almeno due se non più,diversi tipi di
impronta e ciò a confutazione della
teoria delle due impronte diverse, prodotte in tempi diversi come emerge dalle
seguenti risultanze :
esiste un
data base di analisi interne di acqua
,camini e fanghi con impronte
diverse tra loro ,tra cui quella
cosiddetta vecchia ; la bibliografia di Carroll presenta entrambe le impronte da dati di produzione del CVM/CDE;
i dati delle esposizioni atmosferiche ,che hanno entrambe le impronte in
campioni raccolti in tempi recenti ,in
particolare nella stazione di Dogaletto
a 4 km SW del Petrolchimico ; sia i
suoli che le barene hanno tutti e due i tipi di impronta ;
3.8.2
peci clorurate (prodotte dai vari
impianti ) fanghi rossi e pirite
-supposte fonti della contaminazione da diossine
Il collegio sposa la tesi secondo cui dal 1972 le
peci clorurate furono tutte
inviate a trattamento nell’impianto CS
28 ed invece il CS 28 bruciava solo peci liquide e peraltro era insufficiente .
Le peci solide hanno invece continuato ad essere
smaltite fuori dello stabilimento nelle
tuttora esistenti discariche Dogaletto ,Moranzani e Macchinon
Il documento
del magistrato alle acque conferma la possibilità di scarico con camion e
bettoline delle peci clorurate, nonché la possibilità che –riscaldate- le
peci perdano i clorurati e quindi sia
possibile trovare diossine senza i clorurati.
Le difese
degli imputati sostengono invece che contenevano diossine anche le produzioni
della prima zona industriale quali:
quelle del magnesio ,della decuprazione di ceneri di pirite e dei fanghi rossi.
Ma la
affermazione si basa su dati contraddittori :alcuni dei campioni sono stati
raccolti dai consulenti tecnici della difesa
dove gia nel 1944 esistevano campi coltivati;la correlazione diossina
/AS (ceneri di pirite) e diossina /AI (fanghi rossi)viene smentita dai dati e
dalle osservazioni che seguono; l’ Haglund, richiamato a sostegno dai
consulenti tecnici degli imputati ,non produce
invece diossina
3.8.3 superamento dei livelli C e compromissione
ambientale della laguna
Dal documento Mav -Aut- Portuale (1999) risulta che
complessivamente il 35% dei campioni è superiore al livello C e il 43% si situa
tra il livello B e il livello C.
Per le
diossine ,da tale documento risulta che oltre il 65% dei campioni è eguale o
superiore al limite C.
Il confronto dei valori con linee guida
internazionali dimostra la possibilità
di effetti avversi su organismi marini
3.8.4 Dati
e audizioni del dr VIGHI CT ENICHEM
La critica principale riguarda il fatto che il
consulente delle difesa non spiega come ha eseguito la PCA(analisi
componenti principali) e seleziona dei
dati ,senza spiegare i criteri di selezione ,
e seleziona anche figure , facendone veder alcune e
non altre che dimostrerebbero il contrario
Passando ad
una analisi piu specifica osserva il P.M, con riferimento a quanto indicato
nella sentenza a pagina 516 e 517 - dove si dice che i canali Industriale sud e canale Malamocco Marghera
sono stati scavati nella massa di materiali di riporto e cioè dei
rifiuti provenienti dalla prima zona- che
dalle foto aeree si vede che in tuta la
parte Ovest di quella che sarà la seconda zona industriale c’erano gia nel 1944 campi coltivati e che
anche la parte sud era gia colmata , quindi nessuna di queste aree poteva essere
colmata con rifiuti industriali,
nè vi poteva essere scavato il
Canale industriale Sud ,che è invece stato per la maggior parte scavato in terreno
gi agricolo.
Le uniche zone di conseguenza che possono essere
state bonificate anche con rifiuti industriali della prima zona sono
quelle ancora arenicole nel 1955 e cioè la parte più orientale dell’area
attualmente compresa tra il Canale industriale ovest e il Canale
Industriale Sud.
Con
riferimento a quanto indicato o a pagina 556 dove si sostiene che le pratiche
di smaltimento dei rifiuti sono state poste in essere nel rispetto della
normativa vigente D.P.R. 915/1982 ed a quanto indicato a pagina 547, dove si sostiene che l’accusa
non ha considerato l’apporto inquinante dei rifiuti della prima zona
industriale usati per l’imbonimento della seconda zona , ribadisce il P.M che
,a parte ogni riserva circa la pretesa assenza di normative in materia di gestione dei rifiuti prima del
1982 , come risulta dalla cartografia,
gia nel 1944 buona parte di quella che diventerà poi la seconda zona
industriale era coltivata , e
questo vuol dire che quelle aree non sono state bonificate con i rifiuti
della prima zona industriale essendo
state bonificate molti anni prima .
Sono quindi i
residui della seconda zona industriale ad avere formato le discariche dentro alla stessa e sono i residui della seconda zona industriale ,che sono stati
campionati nelle varie consulenza tecniche
del PM
Ne consegue
il rovesciamento di tutte le conseguenze ambientali e della cronologia
dell’inquinamento della laguna.
Con riferimento a quanto indicato a pagina 581 e 594
– laddove si critica la scelta da parte del consulente tecnico della difesa di
S Erasmo come luogo di confronto - si ritiene invece che sia corretta la scelta del consulente del PM. di utilizzare S Erasmo
,come luogo di confronto, trattandosi
di un punto non privo di antropizzazione, bensì di luogo con impatto antropico continuo ma a bassissimo
impatto industriale .
Ne consegue
che tutti i confronti fatti tra
sedimento e pescato della zona industriale con S.Erasmo sono corretti.
Con
riferimento a quanto indicato a pagina
602 –laddove si addebita alla
accusa di non avere fatto alcuna indagine per verificare i tempi a cui far risalire l’inquinamento
per accertarne eventuale peggioramenti nei
periodi di gestione degli imputati – si rileva come al contrario sia sempre l’accusa, che cerca di ristabilire una cronologia reale
,contestando ad esempio al consulente della difesa proprio il fatto che nella
carota C11, unica carota per cui esisterebbe una buona cronologia, gli ultimi
tre campioni (quelli piu vicini alla
superficie ,corrispondenti all’incirca
al periodo 1995-1998) mostrano un aumento di OCDF caratterizzati dalla impronta che anche la difesa
ascrive alle produzioni di CVM.
Circostanza questa che dimostra in modo inequivoco
l’aggravamento dello stato di contaminazione preesistente .
Con riferimento a quanto indicato a pagina 607 e 608- laddove si commentano i dati
della relazione del dott. Raccanelli rileva
l’accusa come si tralasci
volutamente da parte dei consulenti della difesa la PCA( analisi statistica delle componenti principali) e ci
si limiti a commentare il confronto dei
profili tramite gli istogrammi .
Dopo avere fatto il confronto visivo il
consulente dell’accusa invece presenta
e una analisi statistica delle
componenti principali - detta PCA- relative ai sedimenti superficiali dei
canali industriali, lagunari della città
di Venezia , dei fanghi, dei pozzetti Enichem , degli scarichi dei depuratori civili.
La PCA viene
presentata con i dati acquisiti dal 92 al 99 e viene evidenziato che i primi 3
fattori spiegano il 76% della variabilità , e dimostrano che i campioni dei canali industriali,dei
pozzetti e di letteratura relativi alla produzione del cloro sono accomunati
dalla medesima impronta .
Al contrario
i campioni dei sedimenti dei canali di Venezia , della laguna distanti dalla
zona industriale sono differenziati e vicini alla impronta degli scarichi
civili
Anche con i dati forniti dalla difesa i primi 3
fattori spiegano il 77% della variabilità
Anche in
questo caso risulta evidente l’impronta del cloro che accomuna i dati dei
pozzetti Enichem e dei sedimenti lagunari nelle vicinanze del PETROLCHIMICO,
mentre gli altri campioni di sedimenti lontani dalla zona industriale sono
differenziati e vicini alla impronta degli scarichi civili
In
conclusione l’analisi statistica dimostra la correlazione tra l’impronta
reale esistente all’interno del Petrolchimico e le impronte rilevate nei canali industriali
attorno al Petrolchimico e nei
sedimenti superficiali lagunari nelle vicinanze dello stesso
L’impronta è
reale ed è dovuta alle diverse
produzioni del ciclo del cloro
Con
riferimento a quando indicato a pag.609 –laddove si attribuisce alla
accusa di avere affermato che la matrice della contaminazione di tutta l’area
industriale deve essere individuata nel catabolismo del Petrolchimico – si osserva come l’accusa non ha mai sostenuto una tale tesi.
L’accusa non sostiene che la matrice delle
contaminazione sia solo il catabolismo del petrolchimico, ma che la fonte
prevalente della contaminazione, per quanto riguarda le diossine, è sicuramente
il Petrolchimico e in particolare gli impianti contestati nei capi di accusa
con rifiuti (gas aria acqua) che sono caratterizzati da impronte molto simili
,anche se non del tutto eguali con il passare del tempo.
Queste
impronte definite impronte del cloro presentano evidentissime differenze
rispetto alle impronte di altra origine
(depuratori ,deieizioni umane eccettera ) e per questo, quelle rilevate
a seguito di analisi chimiche
effettuate dai consulenti si fanno risalire
alla lavorazione del cloro.
Segue quindi nell’atto d’appello la riproduzione
grafica delle tabelle relative alle analisi delle componenti principali (pagine
1301 e 1302).
Con riferimento a quanto indicato a-pagina 625-
laddove si ritiene che i prelievi effettuati nei pozzetti dal consulente della
accusa non siano rappresentativi, non essendo transitate nei pozzetti acque
reflue di processo diverse da quelle di lavaggio, anche quando gli
impianti erano in funzione, si osserva come il tribunale, condivida una
tesi difensiva, che non può essere vera , perchè , se cosi fosse, non si
giustificherebbe la alta concentrazione di PCDD/F trovata nei fanghi depositati
all’interno dei pozzetti.
Evidentemente
nelle acque fognarie e non solo nel canale Lusore Brentelle scaricavano
direttamente le acque di processo, senza trattamento, attraverso i vari
scarichi a cui erano collegate.
Con
riferimento a quanto indicato a pagina- 629 - laddove si sostiene che le
impronte di diossine rilevate nei
pozzetti non avrebbero una
caratteristica loro propria ,essendo costituite da mescolanze eterogenee -si
osserva come è la stessa accusa a
sostenere la parziale diversità delle impronte, dovute alle diverse produzioni di clorurati e ai diversi cicli utilizzati
pur nella costanza del rapporto tra PCDD/F.
Sbaglia la
difesa anche quando sostiene la diversità delle impronte della prima zona
industriale rispetto a quella della seconda zona , mentre invece la
eterogeneità dipende dall’insieme di
diverse produzioni ,che hanno portato alla formazione della impronta che si
rileva nei canali industriali attorno al petrolchimico e nei sedimenti lagunari limitrofi.
Mediando le
impronte dei fanghi dei pozzetti prelevati da Arpav(PP) Enichem( PE)
Chelab(PC) si ottiene l’impronta che è
perfettamente sovrapponibile a quella
dei fanghi rossi .
Con
riferimento a quando indicato a pag-631-
laddove si sostiene che i composti organo alogenati che si trovano nel canale Lusore –Brentelle sono stati
trovati in tutti i pozzetti esaminati ,
mentre diversamente nel Canale Bretella (prima zona industriale) non risulta che tali sostanze siano state rilevate in quantità significative . risulta utile,
con riferimento a questi rilievi, piu
di ogni altro commento, seguire la descrizione del processo relativo alle peci.
Tra il materiale agli atti raccolto dal Consorzio
Venezia Nuova, relativamente alle
produzioni di solidi e semisolidi , la scheda n 40( pagina 95 del
documento) riporta dati relativi al reparti di produzione del dicloroetano
( impianto DL2 )
In
particolare risulta che le peci venivano stoccate in serbatoi Kettle e trasferite in fusti e quindi al
forno speciale o che altrimenti
solidificavano nei fusti .
Ed è proprio a causa del riscaldamento nei Kettle che i composti clorurati volatili
–(cioè con temperatura di ebollizione relativamente bassa) sono evaporati dalle peci e si sono
dispersi nella atmosfera.
Ed è questa la ragione per cui nel canale Brentella
si trovano solo le diossine e non gli
altri composti clorurati.
I livelli di concentrazione delle diossine nel canale Brentella corrispondono a quelli attualmente giacenti all’interno dei serbatoi del
Petrolchimico , trattasi di quei
materiali che oggi vengono inceneriti nei forni e che ,nel passato, sono stati
disseminati in laguna compreso il canale Bretella caratterizzando con tale
impronta della diossina i sedimenti dell’area industriale.
Con
riferimento al grafico riportato a pagina 638
della sentenza ed alla motivazione relativa ai criteri seguiti dalla difesa sul punto ,osserva il P .M come
non sia possibile controllare la elaborazione del dr Vighi , perché non è
spiegato quali siano in congeneri utilizzati, né il perché della esclusione di
alcuni campioni e come in ogni caso la spiegazione fornita non sia adeguata
potendosi utilizzare anche i campioni esclusi.
Nella sentenza
si afferma ancora a pagina 639-640 che i campioni
raccolti nei canali della prima zona
industriale sono diversi da quelli raccolti nella seconda zona , ma su tale
circostanza l’accusa non ha alcuna
obiezione da fare perché la circostanza
è evidente, si contesta però che tale differenza voglia significare diversa origine temporale e industriale della diossina .
Con una figura riportata a pagina 640 della sentenza e a pagina 1310 dell’atto d’appello il dr Vighi mette in evidenza le differenze
,interpretando però i dati inspiegabilmente , secondo un piano obliquo, e non secondo, come si dovrebbe fare, quello
degli assi della ascisse e delle ordinate
Il P M riporta quindi nella pagina successiva una
figura appartenente all’elaborato dello stesso consulente, ma che il medesimo
non ha mostrato ,perché altrimenti diverse
ed in senso contrario avrebbero dovuto essere le sue conclusioni .
Da questa
figura risulta che lungo l’asse 1 tutti
i 17 congeneri sono dalla stessa parte
a destra con la conseguenza che
questo asse non può discriminare alcunché.
L’asse 2
della stessa figura ha OCDD e OCDF in alto
e TCDD in basso, ciò che ha il significato di dividere i campioni ricchi di
octadiossine ed octafurani da quelli
ricchi di TCDD
L’asse 2 spiega pero solo il 6% della variabilità.
Vengono
quindi presentati di seguito due esempi alternativi alla figura riportata a
pagina 640 della sentenza ma corretti sul, piano della utilizzazione
delle PCA, che dimostrano come il tribunale abbia accolto acriticamente le tesi
della difesa seguendo la selezione fatta dai
CCTT degli imputati.
Nelle figure
A e B riportate a pagina 1314 della
sentenza si evidenzierebbe ,nella
figura A che nell’asse 1 non ci sono elementi discriminanti , perché sono tutti
sulla destra e lontani dalla asse , l’unico significativo e l’ H e CDF , ma
anche qui nell’area rossa ,assieme ai
campioni provenienti dal canale Lusore Bretelle(rossi) ce ne sono parecchi altri che provengono dal canale
Brentella e dal canale industriale nord
(blu e verdi);
nella figura
B avviene lo stesso, in quanto se è vero che nell’asse verticale i campioni che hanno più OCDD e OCDF
provengono dal canale Lusore Brentelle ,
ce ne sono però anche parecchi
del canale Brentella e del canale
industriale nord .
Con riferimento a quanto sostenuto a pagina
641-642 della sentenza laddove si da atto della ipotesi accusatoria ,secondo cui la modifica della impronte
potrebbe dipendere dalle diversità
introdotte nel ciclo delle produzioni succedutesi negli anni, e del
fatto che si tratta però di una ipotesi
non dimostrata , si osserva come invece
la prova della tesi accusatoria ci sia e provenga
dalla stessa azienda , in particolare dai certificati
analitici di provenienza Enichem
relativi ad emissioni varie del Petrolchimico.
I
grafici riportati a pagina 1316
dimostrano che sono possibili
impronte parzialmente diverse tra loro
a seconda del ciclo di produzione e che
tutti i tipi di scarico possono avere sia prevalenza assoluta di furani che prevalenza relativa e diversa di furani
si diossine .
Con
riferimento a quando indicato a pagina 656 della sentenza, laddove si sostiene
che è acquisizione certa l’utilizzo per l’imbonimento della seconda zona in via quasi esclusiva di rifiuti di
provenienza della prima zona
industriale ed a quanto indicato
a pagina 658 laddove si sostiene che,
nello zoccolo di questa massa di rifiuti ,sono stati scavati interamente i
canali industriale sud industriale ovest, Malamocco Marghera osserva il PM come
anche tale circostanza non risulti
vera, perché dalle carte si rileva che buona parte dei terreni su cui è stata realizzata la
seconda zona erano terreni agricoli .
Con
riferimento a quanto indicato a pagina 657 delle sentenza laddove , si evidenzia come vi siano immani quantità
di rifiuti dalla caratteristiche colorazione rossa , i cd. fanghi rossi di
derivazione da processi di decuprazione
delle ceneri di pirite e da processi di lavorazione della bauxite assumendo cosi che i fanghi rossi sarebbero
possibili inquinanti di diossine ,
osserva l’accusa che si tratta
di affermazione non dimostrata.
Si sostiene
poi che tutti i fanghi rossi provengano dalla prima zona industriale mentre
anche nel Petrolchimico funziona un impianto di produzione dei acido solforico
che veniva alimentato a pirite
Risulta che le ceneri siano state usate per imbonire
qualsiasi depressione e poi sono state accumulate fuori dello stabilimento.
Con riferimento a quanto dichiarato a pagina 659-
laddove si sostiene che la contaminazione elevata del canale Brentella e del canale Industriale Nord costituiscono
traccia indelebile del catabolismo
della prima zona industriale e non del catabolismo del petrolchimico rileva l’accusa come invece ,da documenti prodotti in giudizio- atti del genio
civile- risulti che i suddetti canali sono stati dragati negli anni 60 e quindi
i sedimenti contaminati si sono depositati dopo tale data.
Quanto alla presenza dell’alluminio e dell’arsenico
in elevate concentrazioni ,ciò che consentirebbe secondo il tribunale di associare i campioni alle attività
produttive della lavorazione della bauxite
e della decuprazione delle
ceneri di pirite si riportano le
considerazioni contenute nel documento depositato il 6-3- 2001 da cui risulta che :
a )i valori di alluminio trovati nei campioni da E1a E6
sono eguali o inferiori ai valori di AL di sedimenti non inquinati dell’adriatico
b) gli unici dati scientifici relativi alle analisi
di fanghi rossi – presentati dall’accusa e ignorati dalla difesa hanno
valori di AS Cd e ZN molto diversi da
quelli contenuti nei sei campioni presentati dalla difesa
c) non esiste alcuna correlazione tra AL ( che viene ritenuto indicatore di
fanghi rossi) e la tossicità
d) la grande variabilità dei contenuti delle diossine
Si conclude
quindi evidenziando che i campioni
definiti fanghi rossi contengono PCDD/F e metalli in proporzione cosi variabile
che evidentemente sono stati mescolato o si sono nel tempo mescolati con fanghi
/rifiuti/peci provenienti dalla produzioni del cloro.
Va ancora criticata la sentenza laddove sostiene che
la lavorazione della bauxite con il sistema haglund , comporti la presenza
oltre che di un catalizzatore metallico anche
di tutti gli ingredienti necessari a produrre diossine e cioè cloro
(coke ) e temperatura elevata , perché
invece manca uno degli elementi necessari a produrre diossine , il
componente più importante ,e cioè il cloro, poiché non c’è nessun motivo, scientificamente valido, per sostenere che
il coke possa essere paragonabile al cloro o possa rappresentare una fonte di
cloro.
A parte il
fatto che in nessuna fase del processo
risulta la presenza del cloro, si
sottolinea come comunque quel procedimento risulterebbe utilizzato in Italia
molti anni fa , per essere poi
sostituito dal processo Bayer , mentre è negli anni 60-80 che , secondo la stessa difesa, si sarebbe
verificata la maggior parte dell’inquinamento .
Non si
comprende poi la critica relativa all’utilizzo delle tabelle del Protocollo
d’intesa del 93 come parametro per la
valutazione della sussistenza o meno del pericolo, atteso che lo stesso PM.
aveva sollevato la questione e che comunque i dati presentati in aula su
linee guida internazionale mostravano
chiaramente la pericolosità ambientale dei sedimenti di Porto Marghera.
Non può poi essere condiviso l’esito negativo del
controllo ,diretto a verificare la presenza di diossine o furani o IPA negli
inceneritori , perché la loro presenza
risulta da un documento di provenienza
aziendale -una lettera che l’ing
Paoli inviava al direttore dello stabilimento per comunicare i flussi di
microinquinanti organici dello
stabilimento.
Da quel documento e dagli allegati si evince che i
lavaggi dei filtri degli inceneritori
CS 28 provocavano nel 1994 ,un flusso d’acqua e nerofumo contenente
PCDD/F,che dopo neutralizzazione ( correzione di PH solamente) venivano
scaricati direttamente in laguna (anno
1994).
3.7.2 La tecnologia per la realizzazione
degli impianti di trattamento chimico –fisico –biologico delle acque
reflue industriali era disponibile
negli anni 50
Osserva
il P:M come le affermazioni contenute sul punto nella sentenza , alle pagine
777-780 , con riferimento alla tesi dell’ accusa , secondo cui il depuratore
biologico poteva farsi negli anni 50 ,
siano generiche, perché la tesi accusatoria non poteva venire smentita
in quanto fondata su documentate conclusioni.
Le
affermazioni del Collegio nelle citate pagina della sentenza trovano invero
una puntuale smentita nelle
argomentazioni e nella documentazione illustrata dal PM nelle conclusioni
dibattimentali del giugno 2001 che il
tribunale non ha minimamente considerato.
3.7.3 Gli scarichi idrici
Viene
quindi esaminata la sentenza nelle parti, da pagina 717 a pagina 725, laddove
si ritiene infondata la tesi dell’accusa ,secondo cui gli scarichi del
Petrolchimico sarebbero stati effettuati in violazione del divieto di
diluizione.
Premesso
che la diluizione attuata in particolare sullo scarico principale SM15 dello
stabilimento è pacificamente ammessa
in fatto da tutti , rileva il PM
come secondo il Tribunale, la
diluizione non era vietata dalla normativa vigente e che comunque ,anche se
comportava il superamento della
concentrazione limite per numerosi inquinanti –fatto anche questo ammesso ma qualificato come reato contravvenzionale-
non determinava condizioni peggiorative
dello scarico.
Risulta
dall’esame delle tabelle riportate nell’atto d’appello e contenute nella relazione del prof Foraboschi
-relative agli scarichi SM15 e
SM 22- che le concentrazioni delle sostanze inquinanti –azoto nitrico, solventi organici aromatici,
clorurati organici 2° gruppo – superano i valori limiti massimi di legge , in
rilevante percentuale , e che mediamente si mantengono vicino ai valori limite
mentre la legge chiede che le
concentrazioni siano in ogni momento inferiore al limite.
Il
rispetto dei limiti di concentrazione ed il conseguente non superamento in
nessuna occasione delle concentrazioni
limite .avrebbe comportato il contenimento del contributo inquinante a livelli sempre inferiori al 10%del valore
limite.
La
sintesi delle valutazioni tecniche è che quanto maggiore è la portata dello
scarico, a parità di concentrazione,tanto maggiore è il carico inquinante
addotto nel corpo recettore e quindi il contenimento dell’impatto ambientale passa attraverso il contenimento della portata dello scarico .
Con la diluizione si ottiene l’effetto
opposto, in quanto l’aumento della portata ,ottenuta miscelando il flusso delle
acque inquinate da determinati inquinanti- utilizzando acque pulite o
contaminate con altri tipi di inquinanti - determina automaticamente la
possibilità di scaricare quantità di inquinanti che non sarebbero consentiti,
se ciascun flusso di acque inquinate fosse
scaricato separatemene o se , come richiede la legge i limiti fossero
applicati a ciascun singolo flusso
prima della miscelazione .
Viene
quindi contestata la sentenza nella parte - da pagina 726 a pagina 736-in cui
ritiene infondata la tesi accusatoria,secondo cui il superamento dei parametri
di accettabilità di cui al D.P.R n 962/1973 determinò condizioni peggiorative
dello scarico delle acque
Le valutazioni del Tribunale vengono
contestate in base alle conclusioni del CT del P.M ,svolte nella udienza del
15-5 e nella relazione del 26-5-2001 che sono le seguenti: gli scarichi idrici
del Petrolchimico hanno presentato e tuttora presentano rilevanti frequenze di
casi di superamento dei limiti
stabiliti dalla legge per ciascun inquinante; la frequenza di tali superamenti
è andata decrescendo dagli anni 70- 80
agli anni 90,ma rimane tuttora superiore all’1%; la affermazione del
consulente della difesa fatta propria dal Tribunale, secondo cui il contributo
inquinante degli scarichi non avrebbe peggiorato le condizioni delle acque
lagunari nell’arco temporale considerato e ciò sia per la natura delle
sostanze, sia per l’entità e quantità di tali superamenti , rimane priva di
giustificazioni ed è invece vero il contrario cosi come dimostrato dalle
condizioni di permanente contaminazione delle acque e dei sedimenti lagunari.
Va
invero osservato come il collegio incorra in errori fondamentali sulla base delle seguenti considerazioni.
Innanzitutto
va chiarito che la normativa sulla
tutela delle acque
dall’inquinamento si è
sempre, fin dalle sue origini,
basata sulla fissazione di valori
limite della concentrazione degli
inquinanti –stabiliti in apposite tabelle variabili in base alle conoscenze
scientifiche -che non possono essere in
alcun caso superati .
La
tesi della difesa ,accolta dal Tribunale, secondo cui la fissazione di limiti
di concentrazione massimi sarebbe
invece frutto di un compromesso ,per
facilitare l’azione di campionamento e controllo, non è condivisibile, perché,
se per assurdo fosse vera ,consentirebbe anche seppur per periodi limitati, di
scaricare elevate concentrazioni di
inquinanti , tali da costituire un vero veleno per la vita acquatica del corpo
recettore senza che si abbia il superamento dei valori medi .
Peraltro quando il legislatore ha voluto
applicare il criterio dei valori medi lo ha precisato nella norma , come ha
fatto in materia di tutela contro l’inquinamento atmosferico, dove sono appunto
previsti dei valori di concentrazione media nel tempo.
Per
taluni inquinanti ,il tempo ,su cui si devono mediare le concentrazioni, è una
settimana per i macroinquiannti la media
è annuale
Va anche aggiunto che quando si fa riferimento
a valori medi di concentrazione da non superare, questi evidentemente
variano a seconda del tempo nel quale i valori vengono mediati.
In
particolare il valore limite diventa più basso quanto piu lungo è il tempo su
cui le concentrazioni vengono mediate ed è per tali considerazioni che il ragionamento del Tribunale non può essere
condiviso.
3.7.4
Rifiuti e inceneritori
1.
Le interpretazioni normative
Le normative specifiche inizialmente
riguardanti la laguna di Venezia e poi
estese a tutto l’ambito nazionale sul
contenimento dell’inquinamento delle acque e del suolo sono la legge Merli 319/76,
recante norme contro l’inquinamento delle acque ,e
il DPR 915/82 concernente lo smaltimento dei rifiuti.
Le
predette normative data la finalità di tutele di un ecosistema delicato e unico
doveva essere rigorosa ed a
interpretazioni rigorose si è
attenuta la Corte di Cassazione.
Dalle dichiarazioni dei tecnici della difesa
risulta invece che l’adeguamento degli scarichi idrici ai limiti di legge è avvenuto
solo nel 1983, ben 10 anni dopo la promulgazione della legge
I limiti di legge poi in realtà non risultano
sempre rispettati neppure dopo.
2
Le soluzioni impiantistiche e gestionali
L’impianto di incenerimento CS 28 dei residui clorurati installato nel
1972 aveva evidenziato forti carenze come risulta dalla relazione dei CC.TT di
medicina democratica ,soprattutto a
causa di forti carenze del materiale costruttivo , che risultava evidentemente erroneamente scelto sulla base solo di
criteri di risparmio economico .
3 La gestione dei rifiuti
Nulla dice poi la sentenza sugli altri
impianti di incenerimento dei rifiuti esempio il primo impianto di
incenerimento di reflui liquidi del reparto TD (anno 1972) -per cui erano state
evidenziate carenze impiantistiche - l’impianto di incenerimento del nerofumo
del reparto AC1(anno 1968), anch’esso privo di sistemi di abbattimento degli
inquinanti , nè su quello della produzione del cloro con celle a catodo di mercurio , di cui si è parlato in precedenza
e per cui il mancato utilizzo delle piu
avanzate tecnologie ( celle a diaframma o
celle a membrana) avrebbe
consentito di evitare il rilascio nell’ambiente di mercurio e diossine.
3.7.1
Piu
volte sono state trattate le problematiche ambientali connesse ai sistemi di
convogliamento e trattamento (torce e
blow down) degli scarichi di emergenza ,derivanti dai dispositivi di protezione
delle apparecchiature.
1)Raccolta
e convogliamento degli sfiati
I
recipienti chiusi che contengono fluidi pericolosi , se possono raggiungere
elevate pressioni, devono essere dotati di dispostivi di sicurezza per il caso di scoppio e quando questi
dispositivi entrano in funzione , il contenuto viene rilasciato in tutto o in parte e convogliato in un sistema di raccolta
blow- down ,cosi come impongono norme di buona tecnica e tutela ambientale.
2)Abbattimento degli inquinanti
Osserva
l’accusa come presso il polo chimico di Marghera almeno fino al 1993 la regola
era invece quella dello scarico diretto nell’atmosfera degli sfiati di
emergenza , regola che contravveniva alle norme di buona tecnica secondo cui:
lo
scarico diretto nella atmosfera è vietato quando:
a)
è vietato dalla legislazione locale;
b)
quando il fluido scaricato abbia
temperatura superiore a quella di autoaccensione;
c)
quando il fluido presenti caratteristiche di tossicità;
d)
quando la corrente da scaricare sia un liquido infiammabile, tossico o comunque
pericoloso;
Nel
caso degli scarichi di emergenza contenenti 1,2 –DCE o CVM ricorrono le
condizioni di cui alla lettera b e/o
della lettera c e d.
3) Le
soluzioni adottate dal Polo chimico, emissione da un camino a quota elevata o
combustione in una torcia posta alla sommità di un alto camino ,contrastano le
regole della buona tecnica in quanto non garantiscono né il contenimento nè
l’abbattimento degli inquinanti pericolosi .
La
prima soluzione comporta solo la diluizione degli inquinanti ,aumentando però
la popolazione esposta e non doveva
pertanto essere usata per fluidi tossici o cancerogeni
La
seconda non doveva essere utilizzata per quelle sostanze –quali il CVM - la cui
combustione produce sostanze ancora piu
tossiche
Solo
nel 1993 risulta essere stato installato un inceneritore in cui sono inviati
tutti gli sfiati normali e di emergenza degli impianti .
4)La
disponibilità della tecnologia blow down
La tecnologia per attuare la installazione di
appropriati sistemi blow-down sugli impianti era disponibile dagli anni 60 ed
era ben nota all’interno del gruppo.
Tali sistemi di scarico sono stati installati
negli anni 70 preso gli impianti macro
e micro pilota del centro ricerche della Montedison di Castellanza e nel 1974 presso lo stabilimento di Ferrara.
5)
Utilizzo
per gli impianti di produzione del cloro-soda del processo con celle a catodo
di mercurio e mancata adozione della tecnologia disponibile prima con celle a diaframma e poi con celle a membrana.
Il P.M espone su questo punto le sue
critiche alle affermazione infondate
contenute nella sentenza laddove il Tribunale afferma che l’approntamento di impianti di cloro
soda con celle a membrana era in uso
dalla prima metà degli anni 70, solo però a livello sperimentale, mentre fino
agli anni 80 il sistema predetto non funzionava efficacemente a
livello industriale.
Risulta infatti dalle prove acquisite che al
contrario erano in produzione da metà degli anni 70 impianti di cloro soda con
celle a membrana e risulta provato comunque che, negli Stati uniti ,per la
produzione del cloro-soda fin dagli anni 72 venivo usato il processo con celle
a diaframma , che è meno energivoro di quello catodo di mercurio.
6)
Effluenti e residui mercuriali originati dal processo cloro-soda presso il
Petrolchimico di Porto Marghera
Il ciclo produttivo in questione comporta pesanti
impatti ambientali con la emissione di rilevanti quantità di reflui di processo
tra cui i fanghi mercuriali,contenenti alti tassi di mercurio , che risultano
essere stati tumulati tra gli altri siti nella località di Marano ( vedi
documentazione ispettore forestale )
7)Disponibilità della tecnologia impiantistica per la
depurazione dei reflui derivanti dal processo cloro-soda e la sua mancata adozione presso il Petrolchimico di Porto Marghera
Nonostante esistessero dagli inizi degli
anni 60 tecnologie impiantistiche che consentivano la depurazione delle
acque reflue in questione fino al limite di concentrazione finale di 5 p p b (5 parti per miliardo), di mercurio , per 31 anni dal
1951 al 1982 la società ha gestito gli
impianti cloro soda senza dotarli dei sistemi di depurazione , essendo stato installato il primo impianto di
demercurizzazione solo nel dicembre del 1982
.
8)
Disponibilità della tecnologia delle
celle elettrolitiche a membrana nel processo cloro- soda e la sua mancata adozione presso il Petrolchimico di
Portomarghera
Le celle elettrolitiche a membrana erano disponibili
sul mercato da oltre 25 anni.
La società americana Diamond Shamrock ,a meta degli
anni 70, aveva gia realizzato e messo in produzione sei impianti con la
tipologia delle celle elettrolitiche a membrana.
Inoltre negli
stessi anni (1975-1977) la società aveva in studio altri 40 progetti per
impianti Cloro –soda con celle elettrolitiche
a membrana .
Nei primi
anni 80 la società Rumianca
realizzava la progettazione di un impianto con celle elettrolitiche a
membrana che poi costruiva nel 1984 e faceva entrare in produzione nel 1986.
Solo nel 1988 ,con 15 anni di ritardo anche in questo caso, la società Montedison si
impegnava con il ministero dell’Ambiente a sostituire da subito le celle a
catodo di mercurio con quelle a
membrana nei suoi impianti.
9)Riduzione dell’impatto ambientale attraverso l’adozione
dell’ossigeno puro in luogo dell’aria nel processo produttivo dell’1,2
dicloroetano
Con l’adozione
negli impianti CV 22 e 23 della migliore tecnologia disponibile, che
comportava la sostituzione dell’ossigeno puro in luogo dell’aria , nel processo
produttivo dell’1,2, DCE si sarebbe notevolmente ridotto l’impatto ambientale
Ed invece,
nonostante i noti vantaggi anche sotto un profilo di rendimento del prodotto,
oltre che sotto il profilo ambientale,
derivanti dalla adozione delle tecnica sopradescritta- già da tempo adottata da
molte imprese- la società continua tuttora a produrre con il vecchio
processo ad aria nonostante il suo maggiore impatto ambientale .
3.3.2 Omessa
applicazione della normativa
concernente lo smaltimento dei rifiuti in relazione agli apporti idrici tali da qualificarsi rifiuti tossico nocivi
e/o rifiuti pericolosi,con conseguente
divieto di loro sversamento nelle acque
della laguna di Venezia
Rileva il P.
M come l’istruttoria dibattimentale
abbia evidenziato,mediante prove
documentali che ci sono stati ripetuti
scarichi in fognatura di acque di lavaggio della pulizia delle autoclavi ,
fortemente contaminate da CVM la cui
presenza aveva anche fatto , in alcune occasioni, scattare nei reparti gli allarmi per la quantità di CVM che
si diffondeva nella atmosfera durante le operazioni di scarico.
La provenienza e la contaminazione delle acque di cui
sopra non ne consentiva lo scarico- non
autorizzato né autorizzabile-
essendo la sostanza
contaminante una di quelle indicata al
punto 3.6 della tabella 1.3 contenuta nelle Delibera Interministeriale di cui all’art 5 D.P.R 10-9-1982 n 915 in data
27-7-1984 .
In base a
tale disposizione le acque avrebbero infatti dovuto essere considerate
rifiuti pericolosi ( un tempo rifiuti
tossico nocivi).
Il Tribunale
invece aveva escluso che gli apporti liquidi provenienti dai reparti
CV 22.23 e CV 24.25 dovessero essere classificati come rifiuti liquidi pericolosi
, escludendo altresì che la loro confluenza nello scarico generale SM15
attribuisse allo stesso la medesima qualità di rifiuto tossico nocivo o pericoloso
Rileva quindi il PM come la decisione del Tribunale si fonda su due premesse entrambe
errate .
La prima è la affermazione che la delibera
interministeriale non ha introdotto un principio di presunzione di tossicità
del rifiuto in ragione della sua provenienza .
La seconda è
la affermazione che una eventuale presunzione sarebbe incompatibile con il
principio costituzionale di presunzione di non colpevolezza
La Corte di
Cassazione ha infatti affermato al
contrario il principio secondo cui la tossicità di un rifiuto deve essere
valutata in relazione alla sua provenienza
e quindi il Tribunale ha commesso un primo errore.
Dalla seconda
erronea premessa deriva l’affermazione che gli scarichi delle acque di
processo, provenienti dai reparti CV 22/23 e CV 24/25 ,non appartengono alla
categoria dei rifiuti, e sono invece sottoposte alle disciplina relativa agli scarichi idrici.
Ed a fondamento di tale affermazione il
Tribunale pone i principi contenuti nella nota sentenza
della C.C Sezioni unite del 1995.
Ma l’interpretazione
che il Tribunale dà alla citata sentenza non è corretta ,non essendo mai stata utilizzata dalla
giurisprudenza la distinzione tra rifiuto liquido e rifiuto solido per
distinguere la disciplina da applicare al singolo caso.
Ne consegue che il Tribunale ha commesso un secondo errore interpretativo
Va quindi chiarito,secondo l’accusa al fine di
correttamente applicare le norme in
questione che lo scarico proveniente dai reparti CV 22/23 CV 24/25 va a
confluire nell’impianto di trattamento denominato SG 31 ,gestito da un soggetto
diverso da quello titolare dello scarico , per cui ci si trova in presenza di
uno scarico indiretto.
Per scarico
indiretto si intende quello in cui il rapporto tra le acque di processo ed il
corpo recettore sia interrotto
dall’attività di un soggetto diverso dal produttore dello scarico,al quale quest’ultimo
conferisce il liquame per avvalersi dell’impianto di depurazione da quello
gestito.
Ed allora una
prima ragione per escludere l’applicabilità della normativa in materia di
scarichi idrici allo scarico in
questione è rappresentata dal fatto che
si tratta di scarico indiretto ,e come tale quindi, escluso dalla
disciplina dettata per gli scarichi idrici ed assoggettato alla disciplina
normativa sullo smaltimento dei rifiuti ,per effetto delle disposizioni
contenute nell’art 36 D. LG vo 152/99, che
stabilisce appunto come per scarico debba intendersi il riversamento
diretto nei corpi ricettori, con la conseguenza che quando il collegamento è
interrotto ,viene meno lo scarico.
A sostegno di quanto affermato viene citata una
sentenza della C.C del 1999 –Sez III 24-6- 1999 est Onorato - che richiama il D .Legislativo 152/99 e la sentenza della C.C
del 1995 erroneamente interpretata dal Tribunale , con la
precisazione che la interpretazione ,
di cui alla prima sentenza citata , è conforme a quella elaborata in precedenza e cioè prima dell’entrata in vigore del citato D. LG .vo , e secondo tale interpretazione i rifiuti liquidi che potevano , per le loro
caratteristiche,essere qualificati tossico nocivi ,dovevano essere sottoposti
alla più rigorosa disciplina dettata per lo smaltimento dei rifiuti tossico
nocivi.
Tanto risulta con chiarezza anche dalla sentenza delle Sezioni unite ,che il
Tribunale ha male interpretato, nonostante
sia stato chiaramente detto dalla Corte stessa, nella descrizione dei criteri ai quali ci si deve
attenere per stabilire se deve essere applicata la normativa in materia
di acque o quella in materia di rifiuti, che proprio secondo uno dei criteri utilizzati per la
distinzione , è prevista la inclusione nel
DPR 915/82 (art 2,6° comma ultima parte
) dei liquami e fanghi ,quando siano tossico nocivi .
E lo stesso principio viene ribadito nella
sentenza laddove ,dopo avere affermato
che le fasi di smaltimento dei rifiuti
liquidi attinenti allo scarico sono soggette alla disciplina stabilita dalla
legge 319/76, viene fatta salva l’unica eccezione dei fanghi e liquami tossico
nocivi che sono invece sotto ogni profilo , regolati dal d.p.r n 915.
Su tali interpretazioni non risultano esservi stati
contrasti giurisprudenziali per cui non potrebbe neppure invocarsi la buona
fede o l’ignoranza del precetto penale
,dovuta ad errore giustificabile ex art 5 c p per la presenza di decisioni
contraddittorie .
La terza
erronea valutazione si è risolta in una
serie di errati apprezzamenti di fatto.
Il Tribunale da infatti atto degli accertamenti fatti
dal C. T della accusa Cocheo, (
utilizzando i rilievi di un gascromatografo che controllava la concentrazione
di CVM nella vasca di
neutralizzazione posta immediatamente prima dell’impianto di depurazione dello
scarico SG 31) dai quali è risultato il superamento dei limiti di
concentrazione del CVM. -fissati nella
delibera Interministeriale . del 1984 perché il rifiuto possa essere
considerato tossico nocivo - ma
sostiene che il superamento dei
limiti, accertato in sole 10
occasioni, non sarebbe sufficiente ad
attribuire la qualifica di rifiuto tossico nocivo a tutta l’acqua in uscita dallo scarico SM1510
Ma nel suo
ragionamento il Tribunale commette
degli errori ;avrebbe infatti dovuto – dopo aver rifiutato il primo criterio
proposto e cioè quello della
qualificazione desunta dalla semplice provenienza da lavorazioni che producono
rifiuti tossico nocivi- accertare se le acque provenienti dai citati reparti
contenessero o meno CVM e nel caso
affermativo se la sua concentrazione
fosse superiore al limite fissato dalla delibera interministeriale del
1984.
Accertata la tossicità si sarebbe poi dovuto valutare
quali fossero sotto il profilo giuridico le conseguenza della eventuale
miscelazione con altri rifiuti liquidi
convogliati in laguna dallo scarico SM15.
Il Tribunale
avrebbe poi dovuto ricordare , e non lo
ha fatto, il divieto assoluto contenuto nella Delibera del 1984 . di miscelazione dei rifiuti tossico nocivi con
qualsiasi altro rifiuto .
Comunque
accertato che, anche in una sola occasione, la concentrazione di CVM era
superiore al limite stabilito dalla relativa normativa, il rifiuto doveva
essere qualificato come tossico nocivo e
come tale trattato e smaltito e non avrebbe invece dovuto essere
smaltito in acqua, attraverso un normale impianto di depurazione, che non era
mai stato autorizzato allo smaltimento
dei rifiuti tossico nocivi.
La modalità di smaltimento dei rifiuti tossico nocivi praticata dal Petrolchimico era
rigorosamente vietata dall’art 9 u.c. DPR. 915/82 .
Il Tribunale ha poi affermato che i risultati del
consulente del PM. Cocheo erano
inattendibili , sulla base dei rilievi fatti dal consulente della difesa
Foraboschi , ma non ha poi consentito al consulente del PM di ribadire ai
rilievi critici fatti da quello della difesa
, le cui conclusioni sono errate come emerge anche dalla lettura della
memoria che in sede di replica era stata
depositata dalla parte civile
per confutare gli errori ed i travisamenti operati dal CT Foraboschi.
Il Tribunale ha ancora fatto affermazione infondate,
quando ha ritenuto che non esisteva alcun collegamento permanente
tra la fognatura dei reparti di produzione del CVM/PVC \e le vasche di neutralizzazione
; che solo fino al 1995 vi era la
possibilità di qualche sforatura per
quanto riguardava le acque reflue del reparto CV 22/23, mentre non esisteva
alcuna possibilità per quanto riguardava il reparto CV24/25 ; non è invero dato
di capire da quale elementi probatori il Tribunale derivi le predette non
veritiere affermazioni.
Va semmai
evidenziato come il contrario risulterebbe dalla domanda di
autorizzazione del 1996, che contiene
la descrizione del percorso della acque di processo provenienti dai reparti ed
indica il loro collegamento con le reti fognarie e l’impianto di depurazione.
Certo risulta comunque che nelle acque di fognatura
dei reparti finivano le acque di lavaggio delle autoclavi , cosi fortemente contaminate dal CVM
da provocare allarmi
all’interno dei reparti
Ed invero la
presenza di CVM nelle vasche di
neutralizzazione era ben conosciuta
dallo stesso gestore che, sopra le vasche ,aveva messo un gascromatografo per
misurare la quantità di CVM che dalle vasche evaporava .
Quale fosse la
situazione dello scarico risulta
comunque dalla documentazione prodotta dalla stessa azienda nel 1996, quando
l’impianto era stato sequestrato dalla autorità giudiziaria ed il Magistrato alla acque aveva
sollecitato la presentazione di una relazione tecnica più dettagliata sulle
caratteristiche dell’impianto.
Da quella
stessa documentazione risulta: che sono
stati avviati all’impianto SG31 liquami che avevano le caratteristiche dei
rifiuti tossico nocivi in base alla
tabella 1.3 delle delibera ,nonostante il divieto contenuto nell’art 9 ultimo
comma DPR915/82, che i predetti rifiuti
sono stati trattati come se si trattasse di un normale scarico idrico ,
mentre il loro coretto smaltimento avrebbe dovuto avvenire soltanto con il ricorso all’incenerimento o in alternativa con il conferimento in discarica, .che i
predetti rifiuti sono stati miscelati con altri reflui provenienti da diversi
reparti ,in violazione di quanto previsto dall’ultimo comma del punto 1.2 della
citata Delibera e del principio contenuto all’art 4 lettera ) e DPR 915/82
che sono state effettuate tutte le fasi
di smaltimento dei predetti rifiuti in assenza di autorizzazione con la
conseguenza che il produttore si è
sottratto al preventivo controllo da parte delle autorità amministrative.
Risulta quindi
provata una condotta contraria a specifiche disposizioni di legge, e
pertanto colposa, protrattasi per decenni e concretizzatasi nello scarico in laguna di tonnellate di
rifiuti idrici tossico nocivi perché contaminati da CVM.
Conferma della fondatezza della ipotesi accusatoria
si trova oltre che nella documentazione
di cui sopra anche in quella
contenuta nel faldone 102 acquisito dal Tribunale in data 8-5-2001
Risultando accertata la violazione del DPR 915/82
relativa allo smaltimento dei rifiuti, la assoluzione degli imputati dalle
relative contravvenzioni è ingiusta e
deve essere riformata.
III parte –sentenza
Capitolo V
Ipotesi
e prove in tema di avvelenamento (452 e
439 c.p) e /o adulterazione (452 e 440 c p) del biota vivente sul sedimento dei
canali della area industriale
5.1 Introduzione
Sinossi della motivazione sulla insussistenza di
pericoli alimentari tipici dell’avvelenamento e della adulterazione.
Premessa : le caratteristiche quantitative e
qualitative della presenza di inquinanti ,rilevate in traccia nel biota vivente
nei sedimenti dei canali dell’area industriale, non permettono di ritenerne
l’attitudine a farsi causa iniziante di
effetti avversi alla salute in quanto le classi di esposizione, suscettibili di derivare dalla assunzione tramite
la dieta del biota in questione, sono distanti ordini di grandezza da quelle-
seppure solo potenzialmente- capaci di produrre effetti avversi.
Nella prospettiva accusatoria la questione della reale
attitudine delle sostanze di cui si discute
a recare nocumento alla salute è invece rimasta in secondo piano,
ritenendo l’accusa la sussistenza di
pericoli alimentari, a prescindere dal riferimento ad una giustificazione e
proponendo di desumerne l’esistenza da
generalizzazioni non pertinenti.
Significativo osserva il Tribunale è il fatto che
l’accusa non abbia ritenuto di allegare adeguata informazione
sulle classi di esposizione – dosi- al cui livello l’esperienza clinica e/o
l’osservazione epidemiologica riconosce essere stati osservati minimi effetti
nell’uomo.
Secondo
l’accusa, il pericolo che connota la fattispecie dell’avvelenamento e della adulterazione può essere desunto dalla violazione di
norme tipiche della legislazione
complementare e accessoria penale ed extrapenale che affiancandosi ai delitti contro l’incolumità pubblica
,realizzano forme di tutela anticipata di tale bene.
Esempio
tipico il D. Lvo 30-12-1992 n.530
di attuazione della direttiva 91/492/CEE che, stabilendo parametri di edibilità per il consumo umano dei
molluschi, stabilisce tra l’altro che non devono contenere sostanze tossiche o
nocive di origine naturale o immesse nell’ambiente, quali quelle elencate
nell’allegato A) del D lvo 27-1-1992 n131 ,in quantità tali che l’assunzione di
alimenti calcolata superi la dose
giornaliera ammissibile per l’uomo (c.d. D G. A e in inglese A.D.I accetable
daily intake o T.D .I. tollerable daily intake ).
E la maggior parte dell’istruttoria ha infatti riguardata tale tipo di accertamento
con esito negativo in quanto è
risultato provato che le dosi suscettibili di derivare dalla assunzione tramite
la dieta di quel pescato non sono
riconducibili alla classe di
dosi capaci di superare i c. d limiti
soglia.
Viene a questo punto precisato che il limite di
assunzione delle sostanze tossiche negli alimenti ,cd valori soglia, viene
operato applicando dei fattori di correzione
che comportano la distanza di ordini di grandezza dalla dose di assunzione che non ha
provocato effetti tossici in sede
sperimentale su animali – cd noael no observed adverse effect level.
Dopo avere premesso
che verrà nel prosieguo spiegato cosa sono i limiti soglia viene comunque anticipato che vengono
determinati applicando dei fattori di
correzione che realizzano la distanza
di ordini di grandezza dalla dose che non ha provocato effetti tossici – NOAEL-
e che pertanto il limite soglia-
espressione del principio di precauzione- non indica la misura del pericolo reale.
E tanto è provato anche dal fatto che il superamento del limite soglia o D. G. A
non è sanzionato penalmente ma solo in
via amministrativa o convenzionale.
Comunque il programma probatorio diretto a confrontare la dose idealmente assumibile
tramite la dieta di vongole di provenienza dall’area industriale e la D. G .A. –dose soglia- una volta eliminata ogni
incertezza sulle caratteristiche -tossicologiche degli inquinanti non risulta
provato essendo stato accertato il contrario.
Sia per quanto riguarda i metalli e gli altri microcontaminanti di interesse, come per
quanto riguarda le diossine e il P.C.B.
, risulta provato che, anche per i forti consumatori, un ipotetico consumo di
vongole provenienti dall’area industriale non eroderebbe l’ampio margine di protezione “1-4-picogrammi
/ kg di perso corporeo / die” e cioè il valore soglia individuato dalla Organizzazione mondiale per la sanità e
adottato anche dalla Commissione europea per la protezione alimentare,
parametro di riferimento
dell’esposizione sicura a tali tipi di sostanze , determinato applicando il principio di precauzione.
A tali conclusioni il tribunale rileva di essere pervenuto utilizzando -
secondo i criteri usati anche nei documenti delle agenzie regolatorie - per la
corretta determinazione della dose di
assunzione individuale, dati di concentrazione e di consumo medi sul lungo
periodo ( sia la concentrazione come
il consumo sono dati necessari per determinare la esposizione giornaliera ), ed , alla accertamento della
insussistenza di pericoli alimentari
suscettibili di derivare dalla dieta costituita dal biota di provenienza
dall’area industriale , è pervenuto
sulla base dei dati di concentrazione degli inquinanti emersi dalle relazioni degli stesse
consulenti tecnici delle accusa.
Essendo però venute in luce notevoli differenze, per
quanto riguardava la concentrazione
degli inquinanti , tra accusa e
difesa era stata ritenuta
concordemente la opportunità di affidare la analisi ad un consulente esterno
che, le parti stesse avevano concordemente individuato nel laboratorio M. P.U. di Berlino, luogo di espletamento della analisi a cui le
parti tutte hanno partecipato.
E i risultati delle analisi hanno dimostrato come i
valori di concentrazione degli inquinanti , indicati dal consulente della accusa
Raccanelli siano inattendibili -in quanto di gran lunga superiori a quelli accertati nel laboratorio di Berlino,
che sono risultai invece
corrispondenti a quelli resi
noti da altri consulenti della accusa-
e come siano invece attendibili quelli delle difese, ,atteso che,
quelli quelli originariamente discussi e determinati dagli esperti delle
difese sono risultati superiori quelli
emersi dalle analisi di Berlino .
Comunque ,sia seguendo i dati della analisi di
Berlino, come quelli precedentemente rilevati dalle difesa,utilizzando quindi sia i valori medi di concentrazione
acquisiti prima come i valori medi ottenuti dalle analisi di Berlino , ed a
maggior ragione secondo questi dati ,i
valori di concentrazione cumulativa per diossine più P. C .B sono risultati compatibili con il valore
soglia che applicando il principio di
precauzione , l’O. M. S ha
indicato nel 1998 ,sia per l’esposizione del medio consumatore come per
l’esposizione del forte consumatore .
E se non risulta superato il limite soglia a maggiore
ragione non sono ipotizzabili i
supposti pericoli alimentari .
Riassumendo quanto sopraesposto rileva in conclusione
il Tribunale come l’accusa abbia cercato di dimostrare la sussistenza del pericolo attraverso il
confronto delle concentrazioni di inquinanti e dei conseguenti livelli di esposizione tramite la dieta con misure – i valori di soglia – lontane ordini di grandezze dai livelli degli effetti osservati negli
endpoints più sensibili, non riuscendo in tale intento perché l’evidenza
probatoria disponibile è di segno
contrario a tale proposizione.
Il Tribunale poi non condivide le ipotesi
interpretative secondo cui il pericolo tipico dei reati di avvelenamento e
adulterazione viene retrocesso a
parametri tipizzati da leggi
extrapenali o da agenzie regolatorie.
Per quanto
riguarda infine, in particolare , le
diossine si osserva come l’accusa
abbia sostenuto che il valore soglia definito dalla O.M.S. nel 1998
non è adeguato alle esigenze di protezione delle fasce di popolazione più
sensibile. Sul punto va fin d’ora
chiarito che la O. M .S ha applicato , dovendo definire la misura della
precauzione ,contenuti di ricerca scientifica , per la definizione del valore soglia,
ultraprudenziali per le esigenze di protezione
delle fasce di popolazione più sensibile e per tutti gli effetti
possibili.
E l’O.M.S. stabilisce che debba essere ritenuta
adeguata , alla necessità di protezione di tutta la popolazione ,una
esposizione a dosi dieci volte
inferiori a quelle che non sono ritenute capaci di produrre effetto ( Noael), stabilendo con tale criterio
il T.D.I di 1-4 p g/ TEQ/ kg peso corporeo /die.
Ed alla luce
di tali considerazioni appare evidente come sia ingiustificato sostenere la
inadeguatezza del valore soglia indicato per le diossine dalla predetta organizzazione.
L’assoluzione degli imputati dai reati di
avvelenamento e adulterazione risulta conseguente all’accertamento che le dosi
di assunzione del consumatore medio
e del forte risultano non sussumibili
sotto le classi idonee a dar luogo ad un qualunque effetto avverso; che le dosi
predette non sono sussumibili sotto quelle vietate dalla legge speciale o sotto
valori non normali; che le diossine e
/o le diossine simili non sono sussumibili sotto la classe di quelle capaci di
superare il valore soglia ,determinato , applicando il principio di
precauzione.
L’assoluzione consegue allo accertamento che i livelli di dose capaci di produrre effetti negativi sull’uomo sono
ordini di grandezza più elevati di quelli processuali; consegue altresì alla
evidenza probatoria che non permette di individuare nel catabolismo del
petrolchimico – quello dei tempi storici della imputazione- la matrice della
contaminazione del sedimento dei canali dell’area industriale.
E come rilevato anche dalla difesa se non
risulta provato il reato di
avvelenamento e adulterazione ,non risulta provato neppure quello di disastro
innominato ,che nell’ipotesi accusatoria li presuppone.
Per tali considerazioni che verranno ampiamente
esaminate nei capitolo che seguono l’accusa risulta del tutto infondata.
5.2 Resoconto delle tesi di accusa in tema di
avvelenamento e di adulterazione del biota
Le tesi accusatorie si richiamano a studi rilevanti
in ordine all’inquinamento del biota interpretandone in modo non corretto le
conclusioni.
Premesso infatti che certamente il sedimento dei
canali è inquinato e di conseguenza anche il biota sullo stesso vivente e che sull’inquinamento del biota
interferisce la componente
biodisponibile degli inquinanti ,la
questione rilevante nel processo e quella di stabilire in che misura ciò avvenga e con quali
conseguenze.
Si interessa di tale questione innanzitutto lo studio
di Baldassari. Ziemacki e Di Domenico
–anno1996- che non evidenzia situazioni di contaminazione del biota , nel
contesto della conterminazione lagunare, critiche per il consumo umano.
E le conclusioni del predetto studio, pur redatto
fini diversi da quello della valutazione
del rischio per l’uomo , per conto
dell’Istituto superiore della Sanità non sono dissimili da quelle prese da altri studiosi.
Nelle
conclusioni i tecnici di cui sopra hanno evidenziato in particolare che il
livello di concentrazione delle
diossine riscontrate nei pesci e nei molluschi dei canali della zona industriale è confrontabile con quello normalmente
riscontrato nei pesci e molluschi utilizzati per l’alimentazione umana
,provenienti da aree con impatto
antropico da moderato a trascurabile
Hanno gli
stessi tecnici anche osservato che, per quanto riguarda la contaminazione da
PCDD/F, sono state rilevate in letteratura concentrazioni di livelli superiori
oltre un ordine di grandezza- cioè 10 volte superiori- a causa di sensibili
contaminazioni ambientali locali.
Altre fonti accertano- vedi consulenza tecnica
Sesana Muller -che le concentrazione di
inquinanti non superano la scala dei
valori normali e che, in base alle
analisi di campioni prelevati nei canali della zona industriale, sono
compatibili con quelle che, secondo la disciplina normativa relativa alla
edibilità del prodotto, sono ammesse per legge ad essere distribuite per il
consumo umano diretto .
A tale
conclusioni è pervenuto anche il
consulente tecnico dell’accusa che ha però fatto le proprie
indagini orientate solo sui metalli pesanti assumendo come riferimento i limiti fissati dalla normativa italiana per la edibilità del prodotto .
IL riferimento normativo è costituito dal D.
Lgvo. 530/1992, specifico per il biota
di maggiore interesse processuale , e cioè i molluschi bivalvi ,che secondo quanto prescritto
nell’allegato A ) punto d) non devono
contenere sostanze tossiche o nocive , quali quella elencate nell’allegato A
del Dlgvo 27-1- 1992 n131 ,in quantità
tali che la assunzione di alimenti
calcolata superi la D .G. A o sia tale da alterare il gusto dei molluschi.
Il Dl gvo
530/1992 indica per ciascun contaminante , partendo dalla dose giornaliera ammissibile-(DGA) - la concentrazione
limite (CL).
Viene pero a
questo punto ulteriormente evidenziato come un modesto superamento della DGA o
del CL non significhi avvelenamento
punibile ai sensi dell’art 439 –440 c .p
Ritiene in
fatti il primo giudice necessario
evidenziare e ribadire come diversa sia la offensività degli illeciti
amministrativi, aventi per oggetto il superamento dei valori soglia ,dalla offensività dei delitti colposi di comune
pericolo.
Il consulente tecnici Sesana accerta ancora che per tutti i metalli
vengono rispettate le concentrazioni limite
,che fissano i requisiti di edibilità ,al di fuori dell’arsenico
Il
catabolismo del Petrolchimico non è
pero fonte di contaminazione da arsenico, mentre elevate concentrazioni di
arsenico si associano alle ceneri di
pirite che sono tra i rifiuti usati per
imbonire le aree della seconda zona industriale.
Altri studi
condotti per conto della mano pubblica-
studi di Marcomini, Zanette, D’Andrea e Della Sala -evidenziano la
insussistenza di pericoli alimentari e
la assenza di situazioni critiche anche per i forti consumatori ed anche con riferimento alle diossine
Ed infatti la
tesi accusatoria trova fondamento sulle valutazioni di altri consulenti
dell’accusa:Raccanelli e Zapponi
Valutazione del consulente dell’accusa Raccanelli
Premessa la difficoltà di accertare la causa
dell’inquinamento del biota non essendo possibile a differenza di quanto accade
per il sedimento usare il confronto tra le impronte rileva comunque il
consulente –tecnico come campioni prelevati nella zona
industriale risultino ricchi di furani
a basso grado di clorurazione e di octaclorofurano , con una presenza
molto bassa invece di diossine , mentre in altre zone di rischio , differenti
dal contesto dell’area industriale ,predominano le diossine sui furani, ciò che evidenzierebbe la provenienza dell’inquinamento
dal Petrolchimico.
La tossicità
di PCDD/F è espressa con una unità I –
WHO che comprende anche la tossicità
legata ai policlorobifenili detti diossina simili.
Il valore
massimo di concentrazione di tali
inquinanti risulta trovato in un
campione prelevato il 14-9-2000
dalla guardia di Finanza a pescatori di frodo
che presentava una
tossicità di 2,7 p g I –WHO/kg e comunque
nella maggior parte dei campioni risulta superato il limite di legge con
valori massimi proprio in prossimità dello scarico SM15.
In
particolare il consulente –tecnico
dell’accusa in sintesi evidenzia
come , dal confronto tra i campioni prelevati nell’area industriale e quelli
prelevati nella zona di Santo
Erasmo, risultino con riferimento
ai valori massimi:
concentrazioni anche 135 volte più alte per i PCDD/PCDF,
concentrazioni anche
86 volte più alte per l’HCB,
concentrazioni anche
6,7 volte più alte per gli
OCDF/OCDD .
Evidenzia
inoltre l’esperto dell’accusa che l’octaclorofurano è il congenere che
ha l’abbondanza relativa maggiore nei sedimenti industriali ,mentre
l’octaclorodiossina è il congenere che
ha abbondanza maggiore nei reflui civili e nella città di Venezia
Il fatto che
il rapporto tra OCDF e OCDD vada
progressivamente diminuendo man mano
che ci si allontana dalla zona industriale
conferma la provenienza della contaminazione dal Petrolchimico.
La tesi
accusatoria consegue alla premessa secondo cui dell’inquinamento delle acque
della zona industriale sarebbe responsabile solo il Petrolchimico , per cui
accertata la presenza delle diossine l’accusa ritiene raggiunto ed esaurito il suo programma di prove
Secondo il
consulente dell’accusa sarebbe sufficiente il consumo di 26 grammi di peso edibile di vongole per erodere il margine di garanzia
costituito dalla dose giornaliera
ammissibile per un adulto, ove si ponga che quelle oggetto di campionamento ed
analisi registrano valori di tossicità massima della misura di quella
sopraindicata..
Con
riferimento al valore di concentrazione
massimo di inquinanti riscontrato – quello del campione prelevato il 14-9-2000-
basterebbe mangiare 26 grammi edibili
di vongole per superare la soglia della
dose giornaliera ammissibile
Con
riferimento al valore medio di tossicità riscontrato nei campioni sarebbero
sufficienti 39 grammi di peso edibile
di vongole per erodere il margine di garanzia rappresentato dal valore –soglia
Valutazione
della consulenza d’accusa Zapponi
Sono le conclusioni a cui è pervenuto questo
consulente tecnico a consentire alla
pubblica accusa di portare a compimento la prova in ordine alle accuse
di avvelenamento e adulterazione delle sostanze destinate alla
alimentazione.
Le conclusioni del consulente partono dalla premessa
che la concentrazione media di diossina nei molluschi bivalvi dell’area industriale di Venezia
risulta essere dell’ordine di1.85 p g TE/g e dalla considerazione che la stima risulta essere stata fatta in difetto, senza
considerare il contributo inquinante
dei vari P C B- che sono stati invece considerati nello schema di tossicità
aggiornato dell’OMS.
E le
conclusioni finale cui il consulente è
pervenuto sono le seguenti .
1) il consumo di bivalvi provenienti delle aree più
inquinate della laguna comporta più di un raddoppio dell’esposizione di fondo(
quella che non si darebbe se non si
consumassero vongole )
2) il valore inferiore del limite OMS 1998( 1 p g T E
/K g p c /giorno) risulterebbe essere
superato nella ipotesi di un consumo normale di bivalvi locali
3) il valore superiore del limite dell’O:M S 1998 ( 4
p g T E /K g p c /giorno) è superato nella maggior parte delle ipotesi sopra
riportate - che esaminano il consumo di
50 g r / persona di bivalvi, di 100 grammi /persona e quantitativi maggiore
per forti consumatori )
6) nell’ipotesi
minima di esposizione , si verifica comunque una situazione di rischio
superiore a quella risultante dalle
verifiche fatte dalla US EPA, senza considerare il contributo dei PCB e un
rischio aggiuntivo superiore
considerando invece anche il contributo
dei PC B
Entrambe le
predette valutazione degli esperti non sono state ritenute attendibili dal Tribunale per le seguenti
ragioni espresse in modo sintetico : la esposizione giornaliera va determinata
come prodotto della concentrazione della
sostanza inquinante
nell’alimento per la quantità di
alimento assunto giornalmente, sul lungo periodo ed è infatti secondo questi
criteri che sono stabiliti i parametri di riferimento usati anche dalla accusa
; sia per la concentrazione come per il consumo deve farsi riferimento a dati
medi sul lungo periodo, non potendosi
prescindere da tale criterio per formulare il giudizio di compatibilità .
I consulenti
dell’accusa hanno invece utilizzato parametri dagli stessi stabiliti facendo riferimento a dati di consumo
abnormi e alle concentrazioni massime rilevate nelle varie campagne di
campionamento e confrontandole con le
ipotesi di superamento del valore soglia più restrittive indicate dalla O.M.S.
nel 1998 senza rendere mai giudizi in
termini di idoneità delle esposizioni
rilevanti a provocare pur minimi effetti avversi.
L’utilizzo
del termine consumo o assunzione sporadica o occasionale è estraneo al
concetto D.G.A o T .D.I. che fa sempre
riferimento a consumi protratti per
lungo periodo
In realtà un
lieve superamento del valori soglia non sarebbe comunque sufficiente a fondare
giudizi di idoneità a ledere della esposizione suscettibile di derivare dalla
assunzione del biota tramite la dieta .
Nel concreto
non risulta in ogni caso superato il valore soglia e le concentrazioni di inquinanti non sono riconducibili a quelle vietate dalla legge
Ancora i dati pertinenti alle concentrazioni di
inquinanti rilevate nel biota di
provenienza dell’area industriale sono risultati poco attendibili e non sono stati ciononostante espunti dalle
valutazioni degli esperti delle
parti e su di essi si fonda la
valutazione del Tribunale
5.3 Note a margine sul significato dei valori
limite pertinenti alla esposizione a sostanze tossiche
Informazioni sul processo di regolamentazione del
rischio e sulla individuazione dei parametri di protezione alimentare
Spiega
quindi il Tribunale come per garantire il risultato , cui mira il principio di
precauzione , la definizione del limite di protezione si attesti su misure che
sono molto lontane dalla dose, la cui assunzione non provoca effetti tossici
negli animali più sensibili ( NOAEL. No observable adverse effect level) e
di conseguenza nell’uomo.
Essendo i dati acquisiti attraverso esperimenti
esclusivamente eseguiti sugli animali, mediante la loro esposizione ad alte
dosi ,sono necessarie due estrapolazioni relative:
1) alla valutazione del rischio nel caso di una
esposizione a basse dosi
2) alla valutazione del dato sperimentale trasferendolo dall’animale all’uomo .
IL NOAEL rappresenta quindi la più elevata dose somministrata che non ha prodotto tossicità.
Al
NOAEL, per garantire la sicurezza nei confronti dell’uomo, vengono quindi applicati fattori di sicurezza ed è prassi comune che venga applicato un
fattore di sicurezza10 se il NOAEL è derivato da esperimenti sull’uomo , 100 se è derivato da studi sull’animale .
Con i fattori di sicurezza si vengono cosi a stabilire livelli di esposizione
ultraprotettivi per la salute umana .
Non si tratta
comunque di stabilire a quali livelli di esposizione l’uomo può ammalare,per
cui l’esposizione dell’uomo ad una dose lievemente superiore a quella del parametro di protezione, stimato secondo i
criteri di cui sopra, non significa probabilità di un effetto tossico .
La
determinazione del valore soglia ottenuta in base ai dati di correlazione dose
–risposta , ed in base alla successiva
applicazione dei fattori di sicurezza indica di conseguenza quale è la
dose di una certa sostanza, che nelle
condizioni di esposizione date - viene ritenuta sicuramente priva di effetti
tossici (valore limite
tossicologico ,valore soglia , ADI
,TDI).
5.4 Segue brevi cenni sulla definizione dei valori
limite per gli alimenti
La dose
giornaliera accettabile – valore limite – che viene espressa in p. g. (
picogrammi)/kg di peso corporeo
rappresenta quindi la dose che, se ingerita quotidianamente per tutta la
vita , si ritiene non possa provocare effetti sfavorevoli per la salute.
Il termine accettabile riferito alla dose giornaliera viene utilizzato quando si parla di sostanze
volontariamente o per necessità aggiunte
agli alimenti ,come ad esempio ,gli additivi alimentari mentre quando
invece si tratta di elementi di natura
ambientale, non volontariamente immessi negli alimenti, viene usato il termine tollerabile , da cui deriva la
diversa terminologia di dose giornaliera tollerabile (DGT) o
tolerable daily intake( TDI) o dose settimanale tollerabile ovvero Tolerable Weekly Intake)
Viene usato anche il termine di dose settimanale
tollerabile per indicare la quantità
che può essere assunta settimanalmente.
In definitiva le sostanze bioaccumulabili ( cioè accumulabili per via alimentare ), presenti in basse
concentrazioni negli alimenti, possono risultare pericolose per la salute solo nel caso di assunzioni
molto prolungate e solo dopo avere
raggiunto livelli di concentrazione cumulativa costante nel tempo ed in
equilibrio con i valori di assunzione , per cui non è corretto assumere che
il valore soglia tollerabile possa
venire superato nel caso di consumo di un piatto di spaghetti.
Il superamento della dose soglia si può verificare
solo quando venga superato il valore
medio per un determinato periodo,
mentre superamenti sporadici non sono significativi ai fini della erosione
degli ampi margini di protezione
Deve tenersi presente che il NOAEL si riferisce alla
dose che non produce alcun effetto
indesiderato sull’animale dopo
una somministrazione giornaliera protratta per un lungo periodo e che si tratta
di sostanze bioaccumulabili, per via alimentare nell’uomo per cui il giudizio attiene ad assunzioni prolungate ,
e non a esposizioni occasionali, e presuppone che esse abbiano raggiunto nell’organismo un certo livello di
concentrazione .
Possono
pertanto essere significativi e accettabili solo confronti con dati di
assunzione medi e di lungo periodo ,
mentre assunzioni occasionali elevate ,di breve periodo o comunque picchi di
assunzione non sono un punto di
riferimento congruo all’oggetto della
verifica in questione
( superamento o
compatibilità di una data esposizione al limite soglia)
5.5 segue
Brevi cenni alla determinazione della
esposizione suscettibile di derivare tramite
assunzione di un alimento che
rechi in traccia sostanze inquinanti
Veniva quindi evidenziato come per
determinare la esposizione giornaliere bisogna considerare la
concentrazione della sostanza
nell’alimento e la quantità di alimento assunta giornalmente ,
consumo giornaliero
Sia i valori
di concentrazione della sostanza contaminante
come i valori di consumo degli
alimenti devono essere quelli medi per lungo periodo, perché altri valori non
possono venire utilizzati.
5.6 segue
Brevi cenni sulla definizione delle concentrazioni di inquinanti in alimenti
Devono pertanto
venire sempre utilizzati tra quelli
rilevati i valori di concentrazione
media e non quelli di concentrazione
massima , utilizzandosi ,quando il numero di osservazioni risulti adeguato la
media aritmetica.
Quando i dati non sono numerosi appare più corretto
utilizzare il criterio della mediana ,
potendo quello della media aritmetica
essere influenzato dai valori esagerati, sia troppo alti come troppo
bassi ,mentre la mediana che rappresenta il valore di concentrazione equidistante dagli estremi è più
rappresentativa
Per questo
motivo non è corretto l’impiego di valori massimi di concentrazione nel biota
né il confronto del dato cosi ottenuto
con stime di esposizione media
pertinenti a gruppi di confronto,calcolate sulle concentrazioni medie ricavate da ampi campionamenti .
5.7 segue
I dati di consumo di riferimento nella valutazione della esposizione suscettibile di derivare tramite la dieta
In base alle premesse di cui sopra ,circa i
corretti criteri da seguire nelle
valutazione del rischio derivante dal consumo degli alimenti, fondatamente la
difesa ha evidenziato come le valutazioni degli esperti dell’accusa non siano
affidabili perché riferite a dati di
consumo abnormi.
Viene quindi
rilevato che i consulenti della accusa hanno
ipotizzato consumi giornalieri senza alcune riferimento a valutazioni
statistiche e utilizzando ad esempio i
ricettari che nulla dicono sul consumo giornaliero medio , che non può essere arbitrariamente determinato e
deve invece essere determinato in base agli studi esistenti che sono studi
affidabili ,indipendenti , preesistenti al processo, effettuati da studiosi di
indiscussa competenza ,indifferenti agli esiti del processo.
I consulenti dell’accusa non spiegano in alcun modo
perché questi dati siano stati da loro
ignorati
Valgono invece al fine di valutare la sussistenza di
pericoli ,derivanti dalla assunzione
tramite dieta di prodotti ittici di
inquinanti, sia le statistiche dei
consumi del pesce nella popolazione italiana, sia le statistiche relative
al consumo del pesce degli abitanti
della laguna di Venezia, le prime
contenute nella pubblicazione dell’istituto superiore della Sanità del
1999 le seconde nel lavoro del Coses del 1966 intitolato “il sistema ittico
:produzione lagunare e abitudini di consumo delle famiglie veneziane “.
In questo
lavoro sono non solo definite le medie di consumo generali, ma anche quelle
riferite alle singole categorie di prodotto ed è inoltre possibile ,dai dati
contenuti nella predetta relazione
estrapolare il dato di consumo
dei cosiddetti forti consumatori .
I dati di consumo contenuti in tale lavoro sono stati poi utilizzati anche nello studio
condotto sullo specifico delle diossine
e della contaminazione da OCDD e OCDF
nel contesto lagunare per conto del Comune di Venezia
Dalle
predette tabelle risulta che il consumo medio di prodotti ittici da parte degli abitanti del comune di
Venezia è di 71 grammi al giorno- peso lordo- e quello degli abitanti delle
isole è invece superiore 93 grammi al
giorno , che il consumo medio
giornaliero delle vongole da
parte degli abitanti del Comune di Venezia
è di 10 grammi al giorno e quello degli abitanti dell’estuario di 20 grammi al giorno –tutti valori al
lordo. Sulla base dei dati del Coses i
forti consumatori nell’ambito del
comune di Venezia possono consumare 11
kg al mese di prodotti ittici equivalente a circa 362 grammi (lordi ) al
giorno e 79 grammi di vongole al
giorno mentre un consumatore medio ne assume 10 grammi al giorno.
Per forte consumatore si intende normalmente colui che consuma un quantitativo di pesce
cinque volte superiore a quello consumato dalla media della popolazione , e che
ha le stesse abitudini degli abitanti dell’estuario.
La correttezza dei dati elaborati dal Coses risulta
anche dal confronto con quelli elaborati per conto del ministero della sanità ,
che dimostra come non sottostimino il
consumo di pesce da parte della popolazione veneziana.
Importante è poi considerare per i prodotti ittici
che interessano, e per stimare in modo corretto il consumo reale e quindi
l’esposizione reale del
consumatore alcune peculiarità
Tali peculiarità consistono nella resa del prodotto
Le statistiche di consumo sopra riportate si riferiscono al peso lordo, mentre, per
determinare il consumo rilevante ai fini de calcolo della esposizione , bisogna
fare riferimento alla parte edibile, eliminando le parti che vengono scartate e di conseguenza non mangiate
La questione
non è marginale ed è resa complessa dal fatto
che,per i prodotti ittici , il rapporto tra peso netto e peso lordo risulta essere molto variabile
.
È comunque
certo che i consumi da considerare sono quelli relativi alla porzione edibile
dell’alimento, per cui i valori lordi
indicati nella relazione del Coses devono essere trasformati in valori
netti.
Dai calcoli cosi effettuati risulta che il consumo complessivo netto giornaliero
di prodotto ittico di un consumatore medio nel Comune di Venezia
è di circa 30 grammi che aumenta a 137 grammi per un forte consumatore,
e che per quanto riguarda le vongole il consumo è rispettivamente di 1,4 per un consumatore medio e di 11
grammi al giorno per un forte consumatore
I dati di
consumo delle vongole della popolazione veneziana assunti dall’accusa –da 20 a
100 grammi di prodotto edibile -
risultano di conseguenza arbitrariamente
assunti e non risultando fondati
su criteri accettabili non possono
considerarsi congrui e pertanto portano a stime sulle dosi di assunzione interessanti il processo che sono prive di aggancio con la realtà.
5.8 segue
Brevi cenni sulla definizione di concentrazione limite
Importane osserva poi il Tribunale è innanzitutto
chiarire il significato della definizione
di concentrazione limite e la sua differenza dal valore soglia di
riferimento
La concentrazione limite relativa a ciascun prodotto ha il compito di
facilitare i controlli sulla edibilità degli alimenti ,il relativo calcolo viene effettuato moltiplicando la DGA(
espresso in mg/kg) per il peso corporeo(espresso in Kg) e dividendo il prodotto per la quantità di
alimento mediamente assunto giornalmente
.
La funzione della concentrazione limite è
all’evidenza quella di prevenire esposizioni superiori alla DGA ,funzione che viene realizzata considerando
nel predetto calcolo un consumo di alimento sufficientemente elevato da
salvaguardare anche i forti consumatori .
Ne consegue
che se le concentrazioni medie di inquinanti , rilevate negli alimenti,
risultano inferiori alla rispettiva CL
,l’alimento può essere commercializzato
, perché la sua assunzione anche in forti quantità , non comporta una
esposizione superiore alla DGA .
5.9 Valori limite e
consumi medi di lungo periodo. Confutazione delle tesi di accusa secondo cui
l’ipotetico consumo di vongole di provenienza
dell’area industriale
comporterebbe una esposizione giornaliera a metalli e a micro inquinanti
( esaclorobenzene e benzopirene) superiore alle rispettive dosi tollerabili
(TDI)e(TWI) di riferimento.
Va
innanzitutto premesso che gli esperti delle difese, ai fini del calcolo delle
dosi di assunzione di interesse processuale ,non assumono valori propri ma i
valori di concentrazione risultanti
dalla fonti allegate dalla accusa .
In
particolare le vongole raccolte nei canali industriali hanno una concentrazione
di mercurio di 0,05 mg/Kg che è dieci volte inferiore alla C. L( 0,5
mg/kg) prevista dalla disciplina
normativa relativa alla edibilità del prodotto vigente in Italia ed in Europa
per pesce e molluschi bivalvi ed analoghi risultati valgono per il cadmio e d
il piombo.
Per il cadmio la concentrazione nelle vongole dei
canali industriali risulta quattro volte inferiore alla relativa C.L. ( 1mg/kg)
stabilita in Europa ed in Italia
Per il piombo premesso che i valori di concentrazione indicati dal consulente tecnico Raccanelli sono diversi da quelli
indicati da altri c. t. dell’accusa e
ciononostante la difesa ha assunto tutti g li esiti delle analisi riportati
nella relazione del consulente
Raccanelli risulta egualmente
che la C .L ( 2mg/kg) è distante più di
quattro volte dai valori di
concentrazione presenti nelle vongole
dei canali industriali.
Per quanto riguarda l’arsenico va premesso che né in
Italia né in Europa esiste una C.L. per
gli alimenti.
In ogni caso non esistono rilevanti differenze
relativamente alla concentrazione di tale metallo nei campioni di provenienza da diverse aree, ciò che consente di
ritenere l’arsenico largamente diffuso in tutta l’area lagunare.
Sulla base di queste analisi risulta accertato che
nell’ambito della zona industriale non sono date concentrazioni anomale di
metalli nel biota e che non vengono superati i parametri (C.L.) che definiscono
la commerciabilità e la edibilità dei
molluschi bivalvi
Per metalli
diversi dal cadmio, mercurio e piombo non è stabilita in Italia la C. L
per gli alimenti ed allora le valutazioni pertinenti
alla protezione alimentare si eseguono
,stimando la dose di assunzione individuale o esposizione giornaliera e
confrontando il dato di esposizione con i noti valori di protezione ( ADI)
(TDI) (TWI).
Premesso
ancora una volta che il confronto deve farsi tenendo conto del consumo medio di
prodotto ittico -parte edibile- che è quello correttamente determinato dalla difesa secondo i criteri sopraesposti e tenendo conto della concentrazione
media e delle protrazione dei consumi
nel tempo di vongole provenienti esclusivamente dall’area industriale, risulta
che ,per i metalli, la esposizione suscettibile di derivare tramite la dieta
costituita da quel pescato, non erode
in alcun modo l’ampio margine di
protezione alimentare garantito dal
relativo limite soglia.
Il calcolo del margine di protezione ovvero della distanza esistente tra la dose
giornaliera tollerabile di ciascun metallo e la quantità dello stesso metallo
ipoteticamente assunta dall’individuo con le vongole è stato eseguito dividendo
il valore di TDI per il valore di
assunzione .
I valori di TDI sono quelli adottati in Italia
dall’istituto superiore della sanità ed in Inghilterra dal Ministero
dell’Agricoltura pesca e Alimenti per formulare analoghe
valutazioni di sicurezza sui prodotti
ittici consumati dai paesi di appartenenza.
Le tabelle che sono riportate nella sentenza
consentono di verificare che il margine di protezione è molto ampio.
Ed invero anche i consulenti dell’accusa avevano dato
atto della compatibilità della concentrazione degli inquinanti presenti nei
campioni di pesce prelevati nei canali
della zona industriale con quelli che
secondo la relativa normativa potevano essere distribuiti per il consumo umano
,nonché del fatto che per quel che riguarda i metalli , tutti sono largamente
inferiori ai limiti normativi di
riferimento.
Anche per l’esaclorobenzene ed il benzopirene appartenente agli IPA( idrocarburi policiclici
aromatici)i dati relativi dimostrano
che la loro concentrazione nelle
vongole dei canali industriali non supera la C.L. di riferimento per cui
conclusivamente sia per i metalli come per l’esaclorobenzene e il benzopirene ,
il consumo di vongole dei canali industriali anche da parte del forte
consumatore non è comporta la erosione
dell’ampio margine di garanzia derivante dai relativi parametri -valori soglia
– di protezione alimentare.
5.10 Valori limite e consumi di lungo periodo .
L’esposizione alle diossine,
premesse sulla confutazione
della tesi secondo cui l’ipotetico consumo di vongole di provenienza dall’area
industriale comporterebbe una
esposizione giornaliera a diossine e a P. C .B. tale da erodere l’ampio margine
di garanzia costituito dal limite soglia individuato dalla O.M.S. 1998 in
1-4-PG/KG/DIE
Osserva sul punto il Tribunale come la difesa abbia
dimostrato che l’assunzione di diossine e PCB suscettibile di derivare dalla
dieta di prodotti ittici lagunari , non comporti alcuna erosione dell’ampio
margine di garanzia costituito dal
valore soglia individuato dall ‘O.M.S
nel 1988 in 1-4-pg/kg p.c /die
E la
valutazione fatta dai tecnici della difesa
corrisponde a quella fatta anche da
alcuni tecnici dell’accusa .
I prodotti ittici provenienti dai mari del nord si attestano su grandezze di grana lunga superiori a quelle
riscontrate nei canali dell’area industriale veneziana.
In tesi di
accusa, lasciata la prospettiva di un confronto con dati di esposizione
rilevati in altri contesti, si sostiene che l’alto grado di inquinamento del biota ,contenuto nei sedimenti
dei canali dell’area industriale , risulta dal confronto con il grado di inquinamento dei molluschi
provenienti da altre aree della laguna
.
Nella loro valutazione gli esperti della difesa
invece calcolano l’esposizione a
diossine con riferimento ad un ideale
consumatore di vongole di provenienza esclusivamente dai canali della zona industriale
,cumulandola con il consumo di altri prodotti ittici lagunari e con altri prodotti di origine animale ,
considerano poi gli esiti di tale indagine confrontandola con i criteri dettati
da O. M. S 1998 ed infine integrano
l’analisi , facendo un confronto tra l’esposizione a diossine della popolazione lagunare e le altre popolazioni
europee ,nonché quella degli U.S.A.
5.11 segue Nota
a margine sui dati di concentrazione pertinenti alle diossine
Gli esiti delle valutazioni degli
esperti della difesa dimostrano che il
grado di concentrazione delle diossine nei pesci e molluschi della laguna
veneziana è confrontabile con
quello dei pesci e molluschi
provenienti da altre aree che risentono di un impatto antropico diretto
moderato.
Infatti
dal confronto emerge in particolare
che i prodotti lagunari,
comprese le vongole raccolte in area industriale, hanno un carico di diossine
inserito nell’intervallo delle concentrazioni che possono essere definite
normale per questa tipologia di alimenti , per l’Europa e per gli Stati Uniti e
ad analoga valutazione sono pervenuti anche alcuni consulenti del P. M..
Rileva ancora
il Tribunale come dato di contorno che
il grado di inquinamento , per quanto riguarda le diossine , dei molluschi e
dei pesci di provenienza da tutta la laguna , e quindi anche dall’area industriale si colloca ai più bassi livelli
dell’intervallo di concentrazione riscontrato nei prodotti ittici in
Europa e negli Usa.
5..12
segue La determinazione della
esposizione a diossine suscettibile di derivare tramite assunzione di vongole
di esclusiva provenienza dai canali
industriali
Dopo avere premesso che, anche per le diossine,
devono utilizzarsi gli stessi criteri di valutazione già prima indicati per gli
altri inquinanti osserva quindi il Tribunale come ,di conseguenza,
valgono anche per le diossine le critiche relative ai criteri non corretti
utilizzati dalla accusa ,che ha fondato le sue
valutazioni con riferimento a consumi medi ,che non trovano
riscontro nelle statistiche dei consumi della popolazione veneziana
,italiana od europea e che appaiono eccessivi
e abnormi se confrontati con le fonti
disponibili.
Hanno infatti
fatto riferimento nei loro calcoli ad un consumo medio giornaliero di vongole
dell’ordine di 20-100 grammi/die ( parte edibile ).
Facendo
invece riferimento ai dati elaborati dal Coses risulta, che la esposizione alle
diossine è di 0,025 e 0,190 p g / kg peso
corporeo /giorno rispettivamente per i consumatori medi e per i forti
consumatori del Comune di Venezia ,con un margine rispetto ai valori limite
indicati dall’OMS nel 1998-1-4/ p g /kg peso corporeo- che è 40-161 volte
inferiore per i consumatori medi e 5-21 volte inferiore per i forti consumatori.
Ne consegue
che con riferimento al valore più restrittivo 1 p g /kg di peso corporeo, il
suo raggiungimento conseguirebbe solo nel caso di un consumo giornaliero,
protratto per lunghi periodi di 57
grammi di vongole( parte edibile), pari a 400 grammi ( al lordo) di vongole
,consumo che non trova alcun riscontro nei dati elaborati dal Coses e
che non costituisce in assoluto un’ipotesi congrua e realizzabile .
Per
raggiungere il valore soglia più elevato di
4 p. g / kg di peso corporeo/die sarebbe necessario consumare 233 grammi di vongole al giorno pari a 1600
grammi lordi al giorno sul lungo
periodo
Sulla base di
tali dati risulta che la situazione di contaminazione propria delle vongole di
provenienza dai canali della Zona Industriale non denota pericoli alimentari.
5.13
segue L’esposizione a diossine con
tutti i prodotti ittici lagunari
Con riferimento al consumo dei prodotti ittici provenienti
da tutta la laguna, e pur con qualche incertezza dovuta alla mancanza di dati per alcune
categorie di prodotti ittici,le analisi effettuate dimostrano che la
popolazione veneziana con abitudini alimentari medie potrebbe assumere con il prodotto ittico lagunare 0,19 p g/ k g /
giorno che è meno di un quinto della dose
di riferimento più basse indicata dalla WHO( 1 p g /k g peso corporeo /
giorno).
Ed il
predetto valore di riferimento sarebbe rispettato anche nel caso di forte
consumatore ciò che invece non avviene per i forti consumatori in altri paesi europei.
La assunzione
di diossine ,tramite il consumo di vongole, costituisce una frazione
minoritaria della complessiva assunzione
tramite tutti i prodotti ittici ,sia che si faccia riferimento alle
vongole provenienti da tutta la laguna ,sia che si faccia riferimento alle
vongole provenienti dai soli canali industriali , in base ai dati di analisi di
concentrazione dedotti dalle fonti indicate dalla accusa
Nel caso di esclusivo consumo di vongole ,provenienti
dai canali industriali, si passerebbe infatti da una esposizione di 0,19 p g/k
g / giorno ad una esposizione di 0,2 p g/ kg
peso corporeo / die.
L’incremento
del carico di diossine derivante dal consumo di vongole provenienti dall’area
industriale è irrilevante non solo per il confronto con la esposizione
derivante dal consumo di tutti i prodotti ittici, ma anche per il confronto con la quantità di diossine
assunta giornalmente con tutti gli
altri alimenti .
5-14
segue l’esposizione con tutti gli alimenti
La assunzione
di diossine avviene tramite tutti gli alimenti
e mediamente sono più carichi di diossine , per ragioni di
bioaccumulabilità i prodotti di origine
animale attraverso i quali viene veicolata la maggior parte delle diossine (
pari all’80-90 %)
Premesso che
per effettuare dei confronti significativi devono essere utilizzati dati
di raffronto omogenei , mentre
tale criterio non viene osservato dalla accusa , rileva il Tribunale come la difesa verifichi innanzitutto se l’esposizione complessiva della
popolazione veneziana a diossine ,tramite la dieta costituita da tutti gli
alimenti ,registri significative differenze, facendo due diverse ipotesi :
·
per l’ipotesi che il consumatore si alimenti con prodotti
ittici,provenienti da tutta la laguna, compresi quelli dei canali industriali ;
·
per la diversa ipotesi in cui la quota di vongole provenga
interamente dai canali industriali;
I dati
utilizzati per il confronto sono ricavati ,sia per quanto riguarda quelli relativi ai consumi, come per quanto
riguarda quelli relativi alle concentrazioni di diossine, da una pubblicazione
presentata al convegno Dioxin 99 tenutosi
a Venezia
E dagli esiti
di tali indagini risulta che nella prima ipotesi( consumo di 30 grammi di
prodotto ittico al giorno) si ha una assunzione di diossine pari a 30 p g ITE,
equivalente a 0,42 p g /kg peso corporeo / die e nella seconda ipotesi invece
si ha una assunzione pari 31 p.g ITE pari a 0,44 p g/k g peso corporeo
die.
Valori che
dimostrano la insussistenza dei supposti pericoli alimentari derivanti da
ipotetici consumi ,tramite la dieta di
vongole di esclusiva provenienza dai canali industriali.
Anche le valutazione di altri esperti di fonte
pubblica avevano portato ad analoghe conclusioni, rilevando che il consumatore
medio veneziano assume con gli alimenti
di origine animale una quantità di diossine
inferiore alla metà del valore guida più restrittivo determinato dall’OMS nel 1998 ( 1 p g/ kg peso corporeo
/giorno)
E tali
risultati non sorprendono in quanto
sono conformi a quelli a cui erano
pervenuti nel 1996 altri esperti.
5.15 ( segue) Il confronto con le esposizioni di altre
popolazioni
Le stime a cui pervengono gli esperti delle difese
coincidono con quelle a cui erano pervenuti altri esperti- Zanotto e altri nel
1999 -vedi relazione pubblicata nel corso del
convegno Dioxin 1999-e chiariscono come la esposizione per via
alimentare alle diossine della popolazione veneziana si collochi ai livelli più bassi dei valori di esposizione delle
popolazioni europee.
I dati di
confronto rappresentati graficamente nelle tabelle riprodotte nel testo della
sentenza dimostrano :
1)che la esposizione alle diossine del consumatore
medio veneziano è sovrapponibile a quella delle popolazioni di confronto
2) che la
concentrazione media di diossine nel pesce consumato da queste popolazioni è
corrispondente a quella riscontrata nel
pesce consumato dalla popolazione veneziana
Dai dati esaminati risulta anche che i consumi medi
ipotizzati dalla accusa sono di gran lunga superiori anche ai consumi medi di
popolazioni come quella svedese ,finlandese o danese che pure sono
considerate notevoli consumatrici di
questo tipo di alimenti.
E trova
altresì conforto la tesi della difesa secondo cui i livelli di esposizione
della popolazione veneziana sono tra i più bassi di quelli europei ,certo
comunque osserva il tribunale non è ipotizzabile una esposizione alle diossine
superiore a quella della popolazione media europea.
I dati
risultanti dalla diverse indagini svolte in ambito europeo ed americano hanno altresì dimostrato che dalla maggioranza di consumatori in
tutto il mondo viene superato il valore di esposizione più restrittivo
indicato dall’O.M.S pari ad 1p g/kg peso corporeo/ die con i soli alimenti animali e che l’esposizione aumenta ancora di più per il contributo (meno levato ) degli alimenti di origine
vegetale.
Normalmente
la assunzione totale di diossine e PCB
dalla dieta risulta equivalente
a 1.2- 3/ p g/ peso corporeo / giorno.
Da queste
stime risulta quindi che una considerevole
porzione della popolazione europea eccede il limite più restrittivo di
1pg stabilito dalla OMS
Il lieve
superamento del valore soglia non è pero indice di avvelenamento né di pericolo
,che possa connotare il corrompimento
di sostanze alimentari.
Tale
valore non è quello della soglia ,oltre
la quale ,stante un lieve superamento,si possa prospettare a ragione la
attualità e/o la concretezza di un pericolo reale per la salute , essendo il
valore di esposizione definito dall’OM S( 1998) un valore guida da raggiungere
in futuro per ottenere una maggiore
protezione del consumatore .
Sbaglia il
consulente della accusa quando indica
come esposizione di fondo della popolazione
mondiale a diossine e PCB quella di
1pg/kg peso corporeo/ giorno ,in quanto la commissione dell’O.M.S. raccomanda
il predetto valore come quello più restrittivo
ma indica come limite precauzionale
quello di 1-4- p g/ kg / peso corporeo / die.
Ed è sulla
base di tale errata premessa e considerando dosi di consumo abnormi che
l’accusa ritiene che , sommando alla
esposizione a diossine , quella di PCB, l’ideale consumatore di vongole di
provenienza dai canali industriali superi l’esposizione di fondo.
Ed invece
secondo i dati esaminati dalla difesa, anche nel caso di forte
consumatore, si verificherebbero livelli di esposizione di 1.7
o 1,22 p g / kg / p c/ die per il consumatore di prodotti ittici
provenienti da tutta la laguna o
esclusivamente dai canali della zona
industriale molto vicini ai valori più bassi
di quelli indicati dalla Commissione scientifica sugli alimenti della
unione europea 2000 ( nell’intervallo
compreso tra 0,8e 4,5 p g/kg / p. c /die )
Assumendo il
quantitativo di pesce che la difesa assume consumato dal forte consumatore si
verificherebbe il superamento del valore di fondo o valore guida più basso da
parte di tutti i consumatori europei ed americani .
Non solo
,viene comunque ribadito che il superamento del valore soglia non significa prova di avvelenamento o di
adulterazione concretamente pericolosa ma
che in ogni caso non esiste neppure la prova nel concreto del suo
effettivo superamento.
5.16
L’esposizione cumulativa a diossine e
PCB. al confronto con il valore limite indicato dalla OM S nel 1998 di 1-4-P G/ KG peso corporeo /
giorno
Il significato del dato probatorio rilevante prima
dell’espletamento della analisi condotte a Berlino su sollecitazione del Tribunale
Sulla base
dei dati di concentrazione degli
inquinanti, che trovano fonte nella relazione tecnica della accusa, i
consulenti delle difesa determinano, in base
ai dati di consumo medio e di
consumo forte di vongole di
esclusiva provenienza dalla zona industriale , ricavati dalla fonti sopraindicate, una esposizione
ai soli PCB:
·
per i medi consumatori in 0,02 PG/KG p.c/die
·
per i forti consumatori
in 0,15 PG/KG p.c/die
·
ed una esposizione
cumulativa a diossine e PCB:
·
per i medi consumatori in 0,04 PG/KG p.c/die
·
e per i forti consumatori in 0,33 PG/KG p. c./die
Secondo il c.
t Raccanelli la concentrazione di PCB
nelle vongole di provenienza dai canali industriali presenta un valore medio espresso in WHO-TEF pari a 0.92 PG/G (
mediana 0,96) ed un valore medio di concentrazione di diossine espresso nella stessa misura di 1,08 PG/G( mediana 1,125 PG/G)
E quindi la
concentrazione complessiva di diossine e PCB viene ad avere un valore medio
pari a 2,0 pg / g e mediano di 2,08 pg/g
E
moltiplicando il valore medio di concentrazione con il valore medio di
consumo risultano i valori di esposizione sopraindicati che dimostrano come la esposizione cumulativa di diossine e PCB
anche per un forte consumatore di sole
vongole dei canali industriali si attesta su valori inferiori al valore guida
più restrittivo indicato dall’OMS 1988(1PG/KG/p.c /die)
Tanto risulta
considerando i dati reali plausibili di
consumo ( fonte Coses), i dati di concentrazione – che derivano dalla accusa-
ed informazioni relative alla esposizione
di fondo a diossine e PCB redatte a cura della OMS e della Commissione
europea per la sicurezza alimentare nel 2000
Le conclusioni a cui perviene il consulente
della accusa sono quindi inattendibili perché il consulente:utilizza
valori di consumo improponibili ovrastima la concentrazione del PCB nelle
vongole di provenienza industriale per calcolare l’esposizione cumulativa alle
diossine ed al PCB moltiplica il valore di concentrazione delle diossine per un
fattore di correzione di 1,5 ,mentre invece, essendo risultata la concentrazione nelle vongole del PCB in
misura inferiore a quella delle diossine, avrebbe dovuto utilizzare un fattore
di correzione inferiore a d 1 e non
1,5.
In sintesi :sia per i sedimenti dei canali , come per
il biota si accerta che esiste un gradiente di concentrazione tra area
industriale e aree interne alla conterminazione lagunare che non risentono di impatto antropico ,con un
più alto livello di contaminazione del biota vivente sul sedimento
inquinato ed un rapporto di interferenza col biota lagunare da parte della componente biodisponibile degli inquinanti che compromettono lo stato dei sedimenti .
Tale dato di
realtà certo ed incontroverso non significa però avvelenamento o adulterazione
pericolosa del biota dell’area attinta da
inquinamento.
Le prove dimostrano
che i valori di concentrazione di
inquinanti nel biota di provenienza
dall’area industriale non superano i valori di concentrazione vietati dalla
legge che definisce i parametri di qualità di molluschi ed altre specie ittiche
,né i valori normali di concentrazione
Per i
metalli valgono le sopraesposte considerazioni con la
precisazione che , quando mancano nelle disciplina normativa le indicazione
relative alla concentrazione limite ,la norma opera il rinvio alle pertinenti
DGA e che nel caso particolare non vi è prova di superamento ,per gli
inquinanti di interesse processuale ,
dei parametri di qualità previsti da leggi speciali
Non risultano
mai neppure per tutti gli altri inquinanti
di interesse processuale carichi
inquinanti non normali cosi come non risulta che la dieta, anche
per il forte consumatore, comporti esposizioni che raggiungano l’ampio margine
di garanzia costituito dal TDI e neppure i limiti soglia espressione della
massima precauzione.
E questo
risulta essere il quadro probatorio , a prescindere dalla importante
sopravvenienza probatoria costituita dagli esiti delle verifica ,disposta su sollecitazione del Tribunale ,sui dati di concentrazione degli inquinanti
nel biota dell’area industriale riferiti dal consulente dell’accusa
Raccanelli
5.17 il rilievo di
notevoli differenze tra i dati di concentrazione riferiti dal C.T Raccanelli (
consulenza espletata nel procedimento
45000/99 RNR) e i dati di concentrazione riportati in relazioni di altri
consulenti dell’accusa .
Esiti delle analisi espletate presso il laboratorio
MPU di Berlino sotto la responsabilità
del consulente d’accusa Luz Muller ( su campioni di vongole prelevate
negli stessi punti di campionamento
oggetto di interesse da parte del consulente Raccanelli)
Attesa la esistenza di divergenze nei dati di analisi dei c. t dell’accusa
,pur relative a vongole prelevate negli
stessi canali , è stata eseguita presso il laboratorio di Berlino e sotto la
responsabilità del c .t. dell’accusa Luz Muller la analisi di alcuni -cinque
- campioni di vongole ed un campione di
pesci per rilevare la presenza di diossine
( PCDD/F) di bifenili policlorurati (PCB) idrocarburi policiclici aromatici (IPA), esaclorobenzene e metalli pesanti( cadmio,rame , mercurio,
piombo,zinco, arsenico, alluminio, cromo, manganese, nichel , ferro e selenio)
I risultati
delle analisi di Berlino hanno nel processo una valenza importante, anche se la parte della motivazione fino ad
ora esposta ne prescinde completamente .
E nonostante
i risultati delle analisi fatte a Berlino, che hanno ,come detto in precedenza,
ridimensionato i valori di concentrazione degli inquinanti, l’accusa ha
continuato a sviluppare la sua tesi facendo sempre riferimento a valori di
concentrazione massima ed a consumi
occasionali anziché a valori medi di concentrazione ad a valori medi di consumo
nel lungo periodo.
Gli esiti delle analisi di Berlino confermano la esistenza di notevoli
differenze tra i risultati ottenuti dal consulente .Raccanelli egli altri
consulenti del P.M.
Dal confronto tra i dati di Berlino e quelli del consulente Raccanelli -confronto praticabile in quanto i campioni
provengono dallo stesso sito e le metodiche usate dal laboratorio sono state
concordate - risulta la fondatezza dei rilievi critici fatti
dalle difese .
Per la migliore comprensione della questione in esame
viene quindi premesso che tutte le valutazione fatte dai consulenti per
determinare la esposizione dei consumatori, tramite dieta costituita da vongole
dei canali industriali, fanno riferimento alle concentrazioni di
inquinanti relative al peso fresco
edibile; he i prelievi , sia per le
analisi effettuate a Berlino come per le analisi effettuate dal c t dell’accusa
Raccanelli,sono stati effettuati nei medesimi punti : si tratta di cinque
prelievi di campioni di vongole e un prelievo
di campioni di cefali .
Dal confronto tra le due analisi risulta che i valori di concentrazione media
si attestano in quelle di Berlino su grandezze che sono la metà di quelle
pubblicate dal consulente Raccanelli ( nella sentenza sono riportate a
confronto le tabelle che indicano per ciascun campione e per ciascun
inquinante- metalli ,HCB, diossine, PCB Benzopirene e somma IPA il grado di
concentrazione verificato)
Vengono quindi rappresentate in forma grafica ,per
rendere piu evidente il confronto tra i dati di concentrazione degli inquinanti , gli esiti relativi al mercurio,
piombo,arsenico,alluminio rame e cromo
Con riferimento al mercurio risulta presente nel campione M 4 ,ritenuto
dall’accusa il più inquinato in quanto prelevato in prossimità dello scarico
SM15 ,principale scarico dello stabilimento,una concentrazione sei volte inferiore a quella indicata dal c.consulente dell’accusa ed inferiore anche di due volte a quella riscontrata nelle vongole
pescate a S Erasmo .
Deve pertanto escludersi che esista una situazione
anomala per quanto riguarda il catabolismo del mercurio.
Con riferimento al piombo i dati medi di
Berlino risultano dieci volte inferiori a quelli del consulente dell’accusa,
con riferimento all’arsenico i valori medi diminuiscono di circa 4 volte, con una sostanziale identità tra la
concentrazione di arsenico rilevate nelle vongole pescate nei canali
industriali e nel canale S Erasmo.
Anche per quanto riguarda l’alluminio il
controllo espletato a Berlino rivela valori di concentrazione
significativamente inferiori a quelli del consulente dell’accusa , con
differenze particolarmente rilevanti per quanto riguarda il campione ritenuto
più inquinato M 4, nel quale si sono rilevate concentrazioni anche 14 volte inferiori a quelle indicate
dall’accusa.
Per quanto riguarda il campione di cefali le analisi
di Berlino non ne hanno rilevato la presenza.
Analoghe valutazione emergono anche per il rame e cromo che risultano sostanzialmente
presenti in analoghe concentrazioni nelle vongole dei canali di S Erasmo.
5.18 segue valori di concentrazione dei metalli nelle
vongole dei canali industriali
Confronto tra gli esiti delle
analisi condotte dal consulente Raccanelli e gli esiti delle analisi condotte
dagli altri consulenti dell’accusa
Le notevoli
differenze risultanti dalle analisi dei campioni a Berlino confrontate con
quelle del c t. Raccanelli non devono sorprendere, perché gia riscontrate dal
confronto precedente tra le stesse analisi e quelle effettuate da altri
consulenti tecnici della accusa .
Vengono
quindi riportate le tabelle , per ciascun metallo ,che evidenziano le
differenze tra le analisi del consulente
.tecnico Raccanelli e quelle dei
consulenti tecnici sempre della accusa
Sesana, Turrito ,Baldassari.
E questi ulteriori confronti confermano che il dato
anomalo è quello offerto dal consulente tecnico Raccanelli.
5.19 segue Gli esiti delle analisi di Berlino per i valori
di esaclorobenzene, benzopirene , diossine, diossina simili (PCDD/F e PCB ) Il
confronto con i dati riferiti dal C.T Raccanelli
Anche per
tutti gli inquinanti sopra indicati i valori di concentrazione accertati a
Berlino risultano largamente inferiori rispetto a quelli riferiti dal
consulente tecnico Raccanelli
In
particolare: per l ‘esaclorobenzene
risulta che la concentrazione nel campione M 4 -. Quello prelevato in
prossimità dello scarico SM 15risulta
la piu bassa di tutti i campioni nelle
vongole dei canali industriali e si
presenta solo 3,3,volte superiore a quelle delle vongole dei canali di S Erasmo
ed invece di 28 volte inferiore alla concentrazione limite di riferimento
ammessa per questi alimenti dalla legislazione italiana ed europea.
Per quanto
riguarda la concentrazione degli I. P .A .- idrocarburi policiclici
aromati- i valori di concentrazione
riscontrati a Berlino sono mediamente 22 volte inferiori rispetto a quelli
proposti dal Raccanelli, e per quanto
riguarda specificamente il campione M 4 risulta ben 37 volte
inferiori quelli della analisi di
Raccanelli del 1999.
Viene in
particolare in rilevo che, come per l’esaclorobenzene cosi per i metalli e gli
I. P. A , la concentrazione
riscontrata nelle vongole del
campione M 4 è la più bassa dei
campioni della zona industriale ed
è solo
2,6 volte superiore a quella del campione prelevato a S Erasmo.
Ciò consente di ritenere che nella zona industriale non è attualmente presente una fonte abnorme di contaminazione da IPA.
Analoghe conclusioni riguardano la concentrazione del
benzopirene dei PCB e delle diossine
ed ancora una volta le differenze rilevate dal C.T. Raccanelli tra le concentrazioni di inquinanti presenti nelle
vongole dei canali industriale e quelle presenti nelle vongole di S Erasmo risultano notevolmente ridimensionate.
Per la media i dati del C. T Raccanelli risultano dimezzati mentre sono
confermate le analisi relative ai campioni prelevati a S Erasmo
Risultano altresì normalmente più elevate le
concentrazioni riscontrate nel campione
M 6 ( canale industriale sud mentre la concentrazioni rilevate nei campioni M1
M2 M4 sono tra loro livellate )
E se la difesa aveva dimostrato attraverso i suoi
tecnici che ,anche con i dati relativi alle concentrazioni di inquinanti
,forniti dalla accusa non sussisteva il
pericolo denunciato nella contestazione
della accusa , a maggiore ragione lo dimostra con riferimento ai dati
risultati dalla analisi eseguite a Berlino .
5.20 Il significato probatorio del confronto tra i
valori di concentrazione di
inquinanti nel biota pubblicati dagli esperti delle difese prima
del controllo prima del controllo espletato a Berlino (relazione Pompa in data 18-4- 2001) e i valori di concentrazione
riferiti dal laboratorio MPU all’esito di tale controllo.
L’adeguamento al dato di Berlino della valutazione di
protezione alimentare: l’esposizione (agli inquinanti di interesse processuale)
suscettibile di derivare dalla assunzione ,tramite la dieta,di biota di esclusiva
provenienza dell’area industriale .
Per tutti gli
inquinanti di interesse processuale i
valori di concentrazione riscontrati
nel biota di provenienza dall’area industriale
non sono sussumibili sotto la
classe di concentrazioni vietate dalla legge che stabilisce parametri di
protezione alimentare ( o che possano essere ritenute non normali)
La distanza che separa( per gli inquinanti di
interesse processuale) le classi di esposizione suscettibili di derivare dalla
assunzione del biota di provenienza dall’area industriale e i pertinenti valori soglia espressione e misura del principio di
precauzione
Innanzitutto
osserva il Tribunale come per
tutti i metalli di interesse
processuale le concentrazioni rilevate
dagli esperti delle difesa sono risultate
superiori a quelle medie rilevate a
Berlino .
Ciò comporta
che i margini di sicurezza, espressi come rapporto tra il valore della dose
giornaliera tollerata ed il valore della esposizione determinata nel
concreto sono ancora più ampi;
che le valutazioni fatte dalla difesa risultano
corrette;
che per i
metalli nello scenario delineato dall’imputazione non sussistono pericoli
alimentari
che analoga è
la situazione per il benzopirene e
l’esaclorobenzene nonché per le
diossine, per il PC B dioxin like .
I margini di sicurezza delineatisi dopo le analisi di
Berlino ed i dati acquisiti dimostrano che anche per le diossine più PCB ,
partendo da consumi reali, nonché da dati di concentrazione reali , non esiste
alcuna possibilità che il consumatore,costituendo la dieta con vongole di
provenienza dell’ area industriale, possa assumere una quantità pari alla dose tollerabile più
bassa indicata dalla OMS 1-4 p
g/ kg peso corporeo ed a maggior ragione quindi non sono ipotizzabili i
supposti pericoli alimentari.
Come
evidenziato nelle premesse l’accusa ha cercato di dimostrare la sussistenza del
pericolo tipico nei delitti in esame confrontando i livelli di concentrazione
di inquinanti riscontrati nel biota di provenienza dai canali industriali ed i
conseguenti livelli di esposizione con , con misure –quali la CL,il DGA il TDI
definiti dalle agenzie regolatorie declinando il principio di precauzione –
lontane ordini di grandezza dal livello degli effetti osservati per gli endpoints più sensibili ,lontano
tanti ordini di grandezza ,quanti ne
esprime il fattore di sicurezza
applicato in sede di periodica valutazione del rischio.
L’accusa però non è riuscita neppure su questo piano a dimostrare alcunché , perché l’evidenza probatoria è di
segno contrario.
Di
conseguenza e conclusivamente ritiene
il Tribunale che deve ritenersi provato
che le dosi di assunzione media,sia da parte del consumatore tipo come da parte del consumatore forte,
non siano sussumibili sotto le classi idonee ex ante a dare luogo a qualsivoglia effetto indesiderato per la
salute , né sotto le classi vietate
dalla legge o sotto valori suscettibili di
essere ritenuti non normali e,per quanto riguarda le diossine , sotto la
classe di quelle capaci di superare il
TDI e comunque i valori limite
individuati dall’OMS nel 1998.
La
assoluzione consegue comunque alla
accertata distanza di ordini di
grandezza che separa le classi di esposizione derivanti dalla dieta del biota
di provenienza dall’area industriale da quelle capaci di produrre un
qualsivoglia effetto indesiderato per
la salute.
La
assoluzione è altresì conseguente al fatto che la evidenza probatoria non
consente di individuare nel catabolismo del PETROLCHIMICO la matrice della contaminazione del sedimento
dei canali dell’area industriale .
Note a margine di interpretazioni eccessive in tema
di avvelenamento (439-452) e di adulterazione
pericolosa alla salute pubblica
Perché il
tribunale non convalida le soluzione interpretative che l’accusa ha proposto in
diritto
Premette il
tribunale che si tratta di un argomento
in coda perché le prove hanno
dimostrato che non sono
concretamente superati neppure i valori soglia
che attengono ad una tutela anticipata
a livello contravvenzionale o di
illecito amministrativo, che deve essere distinta da quella che le fattispecie
penali di cui sopra realizzano .
Il pericolo tipico delle fattispecie
delittuose invocate non sarebbe realizzato nel caso che i parametri definiti
declinando il principio di precauzione , risultassero lievemente superati , non
realizzandosi in questo caso il
pericolo tipico della fattispecie in esame.
Non possono esser condivise le tesi secondo
cui la prova della sussistenza del
pericolo potrebbe essere desunta da leggi extrapenali che realizzano forme
anticipate della tutela della salute mediante prescrizioni o divieti ( parametri di commerciabilità edibilità
,potabilità) né la tesi secondo cui la prova dell’avvelenamento deriverebbe
dalla presenza della sostanza nell’alimento .
La
anticipazione di tutela che le due fattispecie realizzano , seppure in modo
diverso, secondo il dato letterale, non
può prescindere comunque dal concetto di pericolosità, per cui in entrambi i casi è necessario accertare la
presenza del dato reale di pericolosità.
Ciò
che l’accusa non ha adeguatamente valutato , non considerando le
caratteristiche qualitative quantitative
della presenza di inquinanti
effettivamente rilevate in traccia nel biota vivente sul sedimento dei canali
dell’area industriale, sotto il profilo della loro attitudine a farsi causa
iniziante di pur minimi effetti avversi alla salute.
Ed
il tribunale ha invece verificato che le classi di esposizione derivanti dalla
assunzione tramite la dieta del biota in questione sono distanti ordini di
grandezza da quelle capaci di produrre u n qualsivoglia effetto avverso osservato o comunque sperimentato
E tale soglia rappresenta quella del pericolo
reale che si riscontrerebbe nel caso che il dato oggettivo considerato
risultasse sussumibili sotto la classe di quelli capaci di produrre effetti
avversi per l’uomo.
Da tale ipotesi invece le tesi accusatorie
hanno inteso prescinderne
Le differente formulazione delle due norme per cui solo nel caso di
adulterazione si richiede che si
verifichi un pericolo per la salute pubblica, si spiega rilevando che mentre il
concetto di avvelenamento denota in sé una situazione manifestamente pericolosa ,le categorie di adulterazione o
corrompimento sono neutre rispetto alla
probabilità di verificazione di un evento di danno.
Ne consegue che il legislatore risulta avere
voluto sanzionare espressamente non qualsiasi adulterazione ma solo quelle che
comportino una pericolosità per la
salute pubblica delle risorse alimentari.
La anticipazione della tutela non esenta
comunque l’interprete
dall’accertamento della
intrinseca idoneità delle classi di esposizione rilevanti nel caso particolare
a porre in pericolo effettivo l’incolumità delle persone
Ne
consegue che il gradiente di
concentrazione di sostanze presenti nel biota vivente in aree non inquinate
rispetto a quello vivente nell’area
industriale non significa di per sé avvelenamento o adulterazione pericolosa.
Anche la dove la norma non menziona il pericolo, non può ritenersi sufficiente
un pericolo solo congetturale , essendo
le condotte criminose configurabili solo in presenza di un pericolo reale in astratto od in concreto, a seconda
della collocazione che il pericolo assume nella struttura della fattispecie .
Ciò
avviene sempre ove la legge impiega termini cosi pregnanti quali disastro
,avvelenamento o simili.
Ritiene quindi il Tribunale che siano invero
condivisibili le premesse dell’accusa
secondo cui nel caso di avvelenamento, a differenza di quanto avviene per l’adulterazione , dove è espressamente
indicato il requisito della idoneità a ledere , il pericolo è astratto
avendo il legislatore adottato il criterio della presunzione di
pericolosità. , non è invece
condivisibile la affermazione della accusa secondo cui la semplice presenza e la natura pericolosa di una sostanza
inquinante negli alimenti basterebbe a configurare la consumazione del reato di
cui all’art 439 c.p. né è condivisibile
la tesi secondo cui, trattandosi di pericolo astratto o presunto, esso potrebbe essere presente anche in classi di esposizione
lontane e molto inferiori rispetto a quelle che sono ritenute tali da fondare
giudizi di idoneità lesiva.
Secondo questa tesi –non condivisibile - ad
integrare gli estremi dell’avvelenamento del biota lagunare sarebbe necessaria e sufficiente la mera
presenza di una o più sostanze tossiche nell’alimento.
Non può infatti pur in presenza di una norma che configuri come elemento costitutivo del reato il pericolo astratto , prescindersi dalla verifica della realtà del
pericolo, non essendo ammissibili
valutazioni disancorate dal sapere scientifico e poiché il pericolo è requisito della fattispecie
non esiste soluzione interpretativa che legittimi altre soluzioni certamente
infondate
Si ripete
quindi che non è condivisibile una tesi che prescinda dalla verifica
della situazione di pericolo reale e
che di conseguenza il delitto di
l’avvelenamento avrebbe potuto
ritenersi provato solo nel caso in cui
fosse risultato superato il valore soglia , ed poi determinate le classi
di esposizione al livello delle quali è possibile ritenersi il prodursi di
effetti avversi e determinato il
confronto tra queste e quelle suscettibili di derivare tramite la dieta
costituita dal biota si fosse dimostrato che queste corrispondevano a quelle.
L’accusa
si è limitata a fare il confronto con il TDI (DGA) di riferimento,ma all’esito
delle prove ed a maggiore ragione dopo
le analisi di Berlino risulta essere
provato che per tutte le sostanze di interesse processuale ,le esposizioni
suscettibili di derivare tramite la
dieta costituita dal biota di provenienza dall’area industriale non superano i
valori soglia di riferimento
Neppure è condivisibile la tesi proposta
dalla avvocatura dello Stato -con riferimento all’accertamento del pericolo
concreto tipico della adulterazione -
secondo cui, premessa la legittimazione a fondare il giudizio di pericolo
anche su altri indici, nel caso
specifico di adulterazione delle acque destinate alla alimentazione , il
giudizio di pericolo potrebbe essere fatto assumendo come parametro di
riferimento la disciplina normativa relativa
alla loro potabilità in
particolare il D. P .R 24-5-1988 n 236 –art 21- la dove la norma assume la
rilevanza di “conseguenze per la salubrità
del prodotto alimentare finito”
Per quanto riguarda la concreta pericolosità
delle sostanze alimentari per la salute – vongole - il riferimento sarebbe al
D.L. 30-12-1992 n 530 legge attuativa della direttiva 91/492/CEE che stabilisce
le norme sanitarie applicabili alla produzione e alla commercializzazione
dei molluschi bivalvi vivi per il
consumo umano- determinando parametri
di qualità del prodotto: edibilità e
commerciabilità.
Tesi anche questa non condivisibile in base
al principio secondo cui se è vero che
la attitudine di una sostanza alimentare
a recare nocumento alla salute
può essere provata con ogni mezzo consentito è altrettanto vero che non può essere arbitrariamente ritenuta
Nei
delitti contro l’incolumità pubblica il
pericolo è un requisito fondato sempre
comunque su un giudizio di
idoneità della condotta e ledere che è
cosa diversa dal pericolo immanente alla violazione di regole comportamentali
previste da leggi speciali ,la cui violazione è sanzionata come contravvenzione
o illecito amministrativo ,quand’anche finalizzate alla tutela dalla
salute.
Nei delitti contro l’incolumità pubblica il
codice penale distingue da contingenze tutte
diverse, situazioni razionalmente ritenute passibili di più severa
sanzione ,stante la differente offensività della condotta tipica .
Va comunque ribadito che per gli inquinanti
di interesse processuale risulta essere
provata la riconducibilità delle
concentrazioni presenti nel biota di provenienza dall’area industriale sotto la
classe di quelle non vietate dalla legge speciale e ciò per taluni tipi di contaminanti risulta essere stato
accertato proprio alla stregua delle
previsioni di cui al D Lvo 30-12-1992 n 530 che stabilisce norme sanitarie
applicabili alla produzione e alla commercializzazione dei molluschi bivalvi
vivi (edibilità)
Tali normative attengono comunque al tema
delle edibilità che è cosa diversa dall’avvelenamento e/o adulterazione nel senso che, quand’anche fosse stata
accertata la non edibilità del biota di provenienza dall’area industriale, il
problema dell’avvelenamento e o
dell’adulterazione non sarebbe stato comunque risolto sul piano probatorio.
Per altri contaminanti è stata accertata la
distanza notevole che separa dai valori soglia le dosi di assunzione di prodotti provenienti dalla zona in
questione e per le diossine è stato egualmente accertato che non risultano
superati i parametri che costituiscono espressione e misura del principio di
precauzione
Entrambi i parametri non distinguono comunque
ciò che è avvelenato o adulterato da ciò che non lo è , se anche fosse stato accertato il superamento dei valori soglia
o dei limiti di edibilità –talora coincidenti- si sarebbe accertata la
violazione della particolare disciplina , che non sarebbe stata però
apprezzabile di per sé come indice di reali pericoli alimentari o come prova
di avvelenamento o adulterazione
pericolosa.
Pertanto
la tesi della avvocatura dello stato non può essere condivisa , a prescindere dal fatto che in concreto
neppure risultano essere state
violate leggi speciali. Va pertanto
criticato il programma probatorio della accusa
che non attribuisce alcun rilievo
al problema della definizione del livello di esposizione a cui la ricerca scientifica associa effetti
avversi.
Coerentemente ad una ipotesi interpretativa
eccessiva l’accusa non assume e non
rende informazione adeguata sulla caratterizzazione del rischio reale derivante dalla esposizione tramite la dieta agli
inquinanti di interesse processuale.
Coerentemente ad una ipotesi interpretativa
che opera una indebita retrocessione del pericolo tipico dell’avvelenamento
e della adulterazione a parametri
normativamente tipizzati o
tipizzati da agenzie regolatorie -che
sono espressione del principio di precauzione ma non misura della idoneità a ledere
l’accusa si è limitata a proporre
l’uso di quei parametri , facendone peraltro malgoverno sia con riferimento ai dati di consumo sia
con riferimento ai dati di concentrazione.
Nessuna allegazione od informazione è
stata data dall’accusa in ordine
alle valutazioni di correlazione tra dosi ed effetti avversi, inesistente è
l’analisi di dati clinici ,epidemiologici
tossicologici pertinenti alla esposizione e ciò come conseguenza
coerente al programma di prova messo in atto
dalla accusa basato sulla
proposizione chiave – errata in diritto –secondo cui i parametri normativamente
tipizzati o tipizzati dalla agenzie regolatorie- espressione solo del principio di precauzione e non
della misura di effettiva idoneità a ledere -distinguono ciò che è avvelenato
da ciò che non lo è ciò che è realmente
pericoloso da ciò che adulterato non è
Per tali motivi deve escludersi la
sussistenza dei reati di avvelenamento
e adulterazione pericolosa per la
incolumità pubblica.
Individuazione delle classi di dosi capaci di produrre il tipo di effetti osservati gli
effetti cancerogeni
Insussistenza di tale rischio nello scenario
delineato in imputazione
Brevi cenni alla distanza di ordini di grandezze da
quelle di interesse processuale
Premesso che
si è discusso degli effetti
cancerogeni suscettibili di derivare in
capo al consumatore dalla assunzione di
biota di provenienza dall’ara industriale tramite la dieta e che si verificata la complessità
delle relazioni intercorrenti tra
esposizione ,suscettibilità genetica e cancro,va anche chiarito che non sono
questi i termini di contraddizione che hanno opposto accusa e difesa nel processo.
Di fatto la
discussione relativa alla sussistenza dei reati di avvelenamento e
adulterazione ha avuto riguardo alla verifica del superamento o meno dei
parametri tipici della tutela
anticipata- DGA – e su questo terreno l’accusa è stata smentita perché è stato dimostrato che i parametri
pertinenti alla tutela più anticipata
non sono stati superati
E di conseguenza
certo che ai livelli di esposizione di cui può parlarsi in questo
procedimento e comunque nello scenario delineato dall’imputazione,
non c’è spazio per un pericolo
reale e ciò perché tutti gli studi che
documentano effetti osservati
trattano di esposizioni che sono
ordini di grandezza più elevate di
quelle di cui si è discusso.
Gli esperti delle difese discutono per
sintesi le evidenze emergenti per ciascun tipo di sostanza di interesse
processuale da studi epidemiologici
,riportando le valutazioni di cancerogenità effettuate dall’IARC
Gli esperti
tale istituzione esaminano la letteratura disponibile sulla sostanza allo
studio e alla luce delle letteratura esaminata l’istituto esprime un
giudizio generale di cancerogenità,
separatamente per gli animali e per l’uomo formato da quattro categorie cosi
identificate
Evidenza
sufficiente quando si ritiene che esista una relazione tra esposizione e
insorgenza di tumore.
Evidenza
limitata: quando si ritiene che esista la relazione di cui sopra ma che anche
l’azione di altri fattori ( caso
,distorsione o confondimento) non possa essere ragionevolmente esclusa.
Evidenza
inadeguata :quando si ritiene che non
sia possibile in base agli studi esistenti
raggiungere una conclusione
sulla presenza o meno di effetti cancerogeni, oppure non ci siano studi
disponibili.
Evidenza
che suggerisce la mancanza di
cancerogenità
Queste 4 categorie
ammettono poi delle
specificazioni per quanto riguarda gli animali e vengono quindi presi in considerazione per la valutazione anche altri dati, eventualmente disponibili, quali ad esempio la
caratteristiche anatomo - patologiche, effetti genetici,
metabolismo,farmacocinesi, meccanismi di cancerogenesi.
Effettuata la
valutazione complessiva le sostanze vengono quindi classificate in 5 gruppi
Gruppo 1 : la
sostanze è cancerogena per l’uomo ciò avviene quando vi e evidenza sufficiente
nell’uomo
Gruppo 2 A :
la sostanza è probabilmente cancerogena per l’uomo, ciò avviene quando vi è
evidenza limitata nell’uomo e sufficiente nell’animale
Gruppo 2 B:
la sostanza e possibilmente cancerogena per l’uomo e ciò avviene quando vi è
evidenza limitata nell’uomo e meno che sufficiente nell’animale
Gruppo 3: la
sostanza non è classificabile quanto a
cancerogenità per l’uomo e ciò avviene quando vi è evidenza inadeguata
nell’uomo ed evidenza inadeguata
limitata nell’animale
Gruppo 4: la
sostanza è probabilmente non cancerogena per l’uomo
Premette
quindi il Tribunale che la valutazione dell’IARC è esclusivamente
qualitativa e non affronta mai il
problema della dosi ,non interessando
all’istituto rendere giudizi sulla idoneità a ledere di una classe di
esposizione rispetto all’altra .
Chiarisce
poi ancora il Tribunale con riferimento alla predette classificazioni come il
significato del gruppo 3 che richiede evidenza inadeguata nell’uomo e evidenza
limitata o inadeguata nell’animale si riferisca per quanto riguarda il termine
inadeguata a due ipotesi :
che gli studi disponibili non permettano
di esprimere conclusioni sulla presenza o meno di effetti cancerogeni;
che non ci siano studi disponibili
E altresì evidente come la assenza di studi non possa
significare che se ci fossero gli esiti dimostrerebbero la presenza di effetti
cancerogeni.
Nella sentenza segue a questo punto la esposizione di
un quadro riassuntivo delle valutazione dell’IARC pertinenti alla cancerogenità
delle sostanze di interesse processuale.
Diossine
Tutte le diossine ,al di fuori della diossina per
antonomasia (2,3,7,8 TCDD- tetraclorodibenzo diossina) che è sicuramente
cancerogena e a cui ci si riferisce
quando si parla di diossina al
singolare , mentre quando si usa il
termine al plurale ci si riferisce ai PCDD, sono risultate non classificabili
sotto il profilo della cancerogenità
per l’uomo (gruppo3)
( per diossine simili –dioxine like si definiscono invece i PCDF e i PCB e se ne
parlerà dopo).
Sulla base degli studi eseguiti sia su casi in cui l’esposizione è avvenuta
in forma diretta sia su casi in cui l’esposizione è invece avvenuta in maniera indiretta , le conclusioni sono
che complessivamente : la 2,3,7,8 –TCDD e ritenuta cancerogena le altre
diossine – nulla viene proposto per quanto riguarda le OCDD/F di cui si
discusso in termini di impronta – non sono classificabili quanto alla loro cancerogenità per l’uomo.
Rileva
l’ente nel 1997 che “ la mancanza di un
precedente non può escludere la possibilità che la diossina ad alte dosi
possano agire come cancerogeno per molti siti
Da tale
giudizio prudente che riguarda alte dosi non possono trarsi giudizi relativi ad esposizioni a basse dosi
e a sostanze di natura diversa.
Va in particolare evidenziato come il giudizio del
IARC sia relativizzato a ad esposizioni ad alte dosi
Per quanto
poi riguarda la entità della
esposizione è lo stesso ente che dichiara che si tratta di studi su casi in cui
la esposizione è stata molto più alta
di quella riscontrabile nella popolazione in generale, e l’esposizione derivante dalla assunzione della dieta con il biota proveniente
dall’area industriale è sicuramente
equiparabile a quella della popolazione in generale.
Ed è invero
lo stesso esperto dell’accusa a dichiarare che tutte le concentrazioni di
diossine rinvenute nel biota lagunare sono di fatto propriamente confrontabili
con i livelli frequentemente riscontrati
sotto l’influenza di un impatto antropico diretto da moderato a
trascurabile
Anche altri
studi effettuati per conto di enti pubblici
sono arrivati conclusioni incompatibili con il dato di esposizioni
anomale .
Ed in altro studio presentato al convegno Dioxin 99
si afferma che l’esposizione alle diossine per via alimentare della popolazione
veneziana si pone ai livelli più bassi
dei valori di esposizione delle popolazione europee
L’esperto
della difesa ha anche evidenziato che
gli attuali livelli di esposizione delle popolazioni umane ( 2-3- n g /kg )sono ordini di
grandezza inferiori rispetto a quelli
osservati negli studi sperimentali e nelle corti lavorative oggetto di
valutazione da parte dell’IARC.
Premesso che le diossine che interessano sono gli
OCDD che poco hanno a che fare con la
TCDD si osserva come non esiste
alcuna fonte , nessun studio epidemiologico in letteratura che segnali effetti sulla salute e che anche facendo riferimento alla tossicità di
questo prodotto si rileva come fosse di
un millesimo rispetto a quella del TCDD e come sia stata abbassata ad un
decimillesimo .
Premesso che con questo termine si
definiscono i PCDF e i PCB osserva il Tribunale come per l’IARC i PCDF risultino essere non
classificabili sotto il profilo della cancerogenità (Gruppo 3)
Diversamente per i PCB (Policlorobifenili) partendo da una evidenza limitata per l’uomo
e da una evidenza sufficiente per l’animale l’ IARC in tre successive
valutazioni – eseguite rispettivamente
nel 1974 ,1978,1987 classifica la
sostanza tra i probabili cancerogeni per l’uomo (gruppo 2 a)
Alla
valutazione dei PCDF come non classificabili l’IARC è pervenuto rilevando che
vi una evidenza inadeguata per l’uomo, una evidenza limitata o inadeguata negli animali
Nulla viene
rilevato negli studi IARC sugli OCDF e cioè su quei congeneri per cui si è
molto discusso in termini di impronta del cloro.
Considerazione analoghe a quelle evidenziate per le diossine
valgono quanto al livello di esposizione delle popolazioni osservate
Anche per gli
OCDF non esiste alcun informazione
epidemiologico che ne abbia rilevato gli effetti cancerogeni
Anche per questo congenere la tossicità confrontata con quella della diossina è
stata ridotta da un millesimo ad un decimillesimo ed anche in questo caso no si
tratta comunque di effetti cancerogeni
Per quanto riguarda i PCB –poli cloro bifenili-
premesso che non esistono valutazioni recenti per quanto riguarda la loro
cancerogenità l’IARC risulta averne fatto 3 valutazioni : la prima nel 1974
senza esprimere alcun valutazione in mancanza di studi epidemiologici, la seconda nel 1978 in cui
era risultata una evidenza sperimentale
sugli animali di effetti cancerogeni
di alcuni bifenili policlorurati ed evidenza suggestiva di una relazione tra
esposizione PCB e sviluppo di melanoma maligno , la terza nel 1987 dove sulla
base di una evidenza limitata nell’uomo ed una evidenza sufficiente sugli animali si era concluso che i PCB sono probabili cancerogeni per l’uomo.
I tumori che
interessano gli animali sono quasi esclusivamente i tumori al fegato.
Dopo la valutazione IARC nel 1987 sono stati fatti
cinque studi epidemiologici condotti su
coorti di lavoratori esposti professionalmente
a PCB e gli esiti di questi studi rendono difficile e problematica la
espressione di un giudizio.
Due studi hanno fornito risultati negativi.
Un terzo lavoro ha segnalato un eccesso di melanoma
Un quarto ha segnalato un eccesso di melanoma e di
tumori al cervello
Un quinto studio ha segnalato un eccesso di tumori al
pancreas
Due ulteriori studi hanno segnalato il primo un
eccesso di linfomi non Hodgkin ,un secondo un eccesso di mieloma multiplo e di
melanoma in coorti di pescatori del Mar Baltico.
Nessuno degli
studi effettuati ha invece segnalato tumori al fegato.
Conclusivamente gli esiti degli esperimenti sugli
animali riguardano quasi esclusivamente l’insorgenza di tumori al fegato
,mentre gli studi epidemiologici ,quando segnalano eccesso evidenziano sedi
diversa dal fegato ed in particolare melanoma o sistema linfoemopoietico.
Gli studi più
recenti diretti ad accertare effetti cancerogeni dei DDT avrebbero portato invece ad evidenziare una
relazione tra PCB e linfoma non
hodgkin.
Gli stessi
autori dello studio sono però molto cauti nella loro valutazione per la quale evidenziano la necessità di
ulteriori approfondimenti e di
conseguenza anche il Tribunale non è in grado di valutare le sopravvenienze rispetto alle conclusione
IARC 1987 quando le conclusione erano nei termini di una evidenza
limitata mentre studi successivi
segnalano in alcuni casi assenza di evidenza in altri evidenza di effetti
Stabilire comunque quali delle conclusioni sia
preferibile non interessa il giudizio del tribunale atteso che tutti gli studi hanno riguardo ad esposizioni con seguenti a gravi episodi di intossicazione alimentare o ad episodi di
esposizione professionale stimate
ordini di grandezza molto più elevati di quelli propri dei gruppi di confronto
Quanto invece
ai livelli di esposizione della popolazione veneziana ai PCB basterà ricordare quanto affermato dal
consulente dell’accusa secondo cui i
livelli riscontrati nel pescato lagunare sono confrontabili con quelli
riscontrabili in aree marine oceaniche.
Risulta
comunque dirimente il fatto che sia per le diossine come per le diossine simili
considerati i valori di
concentrazione riscontrati a Berlino nel biota di provenienza dall’area
industriale , anche per un forte
consumatore il margine di sicurezza
anche quello più basso è notevole, e che in ogni caso i margini di
sicurezza ,con riferimento ai parametri sopraindicati , secondo la tabella di esposizione riportata nelle relazioni del
consulente della difesa, risultano per
il consumatore medio da 54 a 215 volte e per il consumatore forte da 7 a 28 volte.
Ed ancora veniva rilevato come le esposizioni
considerate nella economia di giudizi sulla cancerogenità delle sostanze allo
studio sono ordini di grandezza(centinaia se non migliaia di volte ) più
elevate di quelle di interesse processuale e che gli effetti cancerogeni in sede epidemiologica si riscontrano a livello di esposizioni non
confrontabili e non paragonabile a quelle in discussione
L’IARC ha
trattato la cancerogenità della esposizione agli IPA per la prima volta nel
1973 ed in epoca più recente altre
monografie hanno aggiornato la
valutazione della cancerogenità degli
IPA sia con riferimento alle specifiche sostanze chimiche sia con riferimento
alle miscele nel 1983 3 nel 1987.
L’esposizione
agli IPA interessante l’uomo si
caratterizza rispetto ad altre perché avviene solitamente attraverso miscele o
composti ( fuliggine nero di carbone nerofumo catrame carbone fossile, pece oli
minerali ,fumo di sigaretta ,fumo di scarico
dei motori,bitumi ,tutti i
composti che contengono una delle indicate sostanze) e pertanto scarsa è
l’informazione epidemiologica
pertinente alle esposizioni alla singole sostanze, avvenendo esclusivamente su base
sperimentale(animali), mentre esiste
quella relativa ai composti o miscele.
Essendo le
sostanze molte ,alcuni studiosi assumono come significative delle
caratteristiche del gruppo ,quelle
proprie di una sostanza.
La più
studiata e il benzo(a) pirene
Con
riferimento alle sostanze di interesse processuale si rileva che appartengono
al catalogo delle più note nella classe
IPA
Alcune di
esse sono classificate dall’IARC nel
gruppo 2A come probabilmente cancerogene
per l’uomo e ne segue elenco
Altre sono
invece classificate nel gruppo 2B come possibile cancerogeno per l’uomo ne segue
egualmente l’ elenco
Altre
sono inserite nel gruppo 3 come non classificabili : cosi il dibenzo(ae)
fluorantene
Deve comunque evidenziarsi che la gran parte delle
sostanze in sé considerate non sono state esaminate e che per nessuna delle
sostanze nominate esistono studi epidemiologici importanti e che qualche informazione esiste solo per
il benzo(a) pirene.
La evidenza
che riguarda l’uomo è considerata
limitata o inadeguata a seconda che tali sostanze possano dirsi presenti o meno in miscele giudicate cancerogene
Esempio il
benzoantracene è ritenuto cancerogeno perché il catrame di carbone in cui è contenuto è cancerogeno ma non si sa se la cancerogenità del catrame
di carbone dipenda dal benzoantracene.
Dalla
valutazione delle miscele non è comunque possibile trarre valutazioni certe sui
singoli componenti
Nel 1983
l’IARC ha valutato come cancerogeno :
il fumo di tabacco in relazione al quale sono
segnalate evidenze epidemiologiche in diverse sedi
l’inquinamento dell’aria che si evidenzia come causa efficiente
dell’insorgenza di tumori respiratori
E in tale contesto
relativamente allo studio Iarc
83 vanno fatte due considerazione rilevanti:
non vi è
evidenza epidemiologica che dimostri come l’ingestione di cibi contenenti
tracce di IPA determini apprezzabili aumenti di rischio di cancro per l’uomo
benché non vi
siano studi che evidenziano un nesso tra esposizione ad IPA e tumori ,vi sono
numerosi studi che evidenziano aumenti di rischio per tumori della pelle e
dello scroto in seguito ad esposizione
a fuliggine catrame e oli minerali e per tumori al polmone a seguito di esposizione a gas di carbone ed emissione da forni di
cokeria.
e piche tutti
questi composti contengono IPA si pone il problema del loro contributo alla
cancerogenesi ,problema non risolto per
i singoli composti appartenenti alle
classi IPA
Nel 1987 l’IARC ha valutato la cancerogenità delle
miscele o dei singoli composti , distinguendo le varie classi da cancerogeno
a probabilmente cancerogeno a possibilmente
cancerogeno a non classificabile come cancerogeno,ne segue un elenco sia delle miscele come dei singoli
composti, distinti a secondo del gruppo di appartenenza e gli effetti cancerogeni osservati hanno
riguardate prevalentemente polmone e vescica.
Secondo il
quadro di riferimento riportato negli studi IARC, risulta presente a Marghera ,delle sostanze o miscele di cui è stata valutata la cancerogenità ,
solo il nerofumo e tale sostanza è
stata classificato nel gruppo 3 stante la evidenza inadeguata di cancerogenità
per l’uomo .
Nessuna delle
sostanze o miscele contenenti IPA,
appartenenti al gruppo 1, ha
invece a che fare con le produzioni di interesse processuale.
Va da ultimo
evidenziato come le concentrazioni di IPA
nei campioni di vongole provenienti
dai canali industriali accertate
a Berlino risultino ventidue volte inferiori a quelli proposti dal CT Raccanelli
e che i valori rilevati si collocano a livelli confrontabili con quelli
presenti nei prodotti ittici normalmente
edibili e commerciabili
IL tribunale
espone quindi nella sentenza i risultati degli studi epidemiologici fatti anche
per i metalli –mercurio e piombo - per
l’esaclorobenzene per l’esaclorobutadiene
ed anche per queste sostanze valgono conclusivamente considerazioni
analoghe a quelle svolte per gli altri prodotti inquinanti.
Conclusivamente osserva il tribunale come
per tutte le sostanze di interesse processuale o non sono stati osservati effetti cancerogeni o lo sono stati a
livelli di esposizione ,ordini di grandezza, molto più elevate rispetto a
quelle presenti nei luoghi del processo.
Le dosi di assunzione derivanti dal consumo
delle vongole rimangono al di
sotto della classe di dosi capaci di
superare il limite soglia .
Esiti
del confronto tra le classi di dosi cui l’osservazione sperimentale sugli
animali associa effetti cancerogeni con le dosi di assunzione rilevanti nel
processo
Per quanto riguarda le diossine risulta che la misura della esposizione è in (TEQ) dell’ordine di 0,19 p g/kg/die
quindi di un consumo massimo di 0,019 p g/KG/DIE di TCDD
La dose
cancerogena per gli animali è di oltre 5milioni di volte superiore alla dose
ipotetica di assunzione ,esagerata per eccesso.
.Per quanto riguarda i 17 congeneri la dose
cancerogena è circa 2 milioni di volte superiore alla dose ipotetica di
assunzione.
Viene quindi
fatta seguire una esposizione analitica
per ciascun inquinante degli esiti del
confronto da cui risulta per ciascun
inquinante la rilevantissima differenza
– da 100.000 a diciotto milioni di volte -tra le dosi di esposizione , derivanti dal consumo del biota della zona industriale e quelle a cui viene associato un effetto cancerogeno .
Tenuto conto
del quadro di riferimento il tribunale
accerta conclusivamente che gli effetti
cancerogeni osservati in sede sperimentale su animale si producono a livelli di classi di dose superiore ordini
di grandezza ( centinaia di migliaia di volte solo in qualche caso decine di
miglia di volte) rispetto a quelle
interessanti in questa sede e suscettibili di derivare dalla assunzione tramite
la dieta ,di biota di provenienza dall’area industriale.
Di conseguenza deve escludersi la sussistenza di
pericolosità con riguardo agli effetti cancerogeni per classi di esposizione
interessanti questa sede e ciò sia facendo riferimento alle dosi di
esposizione accertate dalla difesa come
a quelle pur erronee indicate dalla
accusa .
E gli esiti
delle indagini svolte in questa sede convergono con quelli risultanti da altre
fonti in cui non è stato accertato
alcun aumento di rischio nella popolazione della laguna e delle isole rispetto a quella della terraferma.
In definitiva
le concentrazioni di sostanze inquinanti rilevate nel biota di provenienza
dell’area industriale sono largamente inidonee , sicuramente inidonee pure solo a porre il problema della
produzione di effetti avversi come effetti cancerogeni
5.23Gli effetti non cancerogeni
Insussistenza
di tale rischio nello scenario di imputazione
Brevi cenni
alla distanza ordini di grandezze da quelle di interesse processuale
Infondatezza manifesta delle tesi di accusa sulla
inadeguatezza del limite OMS 1998 a
garantire la necessità di proteggere i soggetti deboli
Osserva il
tribunale come le concentrazioni di
sostanze inquinanti siano largamente inidonee
a porre il problema della
produzione di effetti avversi per la salute, anche per quello che riguarda
effetti non cancerogeni.
Per quel che riguarda lo specifico delle
diossine i rapporti tra i livelli più
bassi di esposizione, in grado di
produrre effetti osservati o comunque noti e, i livelli di esposizione
pertinenti al processo variano a
seconda del tipo di effetti considerati ,da un mimino di tre a un massimo di
sei ordini di grandezza.
Questa
misura-che separa le due dosi -è stata determinata , tenendo prudenzialmente
conto del fatto che sia la Commissione Europea (2000) sia l’OMS(1998) specificano
che gli effetti tossici rilevati in sede sperimentale sono stati prodotti da somministrazioni di 2,3,7,8 TCDD
( la diossina più tossica) e non dalle
sostanze inquinanti di interesse processuale e tenendo conto altresì del fatto
che sommare ,secondo fattori di
conversione di tossicità
equivalente, la tossicità del PCB a
quella del TCDD è cosa conforme
alla convenzioni tipiche dei procedimenti regolatori piuttosto che a regole
scientifiche.
E seguendo questi criteri prudenziali la Commissione
europea e l’ OMS hanno concluso nel
senso che il livello più basso a cui
potrebbero verificarsi effetti avversi non cancerogeni è distante non meno di dieci volte dal TDI di riferimento (1-4 pg Teq KG. p c.die).
Tale fattore di sicurezza 10 è applicato tenendo conto della esposizione suscettibile di derivare da tutto il
complesso degli alimenti costitutivi
delle dieta e ,con riferimento
ai livelli di esposizione relativi ai forti consumatori , varia da un minimo di
tre ad un massimo di sei ordini di grandezze.
Accertato che
per tutti i metalli non
risultano superati i livelli di
concentrazione, previsti dalle norme relative alla produzione e commercializzazione
dei molluschi bivalvi vivi, l’accusa si è concentrata sulla rilevanza del problema dei valori di concentrazione
pertinenti ad altri inquinanti
Ed accertato
che anche per gli altri inquinanti i valori di concentrazione sono valori normali e che comunque non
superano i valori soglia ,il discorso della accusa ha finito per concentrarsi sulla questione dell’effettivo margine
di protezione suscettibile di derivare dal rispetto del TDI per i consumatori
più deboli ( neonati ,donne in
gravidanza e in lattazione anziani
,persone in cattivo stato di salute etc ) , ipotizzando in tesi di accusa che
possano derivare effetti nocivi dalla diossine e dai furani anche se assunti in
dosi compatibili con i valori limiti di soglia
di riferimento.
Il Tribunale ritiene infondata la tesi accusatoria
,sostenuta anche da Greeenpeace , che ignora e rimuove il problema della
definizione delle classi di esposizione
che possono produrre gli effetti avversi .
E sul punto si ricorda che anche il principio di
precauzione fa riferimento a dei limiti
di assunzione delle sostanze , assumendo in funzione della finalità
protettiva misure che sono ordini di
grandezze lontano dalla dose
la cui assunzione non provoca
effetti tossici sugli animali più sensibili
e misure ancora più distanti da
quelle che sarebbe pensabile essere idoneo a provocare minimi effetti indesiderati
nell’uomo.
Tutti gli
effetti tossici non cancerogeni riscontrati negli esperimenti sugli animali , sono stati verificati dopo
somministrazione ad alte dosi non confrontabili con quelle di cui al processo
Partendo
dalle sperimentazioni sugli animali
sono state fatte due estrapolazioni :
1) una relativa alla valutazione del rischio per la
animale esposto a basse dosi;
2) l’altra qualitativa e quantitativa relativa al trasferimento del dato animale
sull’uomo.
Va poi
aggiunto che tutte le sperimentazioni sono state fatte utilizzando la 2,3,7,8
TCDD pura.
Considerato quindi che lo scopo della indagine è
quello di trovare una dose sicura per l’uomo l’aspetto più problematico è
evidentemente quello della
estrapolazione dall’animale all’uomo .
La prima
tappa è quella dell’accertamento del
NOAEL ,dose di sostanza priva di
effetti tossici, determinata partendo
dalla sperimentazione sull’animale e apportandovi correzione mediante fattori di
sicurezza che tengono conto di
valutazione etiche e politiche.
Ed anche
nella economia del procedimento regolatorio seguito dalla OMS e dalla Commissione Europea il
perturbamento dello stato di benessere dei soggetti più deboli risulta essere
stato valutato in modo approfondito ,coerentemente con le finalità delle
predette istituzioni di definire la misura della precauzione, determinando valori soglia ultraprudenziali , tenendo
conto anche delle fasce di popolazione
più sensibile.
E la definizione della soglia accettabile, cioè
sicura e adeguata alla necessità di protezione della salute di tutta la
popolazione ,compresi le donne gravide e in lattazione , è stata come gia detto
determinata a dosi 10 volte inferiori a
quelle che comunque non sono in grado di produrre gli effetti menzionati.
Ne consegue
che le tesi di accusa,secondo cui non può escludersi che effetti tossici non
cancerogeni possano derivare da
esposizione a diossine e furani
anche a livelli compatibili con i limiti soglia sono
infondate
5.24 Esiti
in materia di avvelenamento e/o di adulterazione pericolosa
Ritiene conclusivamente il tribunale che la tesi
accusatoria ,relativa alla sussistenza di pericoli alimentari tipici del
delitto di avvelenamento e del delitto di adulterazione deve essere ritenuta
infondata in fatto (più di quanto non siano erronee le premesse interpretative
in diritto)
La prova
della insussistenza del fatto ,consegue non a ragione della insufficienza
probatoria ma in base alla esistenza
di prove adeguate acquisite a seguito
di un completo lavoro istruttorio , non essendo le classi di esposizione
derivanti dalla assunzione dei prodotti ittici provenienti dai canali
dell’area industriale sussumibili sotto le classi di esposizione in relazione alle quale è possibile fondare
giudizi di pericolo.
Il Tribunale
ha verificato che le caratteristiche
qualitative e quantitative degli inquinanti rilevati in traccia nel biota dei sedimenti della zona industriale non permettono di ritenerne la loro
attitudine a farsi causa di effetti avversi alla salute; che le classi di esposizione
derivanti dalla assunzione tramite
la dieta del biota in questione sono distanti ordini di grandezza da quelle
capaci di produrre effetti negativi osservati o sperimentati.
Accertata la carenza dei presupposti del pericolo ,accertata
la inidoneità delle classi di esposizione pertinenti alle concentrazioni di
inquinanti rilevati in traccia nel
biota vivente nel sedimento dell’area industriale a provocare danno alla salute
, accertato che, nello scenario del processo , le classi di concentrazione
degli inquinanti non appartengono
a classi di concentrazioni anomale,
verificato il mancato superamento dei valori soglia e dei parametri di protezione alimentare che
applicano il principio di precauzione ,è dato ritenere l’insussistenza
dei fatti contestati .
Va ancora osservato che, secondo l’accusa, il reato
di disastro innominato ed il supposto
pericolo per l’incolumità pubblica conseguirebbe agli effetti sul biota
dell’inquinamento dei sedimenti dei
canali, con la conseguenza che la mancata prova della asserita pericolosità
della ittiofauna costituisce a maggior
ragione prova del fatto che nessun pericolo per la salute pubblica può essere
anche solo astrattamente ricollegato alle supposte cause mediate ,
cioè all’inquinamento dei sedimenti.
La
assoluzione è altresì coerente alla evidenza probatoria che non consente
di individuare nel catabolismo del Petrolchimico la matrice
della contaminazione del sedimento dei canali dell’area industriale indistintamente considerata.
Agli imputati non è neppure possibile riferire
l’inquinamento del Canale Lusore Brentelle –sicuramente prodotto dal
catabolismo del Petrolchimico – e degli ambiti adiacenti ,per avere
l’accusa trascurato la necessità di una
indagine relativa alla datazione
dell’inquinamento al fine di accertarne
l’apporto dei singoli gestori, in definitiva ,per essere stato
trascurato il problema delle rilevanza
causale della singole condotte degli imputati.
Comunque
anche gli addebiti di colpa ,in sé considerati, risultano infondati in fatto e
in diritto e pertanto l’accusa nel suo complesso è infondata.
III parte -appello del PM
Capitolo 3.5
Erronea
contraddittoria ed illogica esclusione
del reato di avvelenamento colposo
Premessa
la distinzione teorica tra reati di pericolo concreto , reati di pericolo
astratto e reati di pericolo presunto -
basata sulla esistenza per i primi della prova
concreta del pericolo per il bene protetto e per i secondi invece della
prova della sola condotta ritenuta dal legislatore in sé pericolosa -osserva il P.M come, per dimostrare la
sussistenza del reato di cui all’art 439 c.p, si debba provare che le acque o
le sostanze alimentari sono state
avvelenate ,cioè contaminate da sostanze tossiche, anche non letali ,in concentrazioni
tali da potere comunque danneggiare l’organismo umano, mentre non è necessario provare l’effettivo cioè concreto
verificarsi del pericolo.
Ed è incontroverso che non la presunzione
legale di un pericolo effettivo fondi il disvalore dei reati di pericolo
astratto , bensì la pericolosità generalmente e normalmente insita nel fatto
tipico.
E la pregnanza semantica di un elemento di
fattispecie –l’avvelenamento appunto-a connotare il delitto de quo ,cosi che
non ha senso parlare di presunzioni legali di pericolo.
Concorda poi il P.M con il fatto incontroverso che
attribuire la responsabilità penale di un evento, al di fuori del collegamento
causale con l’azione, sarebbe contrario al sistema formato dagli art 25
II°comma e 27 III ° comma Costituzione .
Dal coordinamento delle predette norme risulta poi chiara la esigenza che il
soggetto ,cui si applica la sanzione ,sia proprio quello che ha commesso il
fatto dotato di disvalore .
Premesse alcune considerazioni di carattere
generale, relative alla differenza tra l’evento di danno e quello di pericolo,
il primo certo ontologicamente, il secondo invece solo altamente probabile , in
quanto riferito ad una realtà futura e quindi incerta – per cui un Tribunale
,che pretendesse la certezza ontologica del pericolo , finirebbe per non poter mai ravvisare una condizione di
pericolo- osserva il P.M come nel caso
concreto il pericolo sia stato contestato in ragione dello avvelenamento delle acque e sostanze alimentari ,cioè di
una modificazione prodotta mediante
immissione di veleni o sostanze tossiche ,capaci di produrre sostanze dannose
nel sistema biologico,alterandone seriamente le funzioni.
L’accusa
ha dimostrato che gli imputati hanno provocato nel corso di decenni emissioni
nell’aria , nell’ acqua superficiale ,nell’acqua di falda ,nel suolo
e sottosuolo di sostanze
tossiche in violazione delle norme che disciplinano tale attività ed in
concentrazione che comunque mettono in pericolo la salute pubblica e che
ciò ha comportato una modifica
della realtà esistente , e creato un
pericolo che prima non c’era o aggravato quello gia sussistente .
L’accusa ha dimostrato che legato alla condotta ,che ha modificato
la realtà esistente , è il pericolo
rappresentato da una nuova situazione in cui si è evidenziata una
manifestazione di danno genetico .
La associazione tra evidenze di danno e
presenza di inquinanti industriali è tangibile e reale
Dall’esame delle evidenze sperimentali
relative agli anni 93/99 la zona di Porto Marghera prospiciente il Petrolchimico è risultata caso del tutto
particolare rispetto ad altre aree lagunari , perché livelli significativi di
danno genetico sono stati rilevati ripetutamente in mitili e pesci .
Analisi
chimiche più recenti hanno suggerito una relazione tra danno biologico e
contaminazione da IPA, bifenili
policlorurarti ed esaclorobenzene, in particolare la presenza della DRZ - zona
diagonale radioattiva- è segno di esposizione multipla a composti aromatici DNA reattivi.
Negli organismi studiati in particolare nei
mitili-tenendo conto dei tempi di vita, del fatto che filtrano la colonna
d’acqua , della loro elevata capacità di bioaccumulo e della limitata capacità
metabolica- è risultato accertata la
avvenuta contaminazione ,a causa della
esposizione ambientale, ad agenti genotossici,nei periodi menzionati
,esposizione che ancora persiste .
E se è avvenuto un danno genetico nei
mitili per esposizione alle sostanze
inquinanti , scaricate dal Petrolchimico ,se ne deve dedurre che analogo
rischio di modificazione genetica
esiste anche per la collettività umana ,esposta direttamente o
indirettamente alle stesse sostanze tossiche .
Anche nei pesci si sarebbero verificate
analoghe modificazioni, per quanto riguarda la
zona diagonale radioattiva, circostanza questa che conferma il carattere
indifferenziato del rischio per tutti gli organismi viventi esposti alle stesse sostanze .
Il
ripetuto riscontro nel tempo in mitili
e pesci dell’area industriale di
livelli significativi di danno genetico giustifica a tutt’oggi l’ipotesi che
il meccanismo di legame di alcune
molecole inquinanti al DNA e conseguente formazione di addotti sia( o rischi di
essere ) un fenomeno riscontrabile anche nell’uomo.
Sono le leggi della biologia che provano la
non impossibilità del danno nel caso concreto e consentono la legittima
configurazione di un pericolo
scientificamente supportato
È quindi importante segnalare quanto i primi
giudici hanno ignorato e ricordare che:
1)
trovare il DNA danneggiato non dimostra che quel danno si è tradotto
automaticamente in mutazione e
tumori nei pesci e nei mitili, ma significa che la esposizione è capace di determinare effetti
molecolari iniziali che possono
sviluppare mutazioni deleterie.
2) è certo che esistono esempi in letteratura
che dimostrano come ,compatibilmente
con la dose e le modalità di esposizione ,un certo numero degli inquinanti , trovati in quantità
maggiore nei mitili dell’area industriale ,possono causare mutazioni e tumori
in determinati organismi.
3)
che per quanto riguarda l’uomo ,a differenza degli organismi acquatici, per cui
il rischio è diretto, si parla nella comunità scientifica di una
esposizione che ha l’attitudine e cioè è idonea a farsi occasione iniziale di possibili processi causali.
Addotti al DNA e micro nuclei, come rilevato
dalla consulente tecnica Venier,
possono determinare mutazioni, si tratta in particolare di mutazioni cromosomiche ,considerate
predittive di rischio di tumore nell’uomo.
Anche se non è dimostrato, in tali condizioni, il regolare innesco di
stimoli proliferativi capaci di
facilitare la insorgenza di mutazioni e
lo sviluppo dei tumori, si tratta comunque
di possibilità ben note di cui è
impossibile calcolare le percentuali di verificazione .
Bisogna infatti distinguere l’effetto precoce
individuato come micro nucleo ,danno cromosomico, e le possibili
conseguenze di tale danno.
Per ogni specie la riproduzione ,le funzioni
immunitarie ed endocrine sono funzioni vitali altrettanto complesse del
mantenimento dell’equilibrio replicativo, quell’equilibrio di segnali e
funzioni , che se sregolato sfocia nella cancerogenesi .
L’alterazione del messaggio genetico o della sua espressione può
pregiudicare le funzioni vitali,
produrre conseguenze a medio e lungo termine nei singoli organismi e
nell’ecosistema.
Tanto rilevato appare priva di fondamento la
affermazione contenuta nella sentenza ,secondo cui le caratteristiche degli
inquinanti non sono state considerate dall’accusa sotto il profilo delle loro attitudine a farsi causa iniziante di pur minimi effetti avversi alla salute
.
Il
danno genetico
Le valutazioni che seguono sono tratte dalla
pubblicazione scientifica della IARC n146 che tratta dell’uso di test a breve e
medio termine per gli agenti
cancerogeni e dei dati sugli effetti
genetici per la valutazione del rischio cancerogeno.
Va innanzitutto evidenziato come ,sulla base
dei risultati sperimentali, sia stato accertato che un aumentato livello di
specifici danni al DNA può essere predittivo di aumentate incidenza di tumore
in gruppi di popolazione .
Gli addotti
al DNA possono causare mutazioni
puntiformi e alterazioni cromosomiche e tutti i tumori contengono alterazioni
cromosomiche,alcune delle quali sono tappe specifiche dello sviluppo del tumore .
Delle alterazioni cromosomiche rilevabili sperimentalmente fanno parte i micronuclei.
Entrambi
, addotti al DNA e micro nuclei sono
oggi ampiamente utilizzati come marcatori biologici di effetti chimici
precoci(associati in primo luogo all’esposizione) e la maggior parte dei casi di esposizione ,valutati dalla IARC
come cancerogeni umani, sono genotossici ,vale a dire agiscono causando lesioni
chimiche nel DNA .
È pertanto ragionevole supporre che l’aumento
di danni al DNA ,sopra il livello di
fondo, in specifici gruppi di persone
sia associato ad aumentato rischio di tumore.
Per
lo meno per i cancerogeni
genotossici gli addotti al DNA
sono probabilmente gli eventi molecolari critici negli stadi precoci della iniziazione della cancerogenesi .
In
alcuni casi la esposizione a fattori cancerogeni può non essere accompagnata da manifestazioni esterne , in altre
situazioni invece le conseguenze della esposizione si manifesta nei livelli di danno al DNA che può essere quindi
usato come misura di esposizione .
Il
vantaggio aggiuntivo delle misure degli addotti al DNA è che possono fornire
informazioni sulla esposizione, in situazioni dove tali informazioni non si
possono ricavare altrimenti.
E tali considerazioni valgono anche nel caso
in cui ci sia esposizione ad agenti genotossici capaci di formare addotti e
contemporaneamente ad agenti promotori e co - cancerogeni capaci di modulare
tale livello di addotti( es l’alcool etilico aumenta drammaticamente i livelli
di addotti 06 metiguanina in esofago ,stomaco pancreas e colon dopo esposizione
sperimentale a nitrosamine specificamente a nitrosodimetilamina )
E se si verificano gli effetti predetti sui
pesci ci si deve chiedere cosa possa
verificarsi nella popolazione che di essi si nutre ,con particolare attenzione
agli effetti indotti da tale consumo sulla salute umana.
La presenza di livelli significativi di
addotti del DNA e di micronuclei
dimostrano in modo certo la esposizione degli organismi considerati ad
agenti genotossici
Con il sostegno delle attuali conoscenze
scientifiche e con riferimento specifico
all’ambiente acquatico,va inoltre considerato che il danno al DNA è solo
una delle possibili conseguenza tossiche ,potendo la tossicità interessare contemporaneamente piu bersagli intracellulari .
La
manifestazione di alterazioni genetiche , indotte da un composto chimico, può
avvenire a dosi istanti dalle dosi tossiche e a distanza di generazioni.
Con riferimento ai molluschi avrebbe dovuto
inoltre tenersi conto della loro
capacità di bio accumulo degli
inquinanti ,spesso consistente ,e dei
tempi necessari per la loro depurazione
.
Ed ancora doveva considerarsi il fatto che le
reazioni metaboliche dell’uomo sono ben
più efficienti di quelle modeste che si verificano negli
invertebrati e che di conseguenza producono quantità pericolose di intermedi reattivi, capaci di formare
addotti sul nostro DNA.
Il fatto che alle questioni prospettate non
sia stata data ancora una risposta scientifica certa non ha peraltro rilevanza ai fini dell’apprezzamento del pericolo
ed è proprio per prevenire tale genere di pericolo che è stato dalla
comunità scientifica elaborato il principio di precauzione che presuppone “ una preliminare
valutazione scientifica obiettiva”, la
quale indichi che vi sono “ragionevoli
motivi di temere” effetti
sull’ambiente e sulla salute degli esseri umani ,degli animali e delle piante,
potenzialmente pericolosi e incompatibili con il livello di protezione
prescelto dall’unione europea.
La
prevenzione è necessariamente correlata al rischio ed è comunque al principio di prevenzione che deve farsi
riferimento quando si devono definire misure dirette ad evitare il pericolo che
un evento si verifichi,ciò che ha portato la Corte di Cassazione ad affermare che “la stessa probabilità che ad una
condizione consegua un effetto può ritenersi sufficiente per sostenere l’esistenza di un rapporto
causale in un contesto di prevenzione”.
Il
Tribunale non ha invece considerato gli indici di esposizione a composti
genotossici su un bersaglio critico che è il DNA, con lesione strutturale di
una molecola ,macromolecola ,all’interno della cellula che è materiale
biologico.
Gli
addotti sono certo indice di esposizione a composti genotossici ed anche indici di danno genetico . e questo fattore di rischio, che non è un
pericolo congetturale ma una condizione
di fatto molto concreta , non è stato
in alcun modo valutato dal Tribunale .
Anche a proposito della dose soglia le affermazioni del Tribunale muovono
da presupposti non condivisibili,
perché diversi sono i termini della questione prospettata .
Rileva
il P .M come si sostenga da parte del
Tribunale che le classi di esposizione suscettibili di
derivare dalla dieta del biota lagunare sono distanti ordini di grandezza da quella
capaci di produrre qualsiasi effetto avverso , e tale circostanza è ritenuta dirimente.
Ora se si può
concordare sul fatto che la pericolosità di determinate azioni per
determinati beni deriva da una quantità obiettiva ,non è poi sempre condivisibile
una sola valutazione quantitativa che si ispira a premesse
meccanicistiche ,perché nella
fattispecie si ha a che fare non con un mondo meccanico ma con un mondo sub molecolare .
Nella
fattispecie poiché il dato della realtà
che ha l’attitudine di farsi occasione iniziante di possibili processi causali
di un futuro evento dannoso è la lesione al DNA definibile a livello molecolare
o citologico devono applicarsi le leggi della biologia .
Caratteristiche
peculiari delle stesse sono il fatto di essere modelli temporali – si
riferiscono cioè a fenomeni che sottostanno ad un processo, come la
cancerogenesi -e modelli a livelli parzialmente sovrapposti (serve cioè a
connettere differenti livelli della realtà,tant’è vero che la biologia
contemporanea –incentrata sul DNA è nata da una forte interazione con la
fisica e fu proprio un fisico
quantistico che creò un ponte tra le due discipline).
Le lesioni del DNA definibili a livello
molecolare o citologico si configurano come danni biologici iniziali capaci di innescare effetti negativi a livelli
organizzativi superiori.
E
in questo quadro devono valutarsi oltre alla dose ed al meccanismo d’azione
dell’agente tossico anche le
caratteristiche strutturali e funzionali degli organismi esposti ( modalità di
esposizione, specificità biochimiche e fisiologiche, sistemi di difesa,
compensazione e delimitazione del danno) ed il momento del ciclo vitale in cui
essi risultano colpiti dallo stimolo nocivo.
Differenze genetiche tra individui(fenotipi
metabolici differenti possono rendere
conto di un diverso grado di sensibilità o di resistenza individuale) ed
influenze dell’ambiente interno ed esterno
possono comportare risposte diverse, per cui risulta invero complesso ed
arbitrario stabilire una relazione tra
causa (l’esposizione ) ed effetti indotti cosi come lo sarebbe stabilire ,su
dette basi, soglie di non pericolosità.
La mancata considerazione di tali dati reali
di pericolosità ha viziato irrimediabilmente il ragionamento del giudice di
primo grado, che non ha capito che sussiste
il pericolo consistente nella
lesione apportata al DNA dagli agenti genotossici, da cui, per evoluzione del
danno possono derivare vere e proprie
mutazioni ovvero cambiamenti dell’informazione contenuta nel DNA, trasmissibili a generazioni
cellulari successive .E rispetto a questo tipo di pericolo non rilevano le considerazioni contenute nella motivazione della sentenza per giustificare la esclusione del rischio
Il ricorso alla sanzione penale trova qui la sua giustificazione proprio nella funzione della tutela penale stessa che è quella di salvaguardare i beni essenziali per l’individuo e la
collettività , nella fattispecie esposti al pericolo derivante dalle
conseguenze possibili della lesione al DNA, ossia al materiale genetico
fondamentale degli organismi viventi,
lesioni definibili a livello molecolare
e citologico che si configurano come
danni biologici iniziali, capaci di innescare effetti negativi a livelli
organizzativi superiori.
E la tutela del patrimonio genetico è stata
riconosciuta nel 1982 dal Consiglio d’Europa con la raccomandazione n 934 e
successivamente dal Parlamento europeo
il marzo 1989 e il diritto alla conservazione di un genoma non modificato è stato riconosciuto
anche nel nostro ordinamento
dalla legge 2137/2001 n145 che ha ratificato la Convenzione di Oviedo.
Essendosi verificata nel caso in esame una
rottura del patrimonio genetico avrebbe
dovuto ritenersi sussistente la
condizione di pericolo per l’incolumità pubblica derivante dai fatti descritti
in imputazione considerati, sub specie dei avvelenamento colposo.
La
prova fornita nel corso del dibattimento di primo grado dalla accusa di alcune
tipiche lesioni indotte nel DNA da agenti genotossici, che costituiscono
lesioni iniziali da cui per effetto di una normale evoluzione del danno si
consolidano vere e proprie mutazioni
ovvero cambiamenti dell’informazione contenuta nel DNA,trasmissibili in
generazioni cellulari successive è stata immotivatamente ignorata dal Giudice e
la sentenza appellata dovrà pertanto essere riformata sul punto con
l’accertamento del pericolo derivante dalla immissione in ambiente
lagunare degli inquinanti
industriali indicati nella imputazione
e del conseguente avvelenamento delle acque e delle sostanze alimentari nei
limiti descritti
Erronea
contraddittoria e illogica esclusione della sussistenza degli estremi del
delitto di adulterazione colposa di cui agli art 440-452 c.p
3.6 Erronea
contraddittoria e illogica esclusione della sussistenza degli estremi del
delitto di adulterazione colposa di cui
agli articoli 440-452 c.p
Pur aderendo e condividendo la impostazione
del Tribunale, secondo cui è necessario
dimostrare la esistenza di uno specifico pericolo in concreto per la salute pubblica, come conseguenza sia della
adulterazione delle acque e delle sostanze alimentari,sia delle acque di
falda ad opera degli scarichi
idrici ,delle discariche e delle emissioni
in atmosfera delle sostanze inquinanti indicate nel capo di imputazione , ritiene il P. M, a differenza di quanto ritenuto dal Tribunale, che vi siano
elementi che consentano di ritenere
provata la sussistenza di tutte le
predette circostanze
Va
premesso che, com’è noto, l’art 440 c p punisce la condotta di chi corrompe o adultera
acque o sostanze alimentari ,prima che siano attinte o distribuite per
il consumo ,rendendole pericolose per la salute pubblica .
Di conseguenza la norma punisce il degrado
dell’acqua o delle sostanze alimentari provocato da componenti privi di quelle
elevata tossicità che li rende veleno .
E
secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale, condiviso anche dal
Tribunale, l’art 440 c .p è un reato di pericolo concreto ,per la cui
sussistenza è necessario che il giudice accerti la possibilità di un nocumento
alla salute , pur non essendo necessaria la prova di una effettiva lesione della stessa .
Nello stesso senso è orientata anche la
dottrina, nonostante alcuni ritengano che, nell’accertamento della pericolosità
dell’azione ,si potrebbe essere indotti a ritenere che corrisponda piu alla
sostanza del fenomeno, qualificare di
pericolo astratto anche tutti i reati che ricalcano lo schema dell’art 440 c .p
citato.
Aderendo comunque alla interpretazione
dominante , secondo cui è necessario dimostrare l’esistenza di un pericolo in
concreto per la salute pubblica , come
conseguenza della adulterazione della acque o delle sostanze alimentari , ciò
non consente di pervenire alla conclusione che la prova del pericolo e della
sua concretezza si risolva nella dimostrazione scientifica della certezza di
conseguenze dannose per la salute
dell’uomo, quale effetto della condotta adulterante.
È
peraltro indubbio che il pericolo sia un concetto irrinunciabile ma di difficile definizione scientifica, essendone controversi i criteri di accertamento, la unicità o
diversità di nozione in relazione ai diversi istituti; è comunque altrettanto
indubbio che il principio di tassatività
e offensività impongono che
anche il pericolo sottostia a criteri razionali, capaci di verificazione
empirica .
Ed è altrettanto chiaro che il pericolo costituisce
il risultato di un giudizio ex ante, perché appunto ha ad oggetto la previsione che, dalla situazione in esame, derivi un futuro evento dannoso;
si formula cioè un giudiziosi non di certezza sul verificarsi o meno di un
evento dannoso, bensì un giudizio di pericolosità, con i relativi margini di
incertezza ,connessi alla previsione di un evento,non come certo, né come possibile, bensì come probabile.
Il giudizio di pericolo è derivato in parte dalle massime di esperienza –non
disancorate dal sapere scientifico che consente di dire quanta
probabilità esiste che un certo
evento lesivo si verifichi – in parte da esigenze normative ,dato che il grado
rilevante di probabilità dipende da una
serie di elementi latu sensu normativi (importanza del bene minacciato ,tipo di
offesa che questo potrebbe subire, modalità della eventuale lesione,criteri tutti che se correttamente applicati rispondono alla necessita di anticipare la soglia della tutela
penale).
Tanto premesso rimane il problema di accertare in
base quali elementi (cd base del
giudizio) il giudice possa formulare il giudizio di pericolosità in concreto ,
inteso come valutazione della
probabilità che si verifichi un evento
lesivo del bene protetto dalla norma La Cassazione non ha chiarito nelle sue
decisioni se sia imprescindibile , caso
per caso, una dimostrazione scientifica della pericolosità ( ad esempio mediante schede
tossicologiche quando esista una
letteratura di tal genere) sulla base di una sperimentazione ad hoc, tesa a dimostrare l’attitudine della sostanza a provocare
malattia ,sia pure in senso ampio
cioè come alterazione dello stato di
benessere fisiopsichico dell’individuo o se invece , tale valutazione possa
essere comunque effettuata sulla base
anche di altri elementi, dai quali il giudice possa motivatamente ritenere
la sussistenza della
pericolosità in concreto.
La prima
soluzione appare riduttiva perché non consentirebbe di valutare la
pericolosità in mancanza di adeguata
sperimentazione , e perché trattasi di
indagini non brevi ,che si prolungano anche per anni prima di consentire il
raggiungimento di risultati
significativi per stabilire gli effetti della esposizione ,dell’inalazione o
dell’ingestione della sostanza
esaminata sulla salute dell’uomo
Significativa
in tal senso è la vicenda relativa all’accertamento della tossicità del
dietilstrilbestolo, anabolizzante usato per 40 anni e di cui sono stati poi
accertati dopo un ventennio di ricerche gli effetti cancerogeni .
Inoltre viene
ricordato il principio affermato dalla Cassazione in alcune decisioni
della libertà per il giudice di fondare il suo convincimento su qualsiasi elemento idoneo a motivare il giudizio nel
caso specifico, nel senso che la
pericolosità della sostanza a
recare nocumento alla salute pubblica
può essere provata con qualsiasi mezzo
consentito, disattendendo anche relazioni tecniche peritali, purchè ciò avvenga con motivazione adeguata
e rigorosamente logica, dando cosi ragione della decisione adottata
Altre
pronunce hanno affermato la possibilità di fondare il giudizio di pericolosità
su parametri normativi, tutte le volte
in cui esiste una disposizione (di legge o di regolamento) che riconosce una specifica pericolosità ( intesa come
attitudine generica a ledere la
salute) ad alimenti che si trovano in
particolari condizioni o che hanno
certe caratteristiche .
È a
questo punto che viene in rilievo secondo il P M la questione del significato
giuridico da riconoscere agli standards
di qualità di un prodotto o di un alimento
previsti da leggi speciali.
Dopo
avere fatto un elenco di quelli piu
significativi – premesso che nel corso degli anni le norme speciali sono diventate molto numerose- e chiarito che in tutti i casi elencati si tratta di limiti imposti
dal legislatore a tutela della salute umana , il cui superamento comporta il
verificarsi di una situazione che il legislatore stesso considera –in base a
dati scientifici- di rischio per la salute
il P. M. ricorda anche gli orientamenti giurisprudenziali circa il
valore che agli stessi viene attribuito, quanto alla esistenza o meno di una
presunzione di idoneità delle norme tecniche speciali a garantire il livello
accettabile di tutela - e da atto del prevalere dell’orientamento piu recente,
secondo cui la responsabilità in sede penale presuppone sempre la violazione
degli standard, su altri orientamenti , secondo cui invece il giudice
potrebbe ritenere sussistente la responsabilità nonostante il rispetto degli
standard – vedi in particolare la sentenza della Corte Costituzionale
n127/1990 e della Corte di
Cassazione sez III n11295 del 1-10-1999
e sez I n5215 del 9-5-1995.
Tanto premesso ritiene il PM che, tra tutti gli standard di qualità normativamente
imposti, debbano essere presi in considerazione per valutare la concretezza del pericolo nella presente vicenda i valori di concentrazione massima ammissibile fissati dal DPR
236/88 per le acque destinate al consumo umano , limiti che meglio di altri
consentono per il caso di specie di essere
utilizzati come circostanze
rilevanti ai fini del giudizio
di pericolo concreto .
Viene quindi
ricordato come in dibattimento sia stata fornita la prova della esistenza
,nell’area circostante il Petrolchimico ,di numerosi pozzi artesiani utilizzati
dai proprietari per il prelievo dell’acqua
da destinare al consumo umano - secondo la definizione contenuta nell’art
2 citato DPR - che non si limita a ricomprendere il solo consumo alimentare ,ma
che estende la tutela ad ogni genere di consumo dell’acqua fatto dall’uomo ( compreso l’uso igienico –sanitario e quello irriguo)
La
circostanza rileva per due ordini di motivi .
In primo
luogo perché smentisce la tesi
difensiva della inutilizzabilità dell’ acqua di prima falda – non utilizzabile
perché inquinata precedentemente al
Petrolchimico e perché salata -in
quanto l’acqua di falda risulta utilizzata da un numero indifferenziato di
persone che la usano prelevandola dai pozzi artesiani .
In secondo luogo perché consente di meglio apprezzare
le implicazioni penalistiche delle
considerazioni svolte dal prof
Nosengo sulla contaminazione della falda idrica e quindi dell’acqua
attinta da pozzi e destinata al consumo umano .
Prima di approfondire –in diritto tale specifica
doglianza d’appello – il P.M. svolge alcune considerazione in fatto dirette
criticare la sentenza nella parte in cui sottovaluta le conseguenze
dell’inquinamento delle acque sotterranee, del suolo e del sottosuolo .
Ritornando quindi ai valori di concentrazione massima
ammissibili per le acque destinate al consumo umano stabiliti dal DPR 236/88,
va innanzitutto precisato che, secondo la direttiva comunitaria di cui la legge
è esecuzione, gli standard o parametri contenuti nel citato DPR costituiscono il livello minimo per la
tutela della salute pubblica, al di sopra del quale sussiste pericolo di
lesione, che non può essere accettato dagli stati membri se non nei limiti
rigorosissimi delle condizioni a cui la direttiva subordina la possibilità di autorizzare -per tempi limitati- il
superamento della soglia di rischio e che le eccezioni sono rigorosamente
contenute e limitate a casi gravi e per
breve periodo.
Viene quindi
ricordato come la Corte di
giustizia della unione europea con la
sentenza del 22-9-88 abbia stabilito due importanti principi:
tutti i
valori dei parametri costituiscono una
soglia di pericolosità per la salute umana , soglia che non può e non deve essere
superata e deve essere interpretata in senso restrittivo;
le deroghe
sono tassative e legittime, solo
se applicate in condizione di stato di
necessità , per effetto di un evento grave e non imputabile al soggetto che
autorizza la deroga e devono altresì
essere limitate nel tempo.
Solo in questo caso la esigenza di tutela della
salute può giustificare il suo sacrificio alla necessità di tutelare la
incolumità pubblica, messa in pericolo dalla situazione di emergenza
Ad eguali
conclusioni si perviene esaminando il regime delle deroghe ai valori massimi di
concentrazione previste dal DPR 236/88.
L’art 17 del
citato DPR ,nel disciplinare le uniche due ipotesi in cui possono essere
consentite deroghe , impone come limite insuperabile che il superamento dei
limiti di concentrazione non presenti un rischio inaccettabile per la salute pubblica .
Tutti i
parametri individuati dalla norma sono stati determinati con preciso
riferimento a fattori di rischio per la popolazione e si è inoltre ribadita la necessità - oltre il principio della equivalenza di tutti i parametri contenuti nell’allegato, in funzione della esistenza
di un preciso fattore di rischio- che
vengano controllati da parte
dell’autorità sanitaria anche altri parametri , diversi da quelli contemplati
nell’allegato , ma che comunque possano rappresentare un fattore di rischio .
Accertato il
collegamento tra i parametri di cui sopra ed il pericolo per la salute
dell’uomo e dell’ambiente si tratta di
verificare in che modo i limiti normativi
sopra richiamati possano venire in
rilievo come circostanze di fatto rilevanti per la formulazione del giudizio
circa la prevedibilità di una lesione della incolumità pubblica.
Ciò non vuol
significare la trasformazione del reato da reato di pericolo concreto a reato
di pericolo presunto, bensì ricerca di affrontare e risolvere il problema di individuare le circostanze di fatto, in presenza delle quali possa ritenersi
sussistente la probabilità della lesione alla salute , come conseguenza della
adulterazione della sostanza
alimentare, alla luce del principio giurisprudenziale sopra citato, che consente al giudice di
rinvenirle in qualunque elemento ,anche di carattere normativo ,non essendo
egli vincolato agli esiti di dimostrazioni scientifiche concrete del rischio esistente e del suo
livello.
Ciò non significa confondere il piano dei requisiti
di qualità stabiliti dalla normativa pertinente alla edibilità con quello
diverso e relativo alle classi di esposizione suscettibili di essere ritenute
ex ante capaci di produrre effetti avversi o comunque indesiderati per la
salute dell’ideale consumatore.
Sono infatti
entrambi criteri pertinenti a rendere l’informazione adeguata sulla
caratterizzazione del rischio reale .
Peraltro
anche la valutazione tossicologica su base sperimentale ha sempre carattere presuntivo e probabilistico dal momento che la valutazione viene fatta su animali ,con una
stima dei risultati operata in termini
statistici e quindi probabilistici.
La estensione della sperimentazione condotta su cavie
all’uomo è frutto di regola generalmente accettata in campo scientifico che
comporta necessariamente un tasso di probabilismo essendo fondata sull’id quod
plerumque accidit .
Bisogna
comunque fare attenzione a non confondere i due livelli-quello della
astrattezza del pericolo e quello del margine di astrattezza contenuto nella
valutazione del pericolo da parte del giudice- perché oltretutto in caso
contrario il giudizio di pericolosità in concreto si risolverebbe nella verifica
del danno conseguente alla condotta ,ciò che la Cassazione ha escluso essere
necessario per configurare il reato di pericolo in esame .
Va ancora
osservato come il bene tutelato dalla norma sia la salute pubblica per cui è
necessaria una diffusività del rischio capace di incidere su di un valore
collettivo come quello della salute pubblica. Anche sotto tale profilo la
giurisprudenza ha precisato che basta
la mera probabilità di un contatto della sostanza adulterata con un numero
indeterminato di soggetti
Passando ad
esaminare altri aspetti della norma incriminatrice osserva il P.M. come
l’espressione adulterazione significhi alterazione della natura genuina di una
sostanza destinata alla alimentazione, attraverso un procedimento con cui si
aggiungono o si sostituiscono elementi nocivi per la salute.
Il temine
corrompimento indica invece la immissione di sostanze, che alterano l’essenza
rendendo cosi nocivo l’alimento
corrotto
Per quanto riguarda il concetto di acque o sostanze
destinate alla alimentazione deve
ricordarsi che, secondo un orientamento giurisprudenziale, per quanto riguarda
l’acqua essa sarebbe sempre suscettibile di destinazione alimentare ed in tal senso ha disposto l’art 1della
legge 5-1-1994 n36, che ha stabilito
che tutte le acque superficiali e sotterranee ,ancorché non estratte dal sottosuolo sono pubbliche e costituiscono una risorsa che va
salvaguardata ed utilizzata secondo criteri di solidarietà.
Nello stesso
senso è una sentenza della Cassazione del 22-7-1997 n.7170, che ha ritenuto
sussistente il reato di cui all’art 440 c. p
nel caso di sola contaminazione
di una falda idrica ad opera del percolato fuoriuscito da una discarica
illegittimamente gestita, senza che fosse richiesta la attualità della
utilizzazione della falda, essendo stata ritenuta sufficiente la potenziale
utilizzabilità dell’acqua, pur in
assenza di qualsiasi opera per la sua diretta o indiretta destinazione al
consumo umano .
Si è cosi
inteso proteggere le acque ancorché non estratte dal sottosuolo in funzione del
loro potenziale sfruttamento ad uso umano , prescindendo dal
loro effettivo attuale utilizzo
(vedi sul punto anche la sentenza della Cassazione del 29-6-85 n 6651),
ciò che dimostra come sia erronea la
decisione del Tribunale laddove ha ritenuto non sussistere il reato di cui
all’art 440 c. p sul presupposto delle inutilizzabilità delle acque per il consumo umano .cosi come
erronea risulta la affermazione relativa alla immobilità o eccessiva salinità
delle acque di falda .
Per la sussistenza del reato di cui alla art 439 c p
non è quindi richiesta la potabilità
dell’acqua , ma solo quella della sua potenziale destinazione ad uso umano ed
alla soddisfazione dei bisogni alimentari di un numero indeterminato di persone , ciò che può avvenire nel caso di adulterazione
di acque di una falda che alimenta direttamente i
pozzi , in tutti i casi in cui si determini un pericolo per la salute pubblica.
Il giudizio
di pericolosità può poi essere desunto,a prescindere dai parametri tossicologici
sugli effetti derivati dalla ingestione alimentare dell’acqua prelevata dalla falda inquinata, dalla presenza effettiva delle sostanze inquinanti
descritte nella imputazione e di cui è comprovata la tossicità o per alcune anche la cancerogenità .
Nel caso in
esame è provato dalle analisi eseguite
da Acquater ne 1995 e nel 1996
che l’acqua di falda campionata da piezometri in prossimità del
Petrolchimico è fortemente inquinata da sostanze derivanti dalla sua produzione
, al punto di superare di gran
lunga i limiti di CMA previsti per
numerosi parametri contemplati dal DPR236/88..
In particolare per l’arsenico la presenza in
quantitativo elevato consente di ritenere dimostrato non tanto il reato di
adulterazione quanto quello di avvelenamento, attesa la idoneità della
concentrazione riscontrata in falda ad
operare quale vero e proprio veleno per la salute umana, ed analoghe considerazioni valgono anche per
il dicloroetano.
E questi
risultati avrebbero dovuto portare ad un ben diverso esito processuale ,essendo
evidente la esistenza di concreti elementi di pericolo .
La assoluzione degli imputati non appare pertanto
accettabile e consegue ad una errata e sottostimata valutazione delle prove.
Anche in
questo caso viene accettato il metodo della difesa , confrontando molluschi
pescati in periodi stagionali diversi e confrontando le concentrazioni degli
inquinanti riferite al peso edibile .
Ed invece i
dati devono essere normalizzati rispetto al contenuto dei lipidi per gli
organici e al contenuto di sostanza secca
per i metalli cosi come suggerito dagli studi e dalla procedura Epa
E
normalizzando i dati le differenze spariscono diventando i dati di Berlino per
le sostanze di interesse processuale addirittura di gran lunga superiori a quelli proposti dalla accusa.
Comunque
utilizzando i dati di Berlino ,e confrontando le concentrazioni di sostanze
inquinanti nei campioni bivalvi
cresciuti nei sedimenti dei canali industriali con quelle dei campioni cresciuti nei sedimenti di S Erasmo , si
rileva , con riferimento alla concentrazione sui lipidi , che la tossicità nei bivalvi dei primi campioni rispetto a
quella dei secondi è 13 volte superiore per
quella dovuta a PCDD/F e PCB e 38 volte superiore quella dovuta a
HCB.
E l’HCB(
esaclorobenzene ) è un sottoprodotto solo delle lavorazioni del ciclo del
cloro, per cui è evidente la
contaminazione da quella specifica fonte di inquinamento .
Quanti agli
IPA che provengono anche dal traffico marino e dalle combustioni risultano 36 volte piu concentrati nei
canali industriali .
Anche i dati dei metalli ottenuti a Berlino ed espressi sul secco evidenziano la loro maggiore concentrazione
nei molluschi provenienti dai canali
del Petrolchimico .
Il Tribunale
poi nella motivazione ,di cui a pagina
804, utilizza per il suo giudizio i
valori mediani – ciò che vuol dire eliminare
i valori massimi e quelli minimi
-ed in concreto il campione M6 pescato
nel canale industriale sud ,dove si svolge la maggiore attività di pesca abusiva.
In
realtà anche sulla base della analisi
eseguita a Berlino si avrebbe che ad un giovane di 40 kg basterebbero 24
grammi edibili per superare la DGA
prevista dal WHO a causa della concentrazione
di PCDD/F e PCB ,mentre a S Erasmo la
stessa persona potrebbe mangiare 250 g cioè 10 volte di piu .
Per quanto
riguarda il non superamento, quanto alle diossine, dei valori limite
stabiliti per le dosi giornaliera o
settimanale, si osserva come i dati
dovrebbero essere aggiornati considerando l’aumento di fondo della esposizione
a diossine attraverso la dieta nella popolazione del territorio dell’UE.
Viene infatti
sottolineato nei documenti del comitato scientifico europeo che date le assunzioni medie di diossine o dioxin –like
attraverso la dieta nei paesi europei
di 1.2 –3.0 p g WHO-TEQ /KG p c per giorno, una percentuale
considerevole della popolazione europea dovrebbe superare il TWI indicato dal
Comitato.
Risultando di conseguenza già superati i valori di
riferimento ,a seguito dell’inquinamento di fondo per una parte di rilievo della popolazione, ne consegue che ogni esposizione aggiuntiva
deve essere considerata alla luce della affermazione che vi è gia di fondo una esposizione critica .
Ribadisce
quindi il P.M. per chiarezza che i valori soglia si riferiscono a tutta la assunzione di diossine o composti
simili e non solo a quella attribuibile ad uno specifico componente della dieta e
che nelle valutazioni non deve dimenticarsi
la assunzione di fondo delle diossine che viene raddoppiata per pochi grammi
(24 g) di vongole pescate nei canali industriali
Viene ancora
criticata la sentenza a pagina 811, laddove si dice che la compromissione dei sedimenti delle acque dell’area
industriale non è riferibile al
Petrolchimico , mentre invece una
tale affermazione risulta contraddetta dalla natura
degli inquinanti,come ad esempio l’HCB tipico della lavorazione del cloro e
l’HCB si ritrova poi assieme a diossine
e dioxin –like proprio nei molluschi .
Il
Tribunale afferma anche, a pagina 814 e 815 che, secondo la normativa
pertinente , le quantità di inquinanti
rinvenute nei molluschi
prelevati nei canali della area industriale sono compatibili con quelle che sono ammesse per legge ad essere
distribuite per il consumo umano , ma
cosi decidendo trascura il DLVO n530/92 secondo il quale per le sostanze non regolate da concentrazioni limite ci si deve
riallacciare alla DGA.
Anche nelle
pagine successive –816,817,818- il tribunale insiste poi sui metalli e su
alcuni parametri trascurando però
quelli più tossici e operando cosi una
selezione non corretta .In ogni caso con le vongole si supera la DGA,senza
contare l’effetto tossico sinergico (cumulativo) data da Cadmio Piombo
,Mercurio. Arsenico,IPA, Diossine,PCB,HCB, sostanze tutte valutate
separatamente mentre invece vengono assunte insieme dal consumatore .
Le considerazioni
riportate nella sentenza a pagina 825 che riguardano valutazioni del
consulente del PM devono poi ritenersi errate per difetto in quanto
considerando pranzi e cene reali si supererebbe la DGA di sei volte.
Cosi come
errate devono considerarsi i ragionamenti esposti a pagina 856 ,dove si
indicano i consumi del consumatore medio e del forte consumatore , considerando
che in ogni caso il forte consumatore che mangia 11 grammi al giorno con una
concentrazione pari al valore massimo
riscontrato – di 2,7 p g WHOTE/G- assume
solo dalle vongole un
quantitativo di inquinanti ,che sommato al resto, supera di gran lunga la DGA.
Ed infine non
si condivide il confronto con le
concentrazioni rilevate in altri mari anziché
il confronto con altre zone della laguna come S Erasmo, né la
affermazione secondo cui i carichi inquinanti registrati nel biota di
provenienza dell’area industriale sarebbero normali, atteso che i confronti con
l ‘area di S Erasmo hanno invece
evidenziato le notevoli differenze
sopraindicate
3.9.2 I parametri di rischio disponibili per le
diossine e composti simili(PCDD PCDF e PCB
dioxin like
Nella sentenza viene fatto spesso riferimento al TDI
dell’OMS affermando anche che il
comitato scientifico europeo utilizza lo stesso riferimento.
Tale
affermazione invece non corrisponde al vero ,in quanto nel 2000 questa
organizzazione indicava un parametro inferiore
cioè 1 pg WHO –TEQ/ kg peso
corporeo giorno , anche se recentemente il parametro è stato rivisto ed
aumentato a 2 pg WHO-TEQ/ kg ,
rimanendo però sempre inferiore a quello indicato dall’OMS.
Va poi anche
sottolineato che sia lo SCF che l’OMS fanno riferimento a dosi o esposizioni a
diossine e composti simili espresse secondo il criterio WHO – TEQ ciò che
implica la considerazione della
esposizione oltre che a PCDD e PCCF
anche ai PCB e dioxin like , nella definizione della concentrazione TEQ (
diossina equivalenti ), ai fini della valutazione del rischio.
Va poi
osservato come il documento del SCF dica “ che l’uso della sola 2,3,7,8-TCDD
come unica misura della esposizione a PCDD e PCDF e PCB simili alla diossina porti
ad una grave sottostima del rischio per
l’esposizione umana per questi composti
.
Inoltre il
SCF mette in evidenza come pur avendo alzato la dose tollerabile , considerata
la assunzione media di diossine
attraverso la dieta nei paesi europei- pari 1.2 –3.0 p g WHO – TEQ kg p
.c /giorno- risulta che una percentuale considerevole della popolazione
dovrebbe superare il valore soglia indicato .
Ne consegue
che se i valori soglia risultano gia superati dai valori di fondo,
nell’aggiungere ogni altra esposizione bisogna considerare che quella di fondo
è gia critica .
Ed ancora il CSF non prende in considerazione gli
elevatissimi rapporti che sussisterebbero tra i livelli privi di effetto
avverso e quelli della dose giornaliera.
Viene poi
evidenziato come sempre venga fatto riferimento, nella estrapolazione dei dati
sperimentali dall’animale all’uomo, al peso corporeo , ciò che è
particolarmente rilevante, considerato anche che, attesa la lunga durata della
emivita della diossina , si verifica nell’organismo un progressivo accumulo.
Secondo il CSF il valore della dose soglia è
inferiore da 10 a 25 volte rispetto
alle dosi per le quali è stato ritenuto possibile un effetto avverso sull’uomo
e inferiore di un fattore 5 rispetto
alla dose stimata priva di effetto..
Tanto
contraddice la affermazione del Tribunale secondo cui invece la differenza tra
la dose stimata priva di effetti e la dose soglia sarebbe molto piu elevata.
Da ultimo viene ricordato che secondo l’ US EPA (US
Environmental Protection, Agency) che viene citata nella sentenza come fonte di
riferimento, per determinare la classe dei forti consumatori, sussiste un
incremento di rischio cancerogeno dell’ordine di 1 su 1000 per un esposizione
aggiuntiva di 1 p g WHO - TEQ/kg peso corporeo al giorno.
3.9.3 L’esposizione di fondo e il contributo dei
PCB –diossina simili ( dioxin –like) alla tossicità equivalente
Ricordata quella che è la esposizione di fondo per
gli adulti dei paesi europei ,secondo i calcoli della SCF pari a 1,2 – 3,5 p g
WHO - TEQ kg/ p c giorno ( esposizione
risultante dalla sommatoria dei due livelli inferiori pari a 0,4 e 0,8
rispettivamente per PCDD/F e per i PCB
“dioxin like” e dei due livelli superiori pari a 1,5 e 1,5 relativi
ai medesimi inquinanti ) e da cui risulta che il contributo dei PCB”dioxin like
“ porta ad una esposizione che è superiore
rispetto a quella a solo PCDD e PCDF
di un fattore che varia da 3 a 2 ,
viene poi riportata la stima
media del livello di fondo secondo l’US EPA che la valuta in un 1 p
g WHO - TEQ/ kg peso corporeo a fronte
di una precedente valutazione nell’ordine invece di 3 p .g relativa gli
anni precedenti periodo 1980 –1990.
La
diminuzione della esposizione di fondo deriverebbe da una serie di riduzione
delle emissioni e contaminazioni.
L’esposizione
comunque per il 95simo e 99simo percentile della popolazione è stimata 2-3
volte superiore a quella media per cui ,considerando questa variabilità, le
stime non si differenziano di molto .
Si rileva poi
come la stessa agenzia evidenzi anche come la esposizione ai PCB dioxin like
oltre che ai PCDD/F comporti un incremento di un fattore sino a 2 .
Trattandosi
di inquinanti che hanno diverse fonti è comprensibile la diversità di dati in
relazione alla diversità dei contesti.
Rapporto
tra contributo di PCDD/F e PCB sulla
base di dati di misura relativi ai bivalvi della laguna veneta
Da studi eseguiti risulta che la concentrazione
tossicologicamente equivalente (PCDD/F e PCB) espressa in WHO-TEQ (criterio OMS
e UE) è mediamente superiore di circa
50-60% rispetto alla tossicità equivalente relativa solo a PCDD/F( criterio
ITE).
Il rapporto tra i due criteri risultava nei singoli
campioni analizzati compreso tra circa
1,24 e circa 2 ,con una media di circa 1,6 ,con la conseguenza che
moltiplicando per un fattore di 1.6 la concentrazione espressa in ITE si otteneva una ragionevole stima delle
concentrazione media espressa in WHO-TEQ.
Possibili
criteri per l’uso di dati relativi a
PCDD e PCDF( concentrazione I-TE) senza considerare i PCB ed evitare
sottostime del rischio
Le
valutazioni che non includono il contributo dei PCB portano ad una sottostima
del rischio.
Per adeguare
le valutazioni fatte con criteri I-TE risulta ragionevole applicare il fattore
sopraindicato di 1.6 che non comporta una sovrastima eccessiva .
Tanto viene
evidenziato in contrapposizione a quanto risulta a pagina 826 della sentenza,
in relazione alla valutazione del consulente del PM Zapponi.
Ma
contrariamente a quanto affermato dalla difesa non è il consulente del PM. ad
essere caduto in un errore esiziale, bensì il consulente della difesa.
Risulta
infatti ,contrariamente a quanto ritenuto dal Tribunale, che il valore della
concentrazione delle diossine viene moltiplicato per il fattore 1.5 per la
stima complessiva di PCDD/F e PCB e non
per la stima della sola concentrazione di PCB.
Lo stesso
Tribunale peraltro da atto, in altre pagine della motivazione, di condividere
il criterio di adeguamento della stima sopraindicato, laddove ad ogni stima relativa
ai soli PCDD e PCDF senza i PCB viene associata quella relativa a tutti
predetti componenti, moltiplicando la prima stima per un fattore 1,55 ovvero
incrementandola del 55%.
Sulla base
dei dati forniti dai diversi studi ,in assenza di dati specifici sui PCB ,l’uso
di un fattore correttivo 1.6 da applicare ai dati di concentrazione di PCDD/F
può ragionevolmente evitare una significativa
sottostima della esposizione complessiva (PCDD/F e PCB) e del relativo rischio.
Il fattore
1.6 è il più basso tra quelli discussi ed è basato su dati sperimentali della
laguna e non comporta evidentemente sovrastime irragionevoli.
3.9.4 Il
consumo di bivalvi , la resa ovvero la percentuale edibile rispetto al lordo e
le stime di esposizione
3.9.4.1 Conseguenze che derivano applicando ai dati
dei consulenti della difesa i parametri di resa ( rapporto tra la parte edibile
ed il lordo) dell’Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione)
Vengono di
seguito riportate le tabelle contenenti la
indicazione per i diversi alimenti del rapporto tra la parte edibile ed
il peso lordo- secondo l’ente sopraccitato- pari per le cozze al 32%, per
l’ostrica al 12 %, per le vongole al 25 %.
Applicando questi dati a quelli riportati nella
sentenza, per quanto riguarda i forti consumatori, si hanno dei valori netti di
consumo giornaliero pro capite di vongole e cozze che risultano quasi doppi rispetto a quelli indicati dal
Tribunale, sia per i consumatori medi come per i forti consumatori .
In
particolare per quanto riguarda le vongole il consumo medio e massimo
sulla base di dati Coses e delle
rese dell’Istituto nazionale di ricerca
per gli alimenti e la nutrizione risultano rispettivamente di 2.5 e19.75
grammi /persona /giorno a fronte di valori di 1.4 e 11 grammi /persona /giorno riportati per gli stessi parametri
nella sentenza a pagina 855.
Ed analogamente ,per quanto riguarda i soli mitili,
il consumo medio e quello massimo risultano rispettivamente di 1.6 e 8.64
grammi/persona /giorno a fronte dei valori 1 e 4 grammi /persona7 giorno
riportati per gli stessi parametri alla tabella a pagina 855 della sentenza .
Va anche
rilevato come nel considerare la assunzione di diossine e composti simili il Tribunale abbia fatto riferimento solo al consumo delle vongole, tralasciando quello delle cozze ciò
che comporta una sottostima dei consumi.
Per i forti
consumatori, considerando il consumo complessivo di vongole e cozze si ottiene
un consumo globale di più di 28
grammi/persona /giorno( 19,75 grammi di vongole + 8,64 di mitili) valore che
rientra tra quelli considerati dal P. M .
E assumendo
per i bivalvi un valore di contaminazione medio, pari a quello risultante dalla
perizie, ovvero di 1,85 p g (I-TE) g
limitatamente a PCDD e PCDF senza considerare i P C B ed un consumo di
28 grammi /persona /giorno per un individuo di 70 KG di peso corporeo risulta
un assorbimento pari a 0.74 p g l TE /kg p c . giorno
Limitando per
il momento il discorso ai PCDD/F e considerando una esposizione di fondo molto
bassa ,pari a 0,4 p g I-TE /kg p. c giorno una esposizione aggiuntiva di 0,74 p
g l -TE / kg p c/ giorno porterebbe a una esposizione globale paria
quasi 3 volte quella di fondo ed invece nel caso di una esposizione di fondo piu elevata porterebbe ad una esposizione complessiva dell’ordine di quasi volte quella di fondo .
Trattasi in
ambedue i casi di incrementi elevati
rispetto al fondo.
Ed estendendo
la analisi all’insieme dei composti simili alle diossine ,il valore di
esposizione aggiuntiva di 0,74 p g l T E/kg p c/giorno, se addizionato ai
valori di fondo per l’Europa per tutti i composti compreso tra 1,2 e 3,0 p g
WHO - TEQ/kg ,porterebbe comunque ad un aumento significativo
Sommando il
valore aggiuntivo a quello minimo si arriva ad un valore quasi pari a 2 pg e ad un livello comunque superiore al
valore minimo del TDI dell’OMS ( compreso tra 1 e 4 p g al giorno) Solo questo
modo di procedere appare corretto perché
i parametri utilizzati dall’OMS e dall’UE si riferiscono all’esposizione globale per ingestione
,inclusa quindi anche quella di fondo e non solo quella derivante dal peso
specifico dell’alimento .
Il valore di 0.75 si riferisce poi solo al contributo
di PCDD/F e non considera quello dei
PCB e quindi è una sottostima della esposizione .
Utilizzando
il criterio di correzione per la valutazione anche dei PCB che comporta un
incremento del 50-60% il valore di 0.74 viene a corrispondere a circa 1.1.-1.2
e se, a questa esposizione, si
aggiunge quella di fondo di 1.2- 30 si supererebbe il limite di 2 p g .
3.9.4.2
I dati dell’istituto
nazionale di ricerca per gli alimenti e la nutrizione sui consumi medi
giornalieri pro capite di molluschi in
Italia
Va innanzitutto
premesso che il predetto istituto effettua una distinzione tra il consumo medio totale pro capite
ed il consumo pro capite medio per i soli consumatori , considera cioè
oltre la media totale del consumo
giornaliero pro –capite ,anche la media dei soli consumatori , identificati
come tali e diversi dai non consumatori o consumatori sporadici.
Dagli studi
effettuati risulta: un consumo medio nazionale totale dei molluschi freschi di
circa 4.2. grammi persona giorno, un consumo medio di molluschi
freschi dei consumatori – che costituiscono circa l’11% della popolazione- di circa 36 .0 grammi persona giorno; il
rapporto tra le due medie è dell’ordine di 10.
Lo stesso ente precisa che il peso percentuale dei
mitili nei molluschi freschi è del 29.6
%( quantità espressa al netto degli scarti, parte edibile)
Per quanto
concerne i mitili i dati diventano :ì
consumo medio nazionale totale dei mitili
freschi di circa 1.2 grammi persona giorno consumo medio di mitili
freschi dei consumatori ( che costituiscono
circa l’11% della popolazione) di circa 10.6 grammi / persona giorno; per
quanto riguarda le vongole i dati indicano:consumo medio nazionale circa 0.334
grammi persona giorno
consumo medio
molluschi freschi dei consumatori ( che
costituiscono circa il 2,2 della
popolazione ) circa 15.0 grammi /persona / giorno.
Conclusivamente i dati statistici elaborati dal predetto Istituto
indicano per la popolazione italiana, per gli effettivi consumatori di mitili e
vongole un consumo medio giornaliero di circa 25.6 grammi / persona /giorno,
stima che si può sicuramente assumere essere inferiore rispetto al consumo da parte dei consumatori medi di Venezia .
Anche
nell’ambito di questa categoria, che indica sempre valori medi ,si può assumere
che vi siano individui che consumano meno e individui che consumano di più.
Comunque il
predetto quantitativo di consumi -pari a 25.6- costituisce una sottostima
rispetto alla realtà veneziana ed è molto piu elevato di quello proposto dalla difesa per i forti consumatori,
mentre risulta compreso tra i valori indicati dalla accusa .
Si tratta
anche di una valore non molto diverso da quello derivato dai dati Coses
presentati dai consulenti della Difesa ,considerando i fattori di resa
dell’Istituto nazionale della nutrizione e pari a circa 28 grammi persona
giorno.
Dopo avere
riportato i valori dei consumi medi lordi
indicati nelle tabelle utilizzate dal Tribunale e relativi all’Italia ,
al Comune di Venezia ed ai forti
consumatori , risulterebbe, che il consumo
medio di bivalvi nel Comune di Venezia è circa 6.5 volte superiore a quello
medio nazionale,mentre
il consumo dei forti consumatori veneziani
risulterebbe circa 46 volte superiore a
quello medio nazionale .
Per i consumi
netti di vongole e cozze riportati egualmente i valori di consumi medi relativi
all’Italia, al Comune di Venezia e ai forti consumatori risulterebbe che il
consumo medio di questi bivalvi nel Comune di Venezia è 8 volte maggiore di
quello medio nazionale e per i forti consumatori 50 volte maggiore di quello
nazionale.
A parte l’esistenza di alcuni errori – ad esempio il
valore di 0,3 grammi /persona /giorno che viene indicato come rappresentativo
del consumo di vongole e cozze mentre
invece risulterebbe corrispondere la
consumo di sole vongole secondo i dati dell’istituto nazionale per la
Nutrizione – assumendo comunque come valido- quanto indicato nelle tabelle
utilizzate dal Tribunale - risulterebbe
che il rapporto tra i consumi
dei forti consumatori veneziani ed il consumo medio nazionale è
dell’ordine di circa 50 ( 46 per i
lordo e 50 per il netto).
Considerato che secondo l’istituto di cui sopra il
consumo netto medio nazionale di mitili e vongole è di circa 1.5 grammi persona
giorno moltiplicando questo dato per 50, il valore diviene 75 grammi persona
giorno e questo dato può essere confrontato con quello del consumo medio
nazionale dei consumatori pari circa 25 grammi persona giorno.
Le
conclusioni che vengono tratte dal P .M sono le seguenti: l’Istituto considera
due categorie di consumatori quella media
totale della intera popolazione e quella media degli effettivi
consumatori;.il consumo medio dei consumatori risulta per gli alimenti ittici
superiore di almeno un ordine di grandezza rispetto a quello medio totale .
Sulla base del valore della resa calcolata dal
predetto Istituto,e utilizzando i dati di consumo dei forti consumatori,
indicati nella sentenza ,si ottiene per questa categoria un livello di consumo complessivo di mitili
e vongole dell’ordine di 28 grammi / persona
/giorno che rientra tra quelli proposti da piu consulenti del P.
M con le conseguenze che ne conseguono.
Anche il
livello indicato dall’istituto dei consumi di vongole e cozze per la categoria degli effettivi consumatori
di circa 25,6 grammi persona giorno è certamente in difetto rispetto alla
realtà veneziana e comunque risulta compreso tra quelli indicati dal PM.
Anche per il
consumo medio giornaliero della popolazione, applicando ai valori indicati
dallo istituto dell’ordine di circa di1,5, grammi persona giorno il fattore 50- che riguarda la
differenza tra il consumo dei forti consumatori e quello medio della popolazione generale-
si ottiene il valore di 75 grammi
persona giorno che è dell’ordine
di quelli piu elevati ipotizzati dall’
accusa .
Le stime dei
consumi riportate nella motivazione sono invece significativamente piu basse ,e
quanto sopra riportato, mette invece in evidenza la ragionevolezza dei dati
indicati dai consulenti del PM..
3.9.5 Alcune
considerazioni su”gli esiti della valutazione tecnica correttamente operata
–per il Tribunale dagli esperti delle difese(relazione Pompa del 18-4-
2002) relativamente alla comparazione
con i dati di altri paesi
A pagina 876 della motivazione sono riportate le
concentrazione di inquinanti rilevate negli organismi della laguna e quelle
rilevate in altri paesi ( senza
precisare il criterio di tossicità utilizzato)
e la concentrazione di diossine riportata ,per le vongole dei canali
industriali è di 1.2 p g TE/G.
Secondo
la perizia Bonamin invece la concentrazione media nei bivalvi campionati è pari a
1.85 pg l -TE/g quindi superiore–benché valutata senza
considerare il PCB - e quindi certamente in difetto- e si trova al secondo
posto in ordine di grandezza della serie di 11 dati della figura a pagina 876
della motivazione, dopo il dato relativo ai pesci svedesi .
Alla luce di questo dato ritiene il P. M che non
possa condividersi la affermazione del Tribunale, secondo cui invece il valore
di inquinamento dei bivalvi della laguna veneziana risulta confrontabile con
quello medio riscontrato nei pesci e molluschi di altre aree, essendo invece i
valori accertati nella perizia Bonamin ben più elevati, se confrontati con
quelli europei e soprattutto se confrontati con quelli relativi ad altre zone della laguna.
Di particolare rilevanza si ritiene essere un
documento dell’unione europea ,relativo alla esposizione, per ingestione
attraverso la dieta , a diossine e PCB correlati ,nei paesi membri.
Da tale documento risulta che solo 5 su 49 campioni
,relativi ad alimenti ittici europei ,sono superiori alla concentrazione media
di 1.85 pg I-TE/g rilevata dalla citata perizia.
Ne consegue
che la contaminazione di bivalvi nella laguna si attesta sulla fascia alta
dei valori europei.
3.9.6
Microinquinanti tossici nella laguna di Venezia ,le
diossine e composti simili
Perizia tecnica
Bonamin + altri del 1997 , consulenza tecnica Limonato + altri del 1998
,indagine istituto superiore di sanità Di Domenico + altri 1996
3.9.6
Microinquinanti tossici nella laguna di
Venezia: le diossine e composti simili
la perizia tecnica di V Bonamin, A Di Domenico,R Fanelli, Turrio
Baldassarri(1997), la correlata Consulenza tecnica di L Simonato ,L Tomatis , P
Vineise G.A Zapponi(1998) e l’indagine dell’Istituto Superiore di Sanità (A di
Domenico, Lturrio Baldassarri, G Ziemacki 1996)
3.9.6.1Premessa
Le predette
indagini tecniche acquisita al presente giudizio rilevano ,in quanto richiamate
spesso anche dal Tribunale , dal quale però
non sono state correttamente
interpretate .
3.9.6.2
Inquinamento da microinquinanti nella
laguna veneta.Rapporto conclusivo dell’Istituto superiore della Sanità per il Ministro della sanità
21-1-1996(allegato 3 alla relazione di Perizia Bonamin et al 1997)
Va premesso
che lo studio di cui sopra riguardava i
rischi relativi al consumo di bivalvi e prodotti ittici nelle aree in cui la pesca è consentita e che già
all’epoca la pesca era invece vietata nelle aree della zona industriale, con provvedimenti di sanità pubblica
successivamente reiterati ;
che i rilevamenti fatti che riguardano i
microinquinanti organici e d inorganici sono state eseguiti su 20 campioni di
biota raccolti in larga maggioranza in zone della laguna, ufficialmente
destinate all’allevamento e alla pesca.
Tutti i
campioni considerati in questo studio sono stati inclusi nella perizia Bonamin
e costituiscono circa la metà dei campioni complessivamente esaminati .
Il P. M
riporta quindi l’elenco dei campioni prelevati in 6 aree, di cui solo le prime
due non destinate ad allevamento e pesca , e dalla analisi dei risultati emerge
che le concentrazioni di diossine sono molto basse ,con una media di
concentrazione dell’ordine di 0.45 p g I-TE/g
o di pari circa 0.52 p g l- TE/g –includendo anche i campioni
provenienti dall’area industriale e dall’area urbana- sovrapponibile a quella relativa
alle sole aree di allevamento e pesca .
Le conclusioni dell’accertamento sono nel senso di
conseguenza che le concentrazioni rilevate sono confrontabili con i livelli
frequentemente riscontrati in aree sotto l’influenza di un impatto antropico
diretto moderato o trascurabile
Nella
successiva perizia Bonamin del 1997 sono presentate 41 determinazioni di PCDD/F
(I-TE)12 delle quali relative all’area 1 ( 9 su bivalvi, inclusa i
dall’indagine del 1996 e 3 su pesci), 1 relativa all’area 2 , 7 relative
all’area 3 ,12 relative all’area 4 , 2 relative all’area 5, e 7 relative
all’area 6.
Secondo i
consulenti della difesa le conclusioni a cui perviene la perizia Bonamin non sarebbero dissimili da quelle prese nel
rapporto redatto per conto dell’istituto superiore della sanità
Dalla lettura
della consulenza risulta invece che cosi non è, perché invece le conclusioni
sono molto dissimili
3.9.6.3 Perizia tecnica di VBonamin , A Di Domenico,R Fanelli l Turrito Baldassari
L’indagine che era finalizzata a verificare l’impatto
del Petrolchimico su sedimenti lagunari ed organismi bentonici e di valutarne l’utilizzabilità di quest’ultimi a fine
alimentare ,si è basata sugli accertamenti di laboratorio eseguiti da tre
diversi istituti ,e ha incluso la determinazione degli idrocarburi
policiclici aromatici , delle diossine ,PCB,DDT esaclorobenzene e
metalli pesanti
La
discussione che segue riguarda invece solo le diossine (PCDD/F)
Seguendo gli
stessi criteri utilizzati prima
dall’Istituto l’area è stata divisa in 6 zone
Le misura effettuate hanno rivelato la differenza tra
il livello medio di contaminazione di PCDD/F dei sedimenti nell’area
industriale e nell’area adibita a pesca e allevamento di in fattore dell’ordine
di 100,pari circa 1 pgl-TE/g, ed analogamente per il confronto con i livelli di
fondo italiani ed europei.
Questa differenza non è irrilevante e dimostra una
condizione di inquinamento molto elevato nell’area industriale della laguna .
Le analisi,
eseguite nella consulenza Bonamin, nel numero di 41, divise tra le 6 aree
,contengono una serie abbastanza numerosa di dati e possono quindi fornire
valutazioni affidabili della contaminazione dei bivalvi che sono organismi
stanziali e sono quindi indicative delle condizioni del luogo in cui sono
stati prelevati.
Le misure
effettuate sui sedimenti hanno indicato un fattore dell’ordine di 100 tra il
livello medio di contaminazione da PCDD e PCDF sui sedimenti e il livello medio
nell’area adibita a pesca e allevamento pari a circa 1pgl-TE/G, differenza significativa che
dimostra una condizione di inquinamento molto elevato nell’area industriale
dalla laguna .
Le
concentrazioni nei bivalvi dell’area 1 variano da 0,52 p g- I-TE /g a 4.9 p g
I-TE /g con una media di 1,85 p g I-TE/g.
Il valore piu elevato della serie di campioni risulta dalla media di due determinazioni
eseguite separatamente in due diversi
laboratori e si riferisce a campioni prelevati da un sito al centro del canale
industriale sud ed è quindi
rappresentativo di una area piuttosto ampia .
Trattasi
pertanto di un valore che costituisce valido indicatore della contaminazione
massima ,da considerare nelle valutazioni di rischio ,in accordo alle procedure
usuali in questo ambito ( che prevedono la indicazione del caso peggiore)
Le
concentrazioni nei bivalvi dell’area 4 variano invece da 0,079 p g I-TE/g ( dato relativo alle vongole) a 0,63 p gI
-TE/g(dato relativo su mitilo )con una media
di 0,42 p g –I-TE /G
È utile a
questo punto rilevare come i valori medi di concentrazione rilevati nei
prodotti ittici provenienti da varie parti dell’ Adriatico- espressi in termini
di TCDD – equivalente siano compresi tra 0.11 e 0.24 p g I-TE/g sulla base di
un ampio campionamento.
Trattasi di valori ancora piu bassi perché relativi ad aree senza impatto industriale .
La differenza
tra i valori della area 1 e quelli dell’area 4 è significativa e varia di un
fattore 4-5- mentre quella tra i valori
dell’area 1 e i valori della aree pulite dell’Adriatico e superiore ad un fattore 10.
Va comunque a
questo punto ribadito che è un errore
considerare la perizia Bonamin e altre
del 1997 e volta la prima a definire
l’inquinamento dell’area industriale
come sovrapponibile e concordante
con lo studio ISS del 1996 ,volto
definire l’inquinamento dei prodotti della aree di allevamento e pesca.
3.9.6.4 La consulenza tecnica di L Simonato , L
Tomatis P Vineis e G.A Zapponi
del (1998)
Di questa consulenza il Tribunale ha riportato le conclusioni laddove si dice che non
emergono elementi che comportino un
rischio piu elevato nelle popolazioni della laguna rispetto a quelle di
terraferma e che non appaiono tendenze costanti che consentano di individuare una delle due popolazioni come soggetta a
rischi piu elevati .
Le frasi riportate sono però parziali e le
conclusioni complete sono invece nel senso che ,pur non emergendo elementi che depongano a favore di un rischio piu
elevato nella popolazione lagunare rispetto a quella di terraferma , che
dall’insieme della crescita nel tempo di alcune sedi tumorali emerge la
necessità di indagini più approfondite , per poter individuare eventuali
fattori eziologici , tra i quali anche esposizioni legate all’inquinamento
della laguna.
Vengono
quindi riportati i parametri epidemiologici sui quali si basano le
predette conclusioni, che evidenziano un aumento significativo di tutti i
tumori, ed in particolare per i tumori alla mammella per i linfomi non hodgkin per il periodo 1990-1994 per entrambi i
comuni e per entrambi i sessi e
l’accertato aumento è di fatto , secondo le conclusioni dei consulenti
,compatibile con un aumento del rischio, anche se la verifica della causa
richieda ulteriore approfondimento
Conclusivamente risulta accertato che:
a) vi è stata contaminazione della laguna veneta in
gran parte a causa degli scarichi industriali
b) sono state
esaminate sostanze cancerogene e tali sostanze sono state rinvenute nel
sedimento e nel biota ove tendono
ad accumularsi
c)una esposizione prolungata a livelli anche molto
bassi a sostanze cancerogene comporta un aumento di rischio di tumori,
considerato anche l’effetto sinergico dei vari componenti della miscela
cancerogena
d) la particolare situazione idrologica della laguna ,caratterizzata dalla lentezza del ricambio e della diluizione dei contaminanti
rende l’inquinamento grave .
Il P. M
riporta poi i provvedimenti da adottare
secondo i suggerimenti dei consulenti .
Da pagina
1420 a pagina 1427 vengono poi ripetute in modo sintetico tutte le considerazioni svolte sub 3.9.6
Sul significato della contestata permanenza in atto
Immotivata e
contraddittoria assoluzione degli
imputati da tutte le contravvenzioni
loro rispettivamente contestate con
permanenza in atto
Viene innanzitutto ricordato che la
costruzione della accusa in ordine ai delitti di cui agli art
434,439,440 nella forma di cui all’art
452 c.p. non è quella del reato permanente, bensì quella di una pluralità
di reati ad eventi plurimi differiti
rispetto alle condotte ,riunite dalla cooperazione colposa e/o dalla
continuazione, e che la condotta degli imputati viene contestata a ciascuno per
i periodi di rispettiva competenza
Dopo avere premesso alcune considerazioni di
carattere generale circa la figura del reato permanente ed in particolare:
la sua
compatibilità sia con la condotta
commissiva come con la condotta
omissiva ;
il suo
accertamento sulla base delle
risultanze processuali ;
la
possibilità che venga rilevata anche d’ufficio ;
la compatibilità con la figura del concorso di
persone e con la figura della
cooperazione colposa di persone nel reato;
l’appello
affronta il tema della legge applicabile nel tempo.
Secondo la giurisprudenza, nel caso di reato
permanente ed in applicazione dei principi di cui all’art 2 c .p. se la
successione delle leggi comporta una sanzione piu grave,dovrà applicarsi la norma piu grave all’intero reato, perché
sotto la vigenza di quest’ultima il reato ha avuto sia una parte di esecuzione
,sia la fase terminale della consumazione .
Ne consegue
che nella fattispecie ,con riferimento alla normativa introdotta dal D
.Lgs 152/1999 piu severa della precedente,
le condotte costituite dallo scarico
senza autorizzazione da
insediamenti produttivi e da scarico superiore
ai limiti tabellari di
accettabilità, gia previste come reato dalla art 21 della legge n319/76 ,anche
se poste in essere prima della entrata in vigore ma protrattesi nel tempo sino
alla entrata in vigore della nuova
disciplina , devono essere sanzionate secondo la nuova e piu severa
normativa .
Risultano contestate e provate le seguenti violazioni
sulla cui sussistenza si è ripetutamente pronunciata la Corte di Cassazione.
art 17e 18 D.P.R 19-3-1956 n303 norme generali per
l’igiene del lavoro
E poiché non
sono mai state nel caso di specie
adottati mezzi efficaci per evitare i
danni che potevano essere arrecati ai
lavoratori ed alla ambiente il reato sussiste tutt’oggi.
Per le
violazioni ad entrambe le predette normative la Cassazione si è pronunciata in
senso positivo per quanto riguarda la configurabilità del reato permanente .
DPR 10-9-1982 n915 in attuazione delle
direttive europee relative allo
smaltimento dei policlorodifenili e policlorotrifenili e dei rifiuti tossico
nocivi sostituito dal DLG.vo 5-2
1997 in attuazione delle direttive
europee sui rifiuti pericolosi , L regione Veneto 23-4-1990 n28 recante nuove
norma per la tutela dell’ambiente
Relativamente
a questa norme dopo la sentenza delle Corte di Cassazione del 1994 che aveva
ritenuto configurabile il reato di
gestione di discarica abusiva solo
nella forma commissiva, sono intervenute successive decisioni di segno opposto
che devono essere condivise in quanto
la legge
punisce non solo la realizzazione della discarica ma
anche il suo consapevole mantenimento o
l’inerzia consapevole ( rilevante sul
punto la sentenza della Cass .pen
3-1-1995 n163 e Cass pen 21-05-1996 III sezione)
DL
27-6-1985 n312 convertito nella legge 8-8-1985 n431 recante disposizioni
urgenti per la tutela di zone di particolare interesse ambientale
Anche per
questo tipo di reato ,consistente nella esecuzione di opere senza la prescritta
autorizzazione paesistica ,si configura la permanenza dovuta al mantenimento
consapevole della alterazione .
Dl vo
15-8-1991 n277 in attuazione delle
direttive europee e in materia di
protezione dei lavoratori dai rischi
derivanti da esposizione ad agenti chimici, fisici e biologici durante
il lavoro
L 15-3- 1963 n 366 nove norme relative alla laguna di
Venezia e Marano
L 16-4-1973
n171 “interventi per la salvaguardia di Venezia“
DPR20-9-1973
n962 recante norme per la tutela della città di Venezia e del suo territorio
dagli inquinamenti delle acque
Per
tutte queste contravvenzioni è indubitabile che sia configurabile la
realizzazione di una condotta in forma permanente .
Il Tribunale senza motivare ha assolto gli imputati
da tutte le contravvenzioni pur avendo in alcune parti della sentenza
riconosciuto che erano state commesse .
3.11
conclusioni relative al secondo capo
d’accusa
Non è vero
che l ‘accusa sia indeterminata essendosi a ciascuno addebitata la condotta
tenuta nel periodo di tempo per ciascuno indicato nel capo d imputazione
Ad un primo
gruppo di imputati –gruppo Montedison -sono addebitate le condotte di cui al
capo 2 lettera A ,ad un secondo gruppo di imputati-gruppo Enichem – Enimont –
sono invece addebitate le condotte contestate al capo 2 lettera B ;
altri imputati ,che sono transitati da una azienda
alla altra, devono rispondere di entrambe le contestazioni
Parte quarta
Le società
Posizioni di garanzia
I ruoli
Le
responsabilità dei singoli imputati
Il Tribunale laddove ha riconosciuto
sussistere una responsabilità penale –pur dichiarando poi la prescrizione per
il relativo reato- ha individuato solo alcuni responsabili, senza motivare in
ordine alle ragioni per cui invece avrebbe assolto altri imputati che, per le
posizioni di garanzia rivestite avrebbero
dovuto essere egualmente ritenuti responsabili.
Il Tribunale non affronta né approfondisce il
problema della responsabilità legata alle posizioni di garanzia.
Il Tribunale
non ha egualmente affrontato la questione dei rapporti tra società controllata
e società controllante .
Segue da
ultimo nell’atto d’appello la esposizione delle vicende societarie con il
passaggio della gestione degli impianti di produzione del CVM/PVC dalla Montedison alla Montepolimeri , alla
Montedipe, a Riveda s.r.l alla società
Enichem polimeri ,alla Enichem base
,alla Enichem Anici a Enimont Anic a EVC Italia nonché l’esame della rilevanza del ruolo svolto dall ’ ENI nella
vicenda .
Richieste del PM di rinnovazione del dibattimento e
di riforma della sentenza di primo grado
La richiesta
di rinnovazione ha per oggetto solo la acquisizione di alcuni documenti e la
audizione degli ufficiali di polizia giudiziari della Guardia di Finanza in
relazione ad alcuni accertamenti risultanti dalle documentazioni che richiede
di acquisire
Appellavano
avverso la sentenza del Tribunale anche le parti civili esponendo motivi d’appello sostanzialmente
corrispondenti a quelli indicati dal P.M.
Nel
proprio atto d’appello la difesa dell’avvocatura dello Stato introduceva
invece più specifiche critiche alla sentenza nella parte in cui
escludeva la responsabilità degli imputati
relativamente alle
contravvenzioni in materia di inquinamento idrico.
Osserva in particolare l’avvocatura come sia
provato il ripetuto superamento dei limiti di tollerabilità tabellarmente
fissati dalla legislazione speciale per
Venezia e dalle successive norme aventi valore su tutto il territorio
nazionale –legge 319/76 -in materia di scarichi idrici, in base alle analisi
che erano state fatte dallo stesso gestore dello stabilimento.
E poiché -
come affermato dallo stesso
Tribunale -ogni superamento dei
predetti limiti integra una
violazione del divieto e quindi della
norma risultava incomprensibile e contraddittoria la assoluzione di tutti gli
imputati anche dalle contravvenzioni , oltre che dai reati di avvelenamento e
adulterazione .
Risultava inoltre documentalmente provato che veniva scaricata in fognatura
l’acqua di lavaggio della pulizia della autoclavi fortemente inquinata dalla
presenza di CVM .
Tali scarichi non erano e non potevano essere
autorizzati attesa la loro provenienza e contaminazione con una delle sostanze indicate al punto 3.6 della
tabella 1.3 contenuta nella Delibera del
Comitato interministeriale di
cui all’art 5 del DPR 10-9-1982 n 915 in data 27-7-1984 ciò che comportava la classificazione dei
rifiuti liquidi come tossico nocivi o pericolosi.
Il Tribunale,
nell’andare di contrario avviso, aveva
invece ritenuto che la citata delibera
non introducesse un principio di presunzione di tossicità del rifiuto in
ragione della sua provenienza e che l’onere della prova gravasse anche in questo caso sulla accusa.
Si osservava
invece come in senso contrario si fosse
ripetutamente pronunciata la Suprema Corte.
Veniva poi criticata la sentenza nella parte in cui
aveva ritenuto applicabile agli scarichi delle acque di processo
provenienti dai reparti CV22/23 e CV
24/25 la disciplina relativa agli scarichi,invece di quella relativa i rifiuti
tossico nocivi o pericolosi
Innanzitutto doveva essere premesso che le acque di
processo, provenienti dai predetti scarichi ,non si immettono direttamente nel
corpo ricettore ma che confluiscono nello scarico SM15 e successivamente nell’impianto di trattamento SG31 ,gestito
da soggetto diverso da quello titolare del Petrolchimico , e che si tratta
quindi di uno scarico indiretto ,per tale ragione escluso dalla disciplina
dettata per gli scarichi idrici e sottoposto alla disciplina relativa ai rifiuti
.
Veniva quindi
esaminata in modo preciso la disciplina normativa da cui dipendono i
limiti di applicazione delle due leggi fondamentali –quella che riguarda gli
scarichi e quella che riguarda i rifiuti :innanzitutto l’ultimo comma dell’art 2 D. P. R 915/82 che sub lett d)
stabilisce la non applicabilità del
D.P.R agli scarichi disciplinati dalla legge
10-5-1976; quindi il penultimo comma della stessa norma fa salva la normativa dettata dalla legge
10-5-1976 n.319 e successive modifiche e relative prescrizioni tecniche per quanto riguarda la disciplina dello
smaltimento nelle acque , sul suolo e nel sottosuolo dei liquami e dei fanghi
di cui all’art 2 lettera e)punti 2 e 3
della citata legge, purchè non tossici
e nocivi ai sensi del presente decreto.
Ora con riferimento a tali disposizioni viene
innanzitutto evidenziato che la esenzione viene fatta con una duplice
previsione riferita agli scarichi e
allo smaltimento; che il legislatore ha talvolta usato il termine smaltimento
come sinonimo di scarico benché il
concetto normativo di smaltimento sia più ampio di quello di scarico
comprendendo fasi diverse dalla semplice immissione del rifiuto
nell’ambiente quali la raccolta, il
trasporto ,lo stoccaggio ; che il sesto comma
ha una formulazione più ampia di
quella dell’ultimo comma e fa riferimento ad una ipotesi di smaltimento di liquami nelle acque , che
non è invece prevista nell’art 2 legge
319/76 che riguarda solo lo smaltimento nel suolo e nel sottosuolo per i
liquami e lo smaltimento, nel suolo
adibito ad uso agricolo e non ,nel sottosuolo ed nel mare per i fanghi ; che l’interpretazione condivisa
dal Tribunale secondo cui la esenzione del sesto comma esclude dalla disciplina
dei rifiuti solo lo smaltimento dei liquami
e fanghi di cui all’art 2 legge Merli , a meno che non siano tossico
nocivi , viene ad individuare una
disciplina speciale , senza però
individuare gli elementi specializzanti
che permettano di distinguere le
due fattispecie ; che la predetta interpretazione comporterebbe delle incongruenze in quanto consentirebbe di versare nelle acque , seppure nel
rispetto della legge 319/76 ,rifiuti
tossico nocivi la
interpretazione fatta propria dal Tribunale verrebbe poi a porsi in contrasto con il divieto,
stabilito con delibera del Comitato interministeriale per la tutela delle acque
dall’inquinamento del 7-1- 86 di scaricare in mare rifiuti tossico
nocivi.
Doveva ancore
evidenziarsi come sulla base delle definizione normativa del termine liquami
contenuta nelle delibera del 4/2 /77 allegato 5, nessuna distinzione poteva
essere operata rispetto al termine scarico, in quanto per liquame doveva
intendersi qualsiasi sostanza suscettibile di essere oggetto di scarico.
In base a queste considerazioni doveva pervenirsi ad
una interpretazione opposta rispetto a quella sostenuta dal Tribunale e ritenere che il limite di carattere
generale si riferisca a tutti gli scarichi disciplinati dalla legge 319/76 ,che
sono esonerati dal rispetto della normativa di cui al DPR 915/82 solo se non
classificabili come tossico nocivi ai sensi
del citato D.P.R.
Ed infine la
interpretazione che viene ritenuta
corretta dall’appellante risulta conforme al contenuto delle direttive
comunitarie in materia.
L’appellante
cita quindi una serie di decisioni della C. C dalle quali risulterebbe che
l’esenzione contenuta nel sesto comma
dell’art 2 D. P R 915/82 ha carattere generale e riguarderebbe tutti
gli scarichi indistintamente sia
diretti che indiretti e che , quando sono classificabili come tossico nocivi,
verrebbero sottoposti alla disciplina di cui al citato D.P.R.
Altra
valutazione erronea è quella in base alla quale il Tribunale ha escluso che le
acque provenienti dai reparti abbiano natura tossico nociva, risultando
accertato il superamento dei limiti di cui alla tabella allegata
alla delibera del C. I del 1984 in sole dieci volte in un lungo arco temporale .
In vero, una volta esclusa la qualificazione dei
rifiuti come tossico nocivi in base
alla sola loro provenienza da determinate lavorazioni, doveva il Tribunale
accertare se le acque contenevano C .V.M. e nel caso positivo, se la loro
concentrazione superava il limite fissato dalla Tabella di cui alla delibera
del 1984.
E la dimostrazione che anche una sola volta la
concentrazione di C. V . M. era superiore al limite stabilito nelle tabelle, comportava la classificazione del
rifiuto come tossico nocivo, con il conseguente divieto di smaltimento in acqua attraverso un normale impianto di depurazione, non
autorizzato allo smaltimento dei rifiuti tossico –nocivi.
Il Tribunale aveva poi ritenuto viziata da errori la
consulenza tecnica del perito della accusa dott Cocheo - senza consentire allo
stesso di illustrare le ragioni di quanto dallo stesso ritenuto, per cui veniva
espressamente impugnata la relativa ordinanza dibattimentale del 15-5-2001 chiedendo sul punto la
rinnovazione del dibattimento.
Vengono
quindi nell’atto di appello esposte le
leggi scientifiche utilizzate dai
consulenti tecnici delle parti, evidenziando i limiti e la difficoltà di stabilire- secondo le
leggi di Henry o di Raoult- la
concentrazione di C .V M nell’acqua partendo dalla conoscenza di quella
presente nell’aria, per concludere che
un giudizio obiettivo avrebbe
dovuto ritenere che non era possibile
conoscere la reale concentrazione del cloruro nelle acque scaricate in
laguna ,in mancanza di un completo
certificato di analisi ,che il detentore
dello scarico era tenuto ad esibire per legge a dimostrazione che non si trattava di rifiuto tossico nocivo.
Ed era
proprio per questa difficoltà che il
legislatore aveva ritenuto di desumere
la natura tossico nociva del rifiuto
dalla sua provenienza.
Il ritenere
invece che nelle acque di processo non fosse presente, se non in concentrazioni
inferiore al limite tabellare il cloruro è circostanza che si pone in
contrasto con gli accertamenti fatti
come ad esempio lo sversamento diretto in fognature del contenuto delle
autoclavi di polimerizzazione.
Non risultava inoltre provata in alcun modo la affermazione
del Tribunale, secondo cui non vi era collegamento tra la fognatura dei reparti
di produzione CVM/PVC e le vasche di
neutralizzazione, al contrario la
circostanza risultava smentita dal fatto che il gestore dello stabilimento
aveva posto proprio sopra le vasche di neutralizzazione un gas cromatografo che
doveva servire a misurare la quantità di C V M presente nell’aria , a seguito di evaporazione dalle vasche.
Doveva quindi ritenersi certa la presenza di C. V .M
nell’acqua e per accertarne
la attuale effettiva concentrazione era stata richiesta una CTU che il
Tribunale aveva rigettato e che veniva riproposta in appello seppur in via
subordinata.
Premesso quindi che le acque provenienti dai reparti
CV 22 e CV23 sono acque di processo che, per il fatto di provenire da
lavorazioni caratterizzate da elevata
concentrazione di sostanze
tossiche contengono rifiuti tossico nocivi
, la cui tossicità e pericolosità è pertanto desunta, per superare tale
desunzione ,avrebbe dovuto il produttore dimostrare che il refluo proveniente da a tale reparto , prima di essere trattato nell’acqua , era privo di CVM
o che la concentrazione del gas era inferiore a quella prevista nella Tabella,
mentre invece nessuna della analisi chimiche eseguite dal produttore ha avuto
per oggetto la ricerca del CVM.
Ciò comporta
la violazione degli articoli 16 e 26 del DPR 915/82 e della normativa regolamentare di cui alla citata Delibera del 27-7-84, essendo stati
trattati come scarichi idrici dei rifiuti
tossico nocivi.
Le
considerazioni svolte dal CT Cocheo
,con riferimento ai processi di lavorazione
e produzione del CVM, in particolare il fatto che, affinché il cloruro
di vinile possa emergere dalla soluzione acquosa é indispensabile che questa
sia saturata , dimostra al presenza del CVM
in misura superiore a quella consentita
dalla tabella ,perché la
saturazione del cloruro di vinile in acqua si verifica quando la concentrazione e pari a 1.100 mg/kg
ovvero a 2,2 volte la CL della
tabella 1.1. della delibera del CI.
Il fatto che
nelle analisi non risultasse la presenza del CVM non può poi fare ritenere che
tale sostanza non fosse presente bensì che non era stata ricercata , infatti
quando una sostanza non era presente, ma era stata ricercata, ne veniva fatta
la relativa annotazione .
Andava quindi
evidenziato come per un corretto smaltimento dei rifiuti ,ovvero per il loro
incenerimento avrebbero dovuto sostenersi dei costi pari ad
1.200.000-1.400.000 lire al metro cubo
moltiplicati per il numero di metri cubi smaltiti ogni anno e che secondo al
stessa difesa erano pari a 210.000
metri cubi all’anno, spesa che il soggetto obbligato non aveva mai sostenuto e
che costituiva di conseguenza illecito profitto del trasgressore ai sensi
dell’art 18-L349/86
Ed analoghe considerazioni dovevano essere fatte con
riferimento alle acque di processo
provenienti dai reparti CV 24 e 25.
Appello incidentale dell’imputato Cefis.
In conseguenza delle impugnazioni di cui sopra, ha
proposto appello incidentale la difesa dell’imputato Cefis Eugenio chiedendo
assoluzione perché il fatto non sussiste o per non aver commesso il fatto
relativamente ai reati per i quali è stata adottata diversa formula di
proscioglimento, lamentando che in ogni caso per detti reati elementi a suo
carico sarebbero emersi dalle dichiarazioni di coimputati contumaci rese in
sede di indagine preliminare ed acquisite in dibattimento senza che l’imputato
Cefis avesse prestato consenso ad utilizzo nei suoi confronti, onde, non
utilizzabili tali elementi che avrebbero comprovato una sua conoscenza e la
consapevolezza dei problemi ambientali e sanitari, non ne resterebbero altri
sui quali fondare una qualunque prospettiva di sua responsabilità, e si
imporrebbe conseguentemente l’assoluzione con l’ampia formula richiesta.
Tanto premesso in ordine al deciso e argomentazioni
del Tribunale in ordine al primo ed al seconndo capo d’imputazione, ed ai
relativi motivi di impugnazione degli appellanti, va poi peraltro ancora
ricordato che su tutti i predetti temi controdeducono, con specifiche memorie
depositate in cancelleria prima del giudizio di appello ma riprendendo
argomentazioni proposte già in primo grado anche con specifiche memorie, i
difensori degli imputati Smai, Pisani e Patron, nonché dell’imputato Diaz, ed
altresì la difesa degli imputati Grandi, Trapasso, Belloni, Gaiba.
Oltre a specifica contestazione e confutazione
dell’attribuibilità alla lavorazione del cvm delle patologie dei singoli
lavoratori in particolare analizzate dalla difesa in ultimo citata, con
riferimento alle principali assorbenti tematiche ripresentate con i motivi
d’impugnazione dalle accuse appellanti si sostiene, quanto al primo capo
d’imputazione, in principalità l’assenza del nesso di condizionamento, la cui
prova mai sarebbe stata fornita dal P.M. che ancora nei motivi d’appello non
coglierebbe il punto focale del giudizio, ma altresì l’oggettiva insussistenza
dei reati contestati, l’assenza di colpa e la tempestività ed adeguatezza degli
interventi tecnologici ed impiantistici. Si contestano altresì le
argomentazioni tutte degli appellanti anche in tema di cooperazione colposa,
prescrizione, continuazione e permanenza.
Circa il problema del rapporto causale tra
l’esposizione a CVM e i singoli tumori e le singole malattie contestati,
premesse da parte della difesa quelle che ritiene delle “verità” relative:
all’idea di causa, rilevante per il diritto penale, alla strategia accusatoria,
che permea di sé anche i motivi di appello, fondata su concetti di causa
estranei al nostro ordinamento e da quest’ultimo ripudiati, alla strategia
della difesa, invece sempre fedele alle premesse giuridiche sulla nozione di
causa, estraibili dal codice penale, e ripercorse la vicenda processuale di
primo grado e quella che si ritiene puntuale valutazione della sentenza del
Tribunale di Venezia, si sostiene che questo processo non doveva neppure avere
inizio in quanto il comportamento degli imputati non è configurabile come
condizione sine qua non degli eventi lesivi, e mai le diagnosi dei medici legali
dell’accusa si sono espresse sull’esistenza del nesso di condizionamento. Il
giudizio dei medici legali ha sempre avuto per oggetto l’idoneità
dell’esposizione al CVM a provocare tumori e malattie, idoneità rivelatasi,
peraltro, inesistente.
Da ripudiare
dunque la tesi dell’accusa che, ignorando ostentatamente le prescrizioni in
diritto, si è attestata su un concetto di possibilità o probabilità della
condizione necessaria estraneo a quelli che dovrebbero essere i fondamenti
granitici dell’amministrazione della giustizia penale: per una sentenza di
condanna non bastano neppure probabilità della condizione necessaria assai
elevate, quando non sono prossime a 100; principio al quale sarebbe rimasto
fedele il Tribunale di Venezia che, in un paese democratico ove non è vero che
auctoritas facit judicium mentre resta vero che “lex facit judicium”, ha dato
lo “jus” rispondente appunto alla legge
secondo la quale “in tanto sussiste il rapporto causale in quanto la
condotta (azione od omissione) sia condizione necessaria dell’evento lesivo”, e
non condizione idonea o condizione dell’aumento del rischio.
Sul punto, si contestano nello specifico i motivi di
appello del P.M. evidenziandone quelle che si affermano essere dichiarazioni
contrarie al vero: in primo la non veridicità della coincidenza delle sue tesi
sul nesso causale con i criteri enunciati dalle Sezioni Unite della Corte
Suprema.
Si osserva come, prima della replica, il P.M., nel corso
dell’intero dibattimento, aveva voluto che i suoi esperti medico-legali
intendessero la causa non come condizione necessaria, ma come condizione
idonea, e nella replica, aveva modificato la propria posizione, sostenendo che
la causa penalmente rilevante coincide con il concetto di condizione
necessaria, intesa però non come condizione necessaria dell’evento lesivo, ma
come condizione necessaria dell’aumento, o della mancata diminuzione del
rischio. Nei motivi di appello, contestando la rispondenza della tesi del
Tribunale sul rapporto causale con quanto esposto dalle Sezioni unite, vi
sarebbe il rilancio, da parte del P.M., della condizione idonea, delle serie e
apprezzabili possibilità, delle buone probabilità, della “molta probabilità”,
con approdo al concetto di condizione necessaria, come condizione dell’aumento
del rischio o delle probabilità del
verificarsi dell’evento, o della mancata diminuzione del rischio e delle
probabilità.
Le affermazioni del P.M. sarebbero peraltro in insanabile
contrasto con gli enunciati delle Sezioni Unite relativi alla condizione necessaria
dell’evento lesivo e al ripudio dell’aumento o della mancata diminuzione del
rischio. Si analizza dunque quanto abbiano sostenuto le Sezioni Unite, per
capire se davvero la tesi enunciata dall’accusa “combaci e coincida” con quella
sostenuta dalla Corte Suprema, coincidenza che si esclude, evidenziandola
invece con i principi enunciati dal Tribunale di Venezia. Premesso il forte
richiamo, che si assume all’inizio operato dalle Sezioni Unite, al concetto di
causa penalmente rilevante, inteso come condizione necessaria dell’evento
lesivo, si osserva come le stesse abbiano poi posto altro insuperabile paletto:
il criterio dell’aumento o mancata diminuzione del rischio di lesione del bene
protetto, o di diminuzione delle chances di salvezza del medesimo bene (vita,
incolumità fisica, salute, ambiente) è un criterio estraneo al nostro
ordinamento, che va perciò ripudiato dai giudici.
Osserva dunque la difesa che le Sezioni Unite rifiutano “un
affievolimento dell’obbligo del giudice di pervenire ad un accertamento
rigoroso della causalità” (p. 11), affievolimento realizzato riconoscendo
“appagante valenza persuasiva a serie ed apprezzabili probabilità di successo
(anche se limitate) e con ridotti coefficienti indicati in misura addirittura
inferiore al 50% dell’ipotetico comportamento doveroso omesso”, e ciò sulla
base delle pretesa che “quando è in gioco la vita umana anche poche probabilità
di sopravvivenza rendono necessario l’intervento del medico”.
“Le Sezioni Unite non condividono questa soluzione” (p. 12),
perché “con la tralaticia formula delle serie ed apprezzabili probabilità di
successo si finisce per esprimere coefficienti di probabilità indeterminati,
mutevoli, manipolabili dall’interprete, talora attestati su standard davvero
esigui” (p. 12).
Questa presa di posizione delle Sezioni Unite, si accompagna
all’altra, risoluta presa di posizione sul ripudio del criterio dell’aumento
del rischio come sostitutivo della condizione necessaria dell’evento, e sul
riconoscimento della fedeltà del nostro ordinamento al criterio della
condizione sine qua non o causa but for per “le ragioni di determinatezza e di
legalità della fattispecie di reato che il modello condizionalistico della
spiegazione dell’evento garantisce”.
Su questi tre snodi – la causa come condizione necessaria
dell’evento lesivo, il ripudio del criterio dell’aumento del rischio, il
rifiuto di clausole indeterminate e manipolabili, quali quelle relative alle
serie o elevate probabilità dell’esistenza del nesso di condizionamento – si
deve registrare una prima, assoluta convergenza tra la sentenza del
Tribunale di Venezia e quella delle
Sezioni Unite.
Sulla causalità, infatti, il Tribunale di Venezia esordisce
affermando che “secondo il codice vigente, in tanto sussiste il rapporto
causale, in quanto la condotta lesiva (azione od omissione) sia condizione
necessaria dell’evento” (sentenza, p. 128); questa individuazione della causa
penalmente rilevante è poi accompagnata dal ripudio del criterio dell’aumento
del rischio: occorre “rifuggire – dice il Tribunale di Venezia – dagli
orientamenti che forzano il criterio causale per ragioni di prevenzione
generale, collocandolo nell’area dell’aumento del rischio” (sentenza, p. 146).
Quanto al “passaggio dal piano deterministico a quello
probabilistico”, con l’uso della formula “serie o elevate possibilità”, il
Tribunale di Venezia afferma: “è ben vero che le tendenze all’erosione del
paradigma causale si sono manifestate con riguardo a materie in cui sono in
gioco esigenze di tutela di beni fondamentali quali la salute e la vita umana,
ma ci si deve chiedere se queste specifiche esigenze di giustizia possano
condizionare una corretta ermeneutica del nesso causale, che deve fondarsi su
parametri logico-scientifici oggettivi. Infatti, perseguendo questa strada,
dominata dal criterio probabilistico di grado difficilmente determinabile,
ancorché qualificato alto o elevato, si incorre nel pericolo di introdurre
nell’accertamento della sussistenza del nesso causale il libero convincimento
del giudice, sia pure nobilitato dallo scopo di soddisfare esigenze ed attese
di giustizia, che viene a sopperire la mancanza di certezze scientifiche o
comunque di consenso generalizzato della comunità scientifica” (sentenza, p.
131).
Formule indeterminate e indeterminabili, e quindi
manipolabili, quelle relative al grado di probabilità, ancorché definito alto:
in questo modo, il Tribunale di Venezia non fa che anticipare ciò che diranno
poi le Sezioni Unite.
Un’altra basilare anticipazione della sentenza delle Sezioni
Unite è compiuta dai giudici di Venezia quando riconoscono che la
“responsabilità deve essere provata secondo la regola di giudizio dell’oltre il
ragionevole dubbio, regola che ormai fa parte del nostro ordinamento”
(sentenza, p. 148): le Sezioni Unite diranno che “il plausibile e ragionevole
dubbio, fondato su specifici elementi che, in base all’evidenza disponibile, lo
avvalorino nel caso concreto ... non può non comportare la neutralizzazione
dell’ipotesi prospettata dall’accusa”.
Errata sarebbe
dunque l’affermazione del P.M., secondo la quale le Sezioni Unite non
assumerebbero affatto il “modello causale” invocato dal Tribunale di Venezia
(p. 792), giacché, per i giudici di Venezia, sarebbero rilevanti, per la
spiegazione dell’evento, anche leggi scientifiche di forma statistica, purché
la frequenza consenta di inferire l’explanandum con quasi certezza mentre, per
le Sezioni Unite, sarebbero sufficienti coefficienti medio bassi di probabilità
frequentista.
Qui, secondo il P.M. starebbe il punto cruciale, perché, per
le Sezioni Unite “è indubbio che coefficienti medio-bassi di probabilità c.d.
frequentista per tipi di evento, rivelati dalla legge statistica, impongano
verifiche attente e puntuali sia della fondatezza scientifica che della
specifica applicabilità nella fattispecie concreta. Ma nulla esclude che
anch’essi, se corroborati dal positivo riscontro probatorio, condotto secondo
le cadenze tipiche della più aggiornata criteriologia medico-legale, circa la
sicura non incidenza nel caso di specie di altri fattori interagenti in via
alternativa, possano essere utilizzati per il riconoscimento giudiziale del
necessario nesso di condizionamento.
Sostiene però la difesa che chi sappia capire, oltre che
leggere, non tarderà a rendersi conto che i giudici veneziani e quelli delle
Sezioni Unite, a proposito delle leggi statistiche, dicono esattamente le
stesse cose: cosicché si può asserire che il Tribunale di Venezia ha nuovamente
anticipato le conclusioni delle Sezioni Unite.
Infatti – dopo una premessa di carattere generale, secondo
la quale “il problema che si pone al tribunale, al di là dell'individuazione
del grado di probabilità o della percentuale che si ritiene sufficiente ai fini
dell'accertamento del nesso causale, è
piuttosto quello di individuare un modello causale al tempo stesso compatibile
con il nostro ordinamento e idoneo a
includere non solo le spiegazioni nomologico-deduttive provviste di
certezza, ma anche le spiegazioni offerte dalla scienza secondo un modello
statistico-induttivo che colloca l' approccio nomologico nello specifico
contesto che valorizza la ricerca e l'analisi di tutti i fattori presenti e
interagenti (Hempel): in tale
modo anche le leggi statistiche sarebbero
in grado di spiegare che un evento si è verificato a patto che la frequenza consenta di inferire
l'explanandum con quasi certezza sulla base di una relazione
logico-probabilistica” – il Tribunale di Venezia non richiama più il criterio
del coefficiente percentualistico vicinissimo a 100, ma si attesta, con
decisione, sull’idea di “regola di natura probabilistica” tale da consentire
una generalizzazione sul nesso di condizionamento ricavabile dalla
epidemiologia, dalla biologia molecolare, dalla tossicologia e dalla medicina
legale.
Il Tribunale avrebbe d’altra parte tenuto conto
dell’evidenza, della certezza processuale per operare le verifiche “attente e
puntuali” richieste dalle Sezioni Unite. Anzi la sentenza del Tribunale di
Venezia risulta addirittura molto più chiara, corretta e comprensibile della
sentenza delle Sezioni Unite. Infatti anche il Tribunale di Venezia non
considera inutilizzabili frequenze molto basse nella successione di eventi
singoli, come sono quelle relative alla successione tra alte esposizioni a CVM
e insorgenza dei singoli angiosarcomi, ma ciò che dimostra quanto sia migliore,
e più criticamente argomentata, la sentenza del Tribunale di Venezia rispetto a
quella delle Sezioni Unite, è l’individuazione delle verifiche attente e
puntuali: le Sezioni Unite non precisano quali siano queste verifiche, pur
ritenendole indispensabili; il Tribunale di Venezia lo precisa, collegando la
verifica attenta e puntuale al calcolo della forte associazione tra rischio ed
esposizione.
E facendo buon
governo della regola, invece fraintesa dal P.M. dell’oltre il ragionevole
dubbio: regola probatoria e di giudizio, propria di tutti i sistemi processuali
dei Paesi democratici in forza della quale se su una prova, sul riscontro di un
fatto, su una conoscenza scientifica (indispensabile per la sentenza di
condanna) sussiste un dubbio ragionevole, il giudice non ha alternative diverse
dal proscioglimento. E sarebbe altresì sfuggita al P.M. l’importanza della
precisazione del Tribunale in ordine alla necessità di verificare, sotto tale
ottica, l’affidabilità di una ipotesi scientifica (ad esempio, l’ipotesi
formulata da IARC 1979 – 1987 sul legame causale tra CVM e i tre organi
bersaglio diversi dal fegato). E’ un problema non da poco, giacché, se il
sapere scientifico di oggi può diventare la favola di domani, il rischio di
condannare degli innocenti è sempre incombente quando, tra le prove di un
processo penale, debba essere annoverato anche il sapere scientifico.
Premesso quanto sopra in diritto, la difesa sostiene che
proprio in ordine alla condizione necessaria l’accusa abbia proposto un “grande
buco nero”, mai provando il nesso di condizionamento tra malattie e tumori ed
esposizione al cvm, atteso che le stesse diagnosi individuali degli esperti
medico-legali si sono limitate alla idoneità lesiva, ancorate quindi alla causalità
generale.
Ed ancora nei motivi non esisterebbe neppure l’ombra di un
accenno al nesso di condizionamento. Fallito infatti anche il tentativo di
ricostruzione della catena causale per l’incertezza scientifica sul punto
emersa dall’esame degli stessi consulenti dell’accusa e soprattutto del dott.
Simonato, il P.M. nei motivi butta lì,
scritta in grassetto, l’affermazione delle Sezioni Unite, secondo la quale “non
potendo conoscere tutte le fasi intermedie attraverso cui la causa produce il
suo effetto, nè potendo procedere ad una spiegazione fondata su una serie
continua di eventi, il giudice potrà riconoscere fondata l’ipotesi
ricostruttiva formulata in partenza sul nesso di condizionamento tra condotta
umana e singolo evento, soltanto con una quantità di precisazioni” (p. 793).
Per la difesa il P.M. dimostra però di non aver compreso
detta affermazione avallando un’interpretazione palesemente erronea del
pensiero delle Sezioni Unite. La loro sentenza, infatti, fa una osservazione
ovvia e banale: non si può pretendere che il giudice conosca tutte le fasi
intermedie e tutta la serie di eventi continui nel tempo e contigui nello
spazio che collegano l’evento iniziale con l’evento finale.
Dicendo “tutte”, però, la Corte Suprema vuole dire che è
sempre possibile, invece, l’individuazione di alcune fasi intermedie, di alcuni
anelli causali. E in effetti sarebbe sempre possibile una spiegazione parziale
del “meccanismo del fenomeno”, parziale ma sufficiente per l’attribuzione
causale dell’evento lesivo. Ma nella specie nessun esperto dell’accusa sarebbe
riuscito a sostenere di aver individuato “l’anello causale intermedio” che,
attraverso una spiegazione parziale, consente l’attribuzione della
responsabilità.
E così, difettando
la prova che l’esposizione a cvm sia condizione necessaria delle patologie non
riconosciute dal Tribunale, è un falso problema quella della concausa ancora
sostenuto nei motivi di appello dal P.M. cui, si sostiene, sfugge completamente
una nozione basilare come è quella che concerne la relazione tra la nozione di
condizione necessaria e quella di causa sufficiente.
Né potrebbe
sostenersi che il ruolo causale del cvm sarebbe fuori discussione, avendo in
ogni caso “accelerato i processi patologici sfociati nelle malattie cancerose
del fegato e del polmone”. Sarebbe questa un’affermazione del tutto sfornita di
prova, ennesima dichiarazione non veritiera del P.M., così come sarebbero
sfornite di elementi scientifici di supporto i tentativi del P.M. di ricondurre
l’asbesto e il CVM ad un unico meccanismo di azione, e di contestare quanto
recepito dal Tribunale in forza dell’evidenza processuale, e cioè che il CVM
fosse un cancerogeno iniziante con idoneità lesiva solo ad elevate esposizioni.
Ma, secondo la difesa, lo sforzo massimo di distorsione
della verità è compiuto dal P.M. sul tema della causalità generale, cioè della
idoneità lesiva del CVM.
La distorsione della verità non risparmia nessuno dei
capitoli trattati dal P.M., sotto la voce “Causalità generale e casistica
processuale”. Ancora ripercorrendo le emergenze processuali si evidenziano gli
assunti errori ed omissioni del P.M. in ordine alla ricostruzione della
epidemiologia e studi epidemiologici, sulle singole patologie ed organi
bersaglio, sul meccanismo d’azione del CVM e sulla cancerogenesi, sull’effetto
lavoratore sano, sul rischio CVM a basse dosi, sul ruolo e conclusioni degli
organismi internazionali, attestandosi sostanzialmente la difesa sulle
valutazioni e conclusioni del Tribunale del quale nega altresì appiattimento
alle tesi dei propri consulenti.
Quanto alla causalità individuale ed allo specifico delle
patologie riscontrate a Porto Marghera, osserva la difesa come il P.M. abbia
riproposto temi e problemi già trattati precedentemente, sia in ordine alle
patologie, epatocarcinoma, tumori ad organi bersaglio diversi dal fegato,
cirrosi epatopatie, sia in ordine al ruolo concausale del CVM, alcol e virus B
e C, sia in ordine agli effetti conseguenti alle basse dosi di esposizione.
Quanto all’epatocarcinoma, rimarca comunque la difesa la
fallacia della tesi del P.M. secondo la quale il rapporto Ward non avrebbe
bisogno di conferma e la necessità di una “sospensione di giudizio”. Osserva,
richiamando anche giurisprudenza degli Stati Uniti e la concezione
induttivistica di Hempel, e
quella antinduttivistica di Popper, che
nella scienza non vi sono certezze e che “le leggi della scienza sono
null’altro che delle ipotesi di cui non si saprà mai se sono vere o false” onde
la domanda–chiave – così come sostengono giustamente i giudici americani – cui
rispondere quando si deve stabilire se una teoria o una tecnica sia una
conoscenza affidabile per il giudice è se le ipotesi formulate possono essere
confermate o falsificate, se godono di un alto grado di conferma e se hanno superato
ripetuti tentativi di falsificazione.
Ora, se si valuta che i casi di epatocarcinoma considerati
nella relazione Ward sono solo 10 e, per esplicita ammissione degli autori
dello studio, si tratta della prima occasione in cui è presente “una evidenza relativamente
forte in favore di una relazione dose-risposta con l’epatocellulare” (così il
teste dell’accusa Boffetta: ud. 12.7.2000, p. 85), e che lo stesso Boffetta ha
ricordato nel corso della sua deposizione, che l’affidabilità dei dati del
rapporto Ward sull’epatocarcinoma
va valutata “con una serie di limitazioni, soprattutto dovute al basso numero
di casi confermati di epatocellulare, che come dico sono 10, dopo tutte le
verifiche che abbiamo potuto fare” (ud. 12.7.2000, p. 86), e se pur è vero che
Wong e indirettamente Mundt
del 1999, Weihrauch del 2000,
nonchè Wong, Chen e altri del
2002, suggeriscono la esistenza di una associazione tra CVM ed epatocarcinoma,
va osservato che, a parte l’incompletezza, limitazione e contraddizioni di tali
studi, nessuno degli stessi può essere considerato una conferma del rapporto
Ward, perchè in essi manca l’analisi dell’effetto dose-risposta, compiuta, come
dice Boffetta, per la prima volta dallo studio multicentrico europeo: e
l’analisi dose-risposta, come affermato anche da Simonato, è fondamentale per
rendere plausibile l’idea di un legame causale.
Ma, elemento
essenziale ai fini della valutazione e controllo del giudice in ordine
all’affidabilità dell’ipotesi scientifica, è che, tra gli studi che hanno affrontato
direttamente il problema degli epatocarcinomi, ve ne sono due che negano, in
modo categorico l’esistenza di una associazione: sono gli studi di Wu (1989) e di Simonato (1991). La presenza di questi studi è da sola
sufficiente ad escludere la necessaria, forte conferma che, come abbiamo visto,
si raggiunge solo quando “ci sono un gran numero di esempi positivi e nessun
esempio negativo”; d’altra parte, proprio l’esistenza dei due studi induce a
pensare che siano indispensabili ulteriori ricerche, volte ad appurare se il
rapporto Ward sia in grado di superare i tentativi di falsificazione. Quindi
corretta la conclusione del Tribunale che ha ritenuto che sul punto debba
essere sospeso il giudizio.
Ancora, sul ruolo concausale del CVM, dell’alcol, del virus
B e C nell’insorgenza dell’epatocarcinoma e nell’insorgenza della cirrosi,
rimarca la difesa le idee non chiare
del P.M. sul concorso di cause, ribadendo che il problema dell’interazione,
cioè del concorso tra due o più antecedenti, può sorgere solo se ciascun
antecedente può essere definito condizione necessaria, e ciò può accadere solo
se sia stata previamente provata la sua idoneità lesiva.
Ciò significa che, poiché, in mancanza della necessaria
conferma scientifica, manca la prova della idoneità del CVM a provocare
cirrosi, il CVM non può diventare una condizione necessaria: resterebbe perciò
inesorabilmente sbarrata la strada al tentativo di ipotizzare un concorso o una
interazione tra CVM e alcol.
Analogamente si contesta il P.M. in ordine alla relazione
esposizione al CVM e tumori al polmone, rimarcandosi l’inconcludenza sia dal
punto di vista della biologia molecolare che degli esperimenti sugli animali
dell’idea della plausibilità biologica, e così l’inapplicabilità, al processo
penale, della “probabilità di causazione”, criterio smentito in modo categorico
proprio dai massimi esperti dell’accusa, a cominciare da Vineis, cui il
Tribunale si richiama (sentenza, p. 132 ss.), per finire a Berrino, Comba,
Bracci, Carnevale.
E si ricorda quanto dichiarato da Berrino, confermato in
dibattimento (ud. 14.12.1999, p. 90): su 3000 casi di tumore del polmone,
sappiamo che circa 1000 casi non si sarebbero manifestati senza l’esposizione
lavorativa. Ma “non sappiamo quali. Naturalmente tutti i nomi sono a disposizione
del magistrato, ma cosa se ne farebbe il magistrato? Tirerebbe a sorte?”.
Queste parole di Berrino sintetizzerebbero il pensiero degli
scienziati di tutto il mondo.
Secondo la difesa, poi, non ha nessun senso pensare
alla probability of causation se non vi è alcuna associazione tra esposizione a
CVM – PVC ed aumentata insorgenza di tumori del polmone, se cioè la esposizione
non possiede la qualità di causa, sul versante della causalità generale.
D’altro lato, lo strumento delle probability of causation
potrebbe essere utilizzato solo in un processo civile, in cui si adottasse la
“versione debole” della regola di giudizio del più probabile che no
(Mastrangelo, in effetti, considera il 50% come soglia del più probabile che
no): nessuno spazio potrebbe essere riservato a quel calcolo in un processo dominato, come il processo
penale, dalla regola dell’oltre il ragionevole dubbio o in un processo civile
in cui si seguisse la versione forte del più probabile che no.
Osserva d’altra parte la difesa che lo studio caso-controllo
di Mastrangelo, cui ha fatto riferimento il P.M., sarebbe privo di validità per
il fatto che, pur trattandosi di tumore del polmone, Mastrangelo non ha tenuto
conto dell’effetto del fumo, cioè non ha tenuto conto del fattore che spiega
oltre il 90% dei tumori polmonari che insorgono nella popolazione. E ciò oltre
agli assunti difetti metodologici dello studio, ed alla mancata conferma delle
cinque ipotesi, inventate da Mastrangelo, sul meccanismo d’azione del PVC.
Irrilevanti sarebbero poi i rilievi formulati dal P.M.
relativamente agli “altri organi”, tumori del laringe, del sistema
emolinfopoietico e del cervello, nonché sui melanomi, rispetto ai quali il P.M.
non porta nessun argomento, nessun documento, nessuna prova da cui si possa
evincere una valutazione insufficiente da parte del Tribunale . E non poteva
essere diversamente: nella motivazione, a p. 152 ss., il Tribunale si fa carico
proprio degli studi e delle conclusioni degli esperti dell’accusa sui tumori
del laringe, del sistema emolinfopoietico, dell’encefalo e dei melanomi.
Quanto al riferimento del P.M. al morbo di Raynaud di Terrin
e Bortolozzo, in realtà vi sarebbe la mancata prova della malattia.
In conclusione sul punto, sostiene la difesa che il processo
non poteva proseguire con l’appello, perché il P.M. non era in grado di
intrattenersi sul nesso di condizionamento e sulla sua prova, perché nel
processo di primo grado gli esperti medico-legali dell’accusa si erano del
tutto astenuti dal pronunciarsi sulla condizione sine qua non ed avevano
concentrato la propria attenzione sulla esposizione al CVM, intesa come causa
idonea, cioè in un modo che non riflette il concetto penalmente rilevante di
causa per il nostro ordinamento.
Nei motivi, in effetti, il P.M. non ci ha mai intrattenuto
sul nesso di condizionamento: questa è la ragione che ha reso inutili tutti i
suoi rilievi.
Non si esime peraltro la difesa dei predetti imputati di
trattare anche il tema della colpa. Sul punto, premesso che alla serie di addebiti, che il capo d’imputazione
articola come addebiti di colpa, l’impostazione d’accusa attribuisce una
duplice valenza: parametri della asserita colpa con riguardo ai delitti con
evento di danno, e condotte costitutive del contestato delitto doloso di cui
all’art. 437 cp., la difesa innanzitutto rimarca che rispetto alle imputazioni di delitti con evento di
danno, la questione della colpa è assorbita dall'infondatezza oggettiva
delle accuse: acclarata l'inesistenza di nesso causale fra gli eventi di
morte/malattia e le condotte ascritte agli imputati EniChem, il problema d'una
loro colpa in relazione a quegli eventi, non da loro causati, non può nemmeno
essere posto. Peraltro anche relativamente a tali addebiti sostiene la difesa
l’insussistenza della colpa e la conclusione
della loro infondatezza è ragione autonoma e autosufficiente d’infondatezza
delle accuse di cui al capo I di imputazione. Rispetto invece alla
contestazione di cui all’art. 437, 1° comma, cp l’inesistenza di violazione di
regole di sicurezza significa inesistenza della stessa condotta costitutiva di
reato.
Anche sul punto dunque la difesa
ripercorre la storia del processo e le ragioni della sentenza di primo grado
che ha ritenuto infondata l’impostazione d’accusa e specificamente
l’infondatezza degli addebiti di colpa, analiticamente quindi esaminando e
contestando gli specifici rilievi svolti dagli appellanti nei loro motivi. In
particolare, vengono ribadite, in forza delle richiamate evidenze processuale,
le conclusioni cui è giunta la sentenza relativamente alla presa di coscienza
del problema CVM solo nei primi anni ’70 ed il relativo crollo delle
esposizioni, nonché la legittimità del sistema di monitoraggio multiterminale
in relazione ai criteri di cui alla normativa di cui al DPR 962/82 attuativo
della direttiva CEE 610/78, ed il buon funzionamento del sistema stesso anche
in relazione alla ricerca e interventi sulle fughe, la tempestività e
adeguatezza degli interventi tecnologici e impiantistici già peraltro
analiticamente ricordati dal Tribunale nella sua sentenza, tema sul quale
controdeduce altresì ai relativi motivi di appello la difesa dell’imputato
Diaz. Rimarcano i difensori l’infondatezza degli specifici addebiti di colpa
connessi agli impianti, attesa la soluzione dei problemi relativi agli ingressi
in autoclave, agli organi di tenuta, agli aspetti gestionali relativi alla
manutenzione, mezzi di protezione individuali, sorveglianza sanitaria e
informazione e formazione dei lavoratori.
Già all’esito del giudizio di primo
grado aveva dunque concluso la difesa sostenendo che la situazione era in
regola con la legge e con le esigenze di sicurezza. Gli interventi già
effettuati dai primi anni ’70 da Montedison avevano risanato gli impianti così
presi in consegna da Enichem nel 1987: le esposizioni a CVM erano
prossime allo zero, largamente al disotto del valore soglia; era in funzione da
oltre un decennio, sotto gli occhi di tutti (comprese le autorità di
controllo), un sistema di monitoraggio mediante gascromatografo, la cui
affidabilità non era in discussione. Durante la gestione EniChem sono stati
introdotti ulteriori miglioramenti, sia impiantistici che gestionali.
E quanto all’impostazione in diritto dell’accusa, che ha
cercato di negare rilevanza al valore soglia normativamente indicato, rileva la
difesa che ovviamente non compete alla sede giurisdizionale mettere in
discussione la legge, alla quale soltanto (art. 101 Cost.) il giudice è
soggetto.
Specificamente poi la difesa contesta i motivi d’appello del
P.M. e dell’avvocato dello Stato relativi ai reati previsti dagli articoli 437,
co.1 e 2, 422 c.p., sostenendo l’infondatezza delle accuse alla motivazione
della sentenza. Intanto, sostiene la difesa, l’infondatezza obiettiva degli
addebiti di colpa di cui sopra potrebbe chiudere il discorso relativo all’art.
437 cp in quanto le questioni di merito concernenti tale reato si sovrappongono
in gran parte a quelle concernenti i suddetti addebiti. Vi sarebbero però
ulteriori ragioni autonome e autosufficienti d’infondatezza dell’accusa di delitto
doloso.
Rispetto alle principali critiche mosse dagli appellanti
alla decisione sul punto del Tribunale, osserva la difesa che:
a) L’evoluzione storica delle conoscenze sulla tossicità del
CVM non ha interesse per la posizione degli imputati EniChem, entrati in scena
a partire dal 1987, quando era ben noto da tempo che il CVM ha effetti tossici.
b) Non è vero che il Tribunale non avrebbe considerato, per
finta o per ignoranza, che il CVM è un epatotossico. Basti pensare alla
affermazione di potenzialità causale dell’esposizione a CVM rispetto
all’angiosarcoma del fegato!
c) Non è vero che il Tribunale abbia negato l'esistenza di
norme a tutela della salute dei lavoratori che sono entrate in vigore prima del
1970, quali i D.P.R. nr. 547/55 e nr. 303/56. Ha, semplicemente, escluso che i
fatti accertati ne costituissero una violazione. L’appello sembra voler
presentare come questione di diritto, invocando norme che nessuno disconosce,
la confutazione che il Tribunale ha fatto relativamente agli assunti fattuali
dell’accusa.
Quanto agli elementi oggettivi dell’art. 437 cp, sostiene la
difesa essere errata l’interpretazione ‘globalizzante’ fornita dal P.M.. Si
osserva che il P.M. prende atto che il
Collegio ha proceduto “ad una
elencazione fondata sul significato lessicale dei vocaboli usati dalla norma
penale”, e su tale premessa ha escluso dalla fattispecie dell’art. 437 c.p.,
già in via di astratto diritto, alcune fra le ipotesi contestate” -in
particolare “tutti quegli strumenti o dispositivi (non collocati per effetto
delle condotte omissive addebitate dall’accusa) che sotto il profilo oggettivo
ritiene non rientranti nel concetto di impianti (“caratterizzati dalla
stabilità”) o nel concetto di apparecchi (“caratterizzati dalla complessità
tecnica”); tutte quelle condotte omissive contestate che ritiene o generiche
per mancata individuazione dell’oggetto su cui cadono (meglio, non cadono), o
non correlabili alla nozione di collocazione di apparecchi antinfortunistici;
tutte quelle condotte omissive contestate che ritiene attinenti a “modalità
operative” e non ad attività di natura preventiva ed antinfortunistica”-. Il
P.M. rimprovera dunque alla sentenza di avere fatto in tal modo tabula rasa
delle imputazioni, secondo una ricostruzione giuridica incomprensibile e senza
senso, dimenticando per strada “anche la fondamentale disposizione dell’art.
2087 c.c., pure contestata nel capo d’imputazione”, ed azzerando altresì
norme speciali quali l’art. 4 del D.P.R. 547/55 e l’art. 4 del D.P.R. 303/56,
che “contengono il principio imprescindibile che impone l’obbligo per il datore
di lavoro di attuare ogni misura diretta ad evitare che la sicurezza e la
salute del prestatore di lavoro possano essere poste in pericolo e/o
danneggiate”.
Il PM propone dunque un’interpretazione dell’art. 437 come
fattispecie onnicomprensiva, che sanziona come delitto qualsiasi violazione
dolosa del dovere di sicurezza, sotto qualsiasi aspetto.
Ma, secondo la difesa, tale interpretazione
‘onmnicomprensiva’ dell’art. 437, riproposta negli atti d’appello, è in
contrasto non soltanto col significato lessicale della formula legislativa, ma
anche con la sua ratio, e non trova alcun conforto in posizioni dottrinali o
giurisprudenziali.
L’interpretazione degli appellanti
azzera del tutto i caratteri, pure esplicitati chiaramente dal legislatore,
della fattispecie tipica dell’art. 437, che incrimina violazioni del dovere di
sicurezza specificamente tipizzate, come si conviene a una norma penale: il
delitto consiste nella omessa
collocazione di apparecchi destinati a prevenire disastri o infortuni sul
lavoro. Non, dunque, in una qualsivoglia violazione del dovere di sicurezza,
diversa dall’omessa collocazione di apparecchi destinati a prevenire disastri o
infortuni sul lavoro.
Invero, dalla rilevanza attribuita alla clausola generale dell’art. 2087, circa l’individuazione dei
doveri di collocazione di date apparecchiature prevenzionali, l’accusa salta
alla conclusione –viziata logicamente- che verrebbero in rilievo, ai fini
dell’art. 437, le violazioni di qualsivoglia obbligo enunciato o desumibile
nelle disposizioni generali.
Rimarca dunque la difesa che, così argomentando, viene
ignorato il dato normativo che per l’interprete della norma penale dovrebbe
essere decisivo, cioè, per l’appunto, il dettato testuale della norma penale,
che almeno su questo punto è inequivoco: l’art. 437 opera una selezione entro
l’area generica dei ‘doveri di sicurezza’, incriminando come delitto doloso
soltanto una particolare categoria di omissioni: cioè, testualmente, l’omessa
collocazione di impianti apparecchi segnali “destinati a ….”.
L’incriminazione come delitto è cioè ristretta a tipi di
violazione del dovere di sicurezza, che il legislatore penale ha ritenuto più
gravi. E questo, non altro, secondo la difesa degli imputati avrebbe inteso
ribadire il Tribunale, parlando di “violazioni del dovere di sicurezza aventi
particolare serietà”. Definendo ‘gratuita’ questa asserzione, gli appellanti
mostrano di non averne capito (o fatto finta di non capire) il senso: la
‘particolare serietà’, cui la sentenza si riferisce, è quella che il codice
penale ha ravvisato nella violazione di obblighi di collocazione di
apparecchiature prevenzionali. Viceversa contra legem sarebbe la conclusione d’accusa, che riconduce alla fattispecie
obiettiva dell’art. 437 qualsiasi violazione del dovere di sicurezza, che se
mai potrebbe essere rilevante solo come
eventuale contravvezione a leggi speciali, e comunque rilevante come
criterio per la eventuale attribuzione di colpa.
E non sarebbero in contrasto con la sentenza del Tribunale
neppure i criteri enunciati nelle sentenze citate dagli stessi appellanti,
criteri che fanno riferimento a qualunque apparecchiatura necessaria per
evitare infortuni sul lavoro, e non (contrariamente ai motivi d’appello) a ciò
che apparecchiatura non è.
Dunque, secondo la difesa, l’azzeramento della tipicità
della fattispecie di cui all’art. 437, stemperata nel generico dovere di
sicurezza, vizia in radice, già in puro diritto, le applicazioni che, nei motivi
d’appello, vengono proposte con riferimento alla quasi totalità dei singoli
addebiti contestati. Il problema d’una ipotetica responsabilità ex art. 437 non
può essere prospettato, se non con riferimento ad addebiti che abbiano ad
oggetto la omessa collocazione di apparecchiature di prevenzione. Per tutti gli
altri addebiti (e sono la quasi totalità) il problema non sorge.
Sarebbero dunque estranei alla problematica dell'art.
437 cp gli addebiti relativi ai mezzi personali di protezione, che certo sono doverosi,
ma la cui violazione non rientra nella fattispecie delittuosa in oggetto non
potendo essere considerati “apparecchi”. Il dovere del datore di lavoro di
fornire ai lavoratori, ove prescritto, mezzi personali di protezione, è cosa
diversa dal dovere di ‘collocare’
apparecchiature di sicurezza, cioè di apprestare, collocandoli là dove devono
svolgere la loro funzione, elementi strutturali del sistema di protezione
dell’ambiente di lavoro.
Altresì estranei all’art. 437 sarebbero gli addebiti
relativi alle modalità operative. Tale ipotesi di accusa, ripresa nei motivi di
appello, annovera cumulativamente ipotesi fra loro eterogenee: gli addebiti di
omissione relativi al blocco degli impianti, al risanamento dei medesimi, alla
manutenzione degli elementi degli impianti più soggetti a deterioramento, alle
misure necessarie a tutelare la salute dei lavoratori, all’emissione dei
provvedimenti conseguenti alla segnalazione dell’Istituto di Medicina del
Lavoro, alla manutenzione in ordine alla sostituzione degli organi di tenuta. A
parte l’infondatezza in fatto, ne sostiene la difesa la non pertinenza in
diritto, quale corollario dei principi giuridici correttamente ricostruiti e
applicati dal Tribunale che ha ritenuto tali addebiti “palesemente non correlabili
alla nozione di collocazione di apparecchi specifici con finalità
antinfortunistica o comunque di prevenzione”.
Infondati sarebbero altresì gli
addebiti relativi al monitoraggio, anche nella prospettiva dell’art. 437 cp.
Secondo la difesa si può ragionevolmente
dubitare che il sistema di monitoraggio rientri nelle tipologie considerate
dall’art. 437. D’altra parte, l’ipotesi d’accusa relativa al
monitoraggio non è di omessa collocazione, ma di avere installato e tenuto in
esercizio un sistema asseritamente imperfetto. Il PM contesta il “mancato monitoraggio di zone di lavoro come
l’insacco, lo stoccaggio e l’essiccamento, ritenute dall’azienda zone non a
rischio”. Le zone di lavoro, cui il PM si riferisce, non sono zone in cui vi
fosse esposizione a CVM, sì invece a polveri di PVC. Il monitoraggio in
continuo non era obbligatorio, ed alle esigenze di prevenzione e controllo del
rischio polveri si è adeguatamente provveduto in altro modo. Il sistema di monitoraggio è stato anche
controllato da pubbliche autorità (cfr. testi Gregio, Iagher: ud. 18.4.00),
che, limitandosi a impartire prescrizioni (prontamente eseguite) di adeguamento
limitatamente ad un aspetto specifico del monitoraggio nel reparto CV22/23
(periodicità delle analisi), hanno preso atto della idoneità complessiva del
sistema. Quanto ad eventuali, occasionali malfunzionamenti, proprio le
segnalazioni di problemi da risolvere confermano l’attenzione che al
monitoraggio del CVM veniva dedicata. Quando si presentavano, i problemi
venivano affrontati e risolti.
Quanto al dolo, l’infondatezza oggettiva dell’imputazione ex
art. 437, avvia a soluzione anche il problema dell’elemento soggettivo. Sul
problema del dolo d’altra parte gli appellanti avrebbero operato un
travisamento facendo leva sulle conoscenze degli imputati quasi ad
identificarle con il dolo.
In realtà, secondo la difesa, la questione del dolo è
concettualmente distinta da quella della conoscenza o non conoscenza degli
obblighi statuiti dalla normativa, da parte del soggetto obbligato. Avuto
riguardo alla struttura del reato omissivo in esame, il dolo del reato di cui
all’art. 437 cod. pen. richiede congiuntamente:
a) la consapevolezza da parte del
garante dei presupposti fattuali dell’obbligo, cioè d’una specifica situazione
di rischio non schermata;
b) la conseguente consapevole volontà
di astenersi dal collocare impianti o apparecchi o segnali, positivamente
rappresentati come necessari a neutralizzare la conosciuta situazione di
rischio.
Sul piano probatorio, trattandosi appunto di provare uno
stato psicologico sulla base di dati esterni, l'accento deve essere posto sulla
consapevolezza della situazione tipica (di pericolo non schermato) che
costituisce il presupposto fattuale dell’obbligo di attivarsi, e sulla
conseguente rappresentazione di un attivarsi possibile in quella data
situazione.
Lasciando da parte ogni questione sulla infondatezza
obiettiva delle accuse, per la difesa a proposito del dolo è sufficiente
osservare che i motivi d’appello non trattano l’essenziale, ciò che è specifico
al profilo soggettivo dell’ipotesi accusatoria. Hanno continuato a discutere
del dovere di sicurezza e di doveri di diligenza, senza minimamente
preoccuparsi di chiarire in che cosa consista l’oggetto del dolo, avuto
riguardo alla struttura del fatto omissivo tipizzato nell’art. 437. In buona
sostanza, i motivi d’appello sembrano confondere con il dolo – che è conoscenza
e volontà d’un concreto fatto di reato - la (doverosa) consapevolezza astratta
dei doveri legali!
In tal modo nei motivi d’appello dell’accusa il problema del
dolo dell’art. 437 non sarebbe nemmeno stato posto.
Sostiene poi la difesa che vi sarebbe un’ulteriore,
autosufficiente ragione d’infondatezza dell’accusa, vale a dire
l’inapplicabilità dell’art. 437 al di fuori del campo della prevenzione di
infortuni, al quale soltanto la lettera della legge si riferisce.
Si osserva che il concetto di infortunio ha un ben preciso
fondamento normativo nel DPR 1124/1965, e già prima nel RD 17 agosto 1935 n.
1765, che si riferiscono a una “causa violenta in occasione di lavoro”, cioè –
come afferma concorde la dottrina – a un “evento traumatico” avvenuto in un
determinato tempo e luogo.
L’utilizzazione, nell’art. 437, del termine tecnico
“infortunio” – implicante un chiaro riferimento alla normativa di settore – non
può ritenersi casuale. Il legislatore ha inteso delimitare la fattispecie
delittuosa alla prevenzione degli infortuni in senso tecnico, lasciando ad
altri strumenti normativi la tutela preventiva da rischi diversi da quello
d’infortunio, e in particolare dal rischio di malattia professionale non
derivata da causa violenta o evento traumatico.
In tal senso si sarebbero espressi gli autori (Fiandaca e
Musco, Vaudano, Nappi, Zagrebelski, Corbetta) che si sono occupati del tema, e
questa delimitazione della fattispecie emergerebbe dalla pronuncia della Corte
Costituzionale (sentenza n. 232/83, Riv. giur. lav. 1983, 403), che in merito
alla questione di legittimità costituzionale dell'art. 437, con riferimento al
principio d'uguaglianza, proprio sulla premessa interpretativa che la norma
penale non comprende gli apparecchi di protezione da malattie, e che da tale
esclusione deriverebbe una ingiustificata diversità di trattamento, ha
dichiarato l’inammissibilità “non essendo
consentito chiedere alla Corte "una pronuncia dalla quale scaturirebbe una
nuova fattispecie penale".
La pronuncia di inammissibilità della questione, con la
motivazione che ne è stata data, sottenderebbe, secondo la difesa,
l’accettazione, da parte del giudice di legittimità delle leggi, della premessa
interpretativa del giudice a quo. Altrimenti sarebbe uscita con una pronuncia
interpretativa di rigetto.
Quanto all’aggravante del disastro, osserva preliminarmente
la difesa che nel presente processo la trasposizione del ‘disastro’ nell’ottica
dell’art. 437 può essere teoricamente prospettata soltanto per quegli aspetti
dell’accusa di disastro che attengono ad ipotizzate conseguenze delle condotte
contestate come violazione dell’art. 437. Può riguardare, cioè, soltanto il ‘disastro’
contestato con riferimento alla gestione dei reparti CVM. Del tutto
irrilevante, sotto questo profilo, sarebbe la modifica dell’imputazione con cui
il PM ha formalmente inserito nel capo 1 l’intero ‘disastro’ descritto nel capo
2, e così unificato l’accusa di disastro per gli imputati di entrambi i capi.
La distinzione deriva dalla struttura logica dell’accusa, anche dopo la sua
riformulazione, ed esclude ogni nesso fra la contestazione ex art. 437 e gli
aspetti del supposto ‘disastro ambientale’ delineati nel capo 2, il cui
contenuto è diverso ed autonomo dal problema della esposizione a CVM e dei
relativi obblighi di sicurezza.
Sostiene poi la difesa che
l’accusa di disastro innominato nasce priva di un contenuto fattuale
specificamente enucleato. Il PM avrebbe
gettato l’art. 434 del codice penale, mescolato a tanti altri, senza
specificare quali siano, nella complessa ipotesi d’accusa, i fatti cui egli
ritenga pertinente la qualificazione giuridica di disastro.
Ma è la tesi in diritto che vieppiù, secondo la difesa, è da
criticare, osservandosi che il discorso del PM procede per slittamenti
successivi: comincia con l’accettare (a parole) l’esigenza di caratterizzare il
disastro come evento di danno; dopo di che, esclude che occorra un danno a persone
o a cose, tagliando fuori in tal modo le ipotesi di danno delle quali il
diritto penale normalmente si interessa, ed aprendo la strada alla riduzione
del cosidetto ‘evento di danno’ a “stato di fatto che renda possibile il
danno”. Con una serie di giochi di parole, il requisito del danno si scioglie
senza residui nel pericolo: “la valutazione del disastro arriva al pericolo e
lì si deve fermare”, scrive il PM in neretto.
L’evento di danno, che pacificamente viene richiesto dalla
dottrina e dalla giurisprudenza perché possa dirsi integrata la fattispecie ex
artt. 434, 2° comma, nell’impostazione del PM viene semplicemente azzerato, con
tentativo, altresì, di scardinamento del principio di responsabilità personale,
in quanto l’asserita responsabilità degli imputati che hanno rivestito
posizione di garanzia dopo il 1973 sarebbe fondata su fatti che riguardano
altri, in ragione di eventi lesivi, connessi ad esposizioni ante 1973, non
riconnessi alla loro condotta.
Circa la questione della configurabilità in diritto della
strage colposa coltivata ancora con specifico motivo dall’avvocato dello Stato,
ed invece abbandonata dallo stesso P.M., ritiene la difesa inconsistente la
tesi per la chiara volontà del legislatore, espressa esplicitamente nella
relazione sul progetto preliminare del codice penale e per la chiara lettera
della legge che fa riferimento all’incendio ed agli altri disastri che seguono
nel capo I del titolo VI.
Parimenti la difesa ritiene palesemente infondata, oltre che
inammissibile per carenza di interesse, l’impugnativa della predetta parte
civile dell’ordinanza 7/4/98 con la quale il Tribunale, decidendo
sull’ammissibilità delle costituzioni di parte civile ha “tracciato il solco
dei c.d. periodi di pertinenza”. Lo scopo di tale impugnativa viene ipotizzato
dalla difesa nel tentativo di superare la considerazione atomistica dei singoli
eventi, intesa a collocare i singoli eventi dentro o fuori del periodo di
competenza di uno o altro imputato. Da ciò il collegamento anche con la strage
colposa relativamente alla quale la predetta parte civile non avrebbe parimenti
interesse. Ma, sostiene la difesa, il tentativo sarebbe assurdo in riferimento
ai principi basilari della civiltà del diritto (in particolare il principio di
personalità della responsabilità).
Specificamente, quanto all’imputazione di disastro,
la difesa di Smai, Pisani e Patron, ripercorre ancora il processo dalla
formulazione dell’accusa alla sentenza di primo grado, ricordando che
inizialmente la contestazione del disastro si era articolata in due diverse
figure che si snodano nei due capi d’imputazione, figure poi trasformate in un
unico disastro permanente con la modifica dell’imputazione di cui all’udienza
del 13/12/2000.
Sostiene dunque la difesa che, quanto all’accusa di disastro
di cui al primo capo d’imputazione, l’infondatezza emergerebbe
dall’insussistenza di elementi essenziali della fattispecie incriminatrice: il
danno a cose, neppure individuato nel capo d’imputazione, ed il danno a persone
rivelatosi insussistente per come evidenziato trattando del rapporto causale,
ma anche il pericolo reale e concreto per la pubblica incolumità, inteso
come“un numero indeterminato di persone che, nel loro insieme, valgono a
comporre la collettività”, la cui assenza sarebbe comprovata dall’assenza di
danni alle persone, danni che non solo non si sono verificati, ma, secondo la
difesa, neppure nei periodi di gestione Enichem avrebbero potuto verificarsi,
sia all’interno che all’esterno dello stabilimento, così come comproverebbero
le relazioni degli esperti della difesa Dragani e Zocchetti sulla “Assenza di
pericoli reali durante la gestione EniChem dello stabilimento di Porto
Marghera”, e una seconda Relazione del prof. Foraboschi sulla “Assenza di
pericoli reali nell’attività dello stabilimento Petrolchimico di Porto
Marghera, nel periodo di gestione EniChem” depositate all’udienza del 20 aprile
2001.
Inevitabile e aderente alle risultane dunque, secondo la
difesa le conclusioni del Tribunale, sull’accusa “simbolo” di questo processo -
ovvero quella di aver cagionato un “disastro”, ritenuta infondata prima di
tutto in fatto e poi anche in diritto.
Ma il P.M., osserva la difesa, anche nei motivi di appello
ignora pervicacemente il fatto e si limita a contestare la lettura che il
Tribunale avrebbe dato del “suo” capo di imputazione. Questo costituirebbe
l’unico motivo di appello rispetto all’accusa di aver provocato un “disastro”:
tanto per quanto riguarda il primo capo di imputazione che per quanto riguarda
il secondo, tanto che si abbia riguardo al disastro di cui all’art. 434 c.p. o
che si rivolga l’attenzione a quello configurato dall’art. 437 co. 2. Per il
resto vi sarebbe l’assoluta mancanza di qualsiasi argomentazione che sia
fondata sulle prove e sui fatti, come emersi dal dibattimento che in alcun modo
evidenziano essersi verificato quell’evento di danno, diffuso e di vaste
proporzioni, per persone e cose, che costituisce l’essenza di questo reato. Non
una riga sarebbe poi dedicata nei motivi d’appello in specifico all’evento di
disastro ambientale.
Osserva al riguardo la difesa che il P.M. parla di
“compromissione ambientale” della laguna prospiciente Porto Marghera, parla di
“contaminazione del suolo, del sottosuolo e delle falde”, ma sempre con
riferimento ai reati di avvelenamento e di adulterazione, senza dedicare una
sola riga a spiegare in che modo questa “compromissione” o “contaminazione”
verrebbe ad assumere i connotati del
supposto “disastro”. In sostanza, la strategia dell’accusa sarebbe
manifestamente quella di negare ogni elemento di fattispecie tipico del
disastro – l’evento di danno “disastroso” in particolare – riducendo questo
reato ad un mero pericolo per la pubblica incolumità interamente sovrapponibile
al pericolo per la salute pubblica previsto dall’art. 440 c.p., ma togliendo
altresì ogni “concretezza” al pericolo per la pubblica incolumità richiesto
dalla fattispecie di adulterazione e quindi – nella logica del P.M. – dal
disastro.
Sostiene però la difesa che tutte le argomentazioni che i
motivi affastellano in tema di avvelenamento e
di adulterazione non riescono in
alcun modo a superare la secca conclusione del Tribunale secondo cui i due
reati non sussistono, perché manca in radice ogni pericolo per la pubblica
incolumità. Conclusione, questa del Tribunale, inconfutabile, dalla quale
discende l’insussistenza dei delitti di avvelenamento e di adulterazione, ma
anche, a maggior ragione, l’insussistenza del disastro “ambientale”. Lineare e
inappuntabile il ragionamento del Tribunale che, nella logica dell’accusa che
riferisce il pericolo per la pubblica incolumità/salute pubblica esclusivamente
al pericolo “alimentare” legato al possibile consumo delle risorse idriche
(falde) o del biota edibile, una volta emerso invece che questo pericolo
“alimentare” – che è l’oggetto delle accuse di adulterazione e avvelenamento -
non sussiste, ritiene a fortiori insussistente anche il disastro. Il disastro,
infatti, richiede anch’esso il pericolo (reale) per la pubblica incolumità, in
aggiunta all’ulteriore elemento specifico del grave danno alle cose e alle
persone.
Il P.M., dunque, non sarebbe riuscito a fornire alcuna prova
della sussistenza del pericolo astratto, proprio dell’avvelenamento, o del
pericolo concreto richiesto dall’adulterazione, e neppure avrebbe tentato di
provare l’evento di danno unito a pericolo concreto per la pubblica incolumità,
che costituisce il connotato tipico del fatto di disastro.
Nello specifico delle contestazioni di avvelenamento e
adulterazione, trattati in sé ma anche per il collegamento con il reato di
disastro nella costruzione “a grappolo” del secondo capo d’imputazione,
sostiene poi la difesa l’inconsistenza del tema del “danno genetico” introdotto
dal P.M., ricordando che la presenza di addotti al
DNA, nell’uomo come nei molluschi, è interpretata, in tutta la letteratura
internazionale, come indice di esposizione e non di danno. Questo sarebbe un
dato talmente pacifico, nella comunità scientifica, che la stessa esperta dell’accusa
Venier, nel corso della sua deposizione (ud. 17.10.2000, p. 65), non ha potuto
fare a meno di confermarlo, dicendo che “l’addotto viene considerato
esposizione avvenuta”.
Vieppiù azzardato sarebbe poi l’ulteriore
passaggio del P.M. che, dato per scontato il danno genetico nei molluschi,
afferma che ragionevolmente “un rischio analogo di modificazione genetica
sussista anche per la collettività umana esposta, direttamente o
indirettamente, alle stesse sostanze tossiche”, rifugiandosi dietro espedienti
verbali quali “non impossibilità del danno genetico”, “risposte biologiche
possibili”, “principio di precauzione”.
Quindi la non impossibilità del danno genetico e
di risposte biologiche non provate che si sostituirebbe al pericolo reale,
senza peraltro neppure una risposta alla domanda in ordine a che modo l’uomo
potrebbe subire un aumento degli addotti al DNA posto che la trasmissione con
la dieta alimentare è scientificamente insostenibile.
Inconsistente la tesi del danno genetico, sostiene altresì
la difesa l’infondatezza delle argomentazioni del P.M. in tema di pericolo
alimentare. Dai dati della realtà, emersi nel corso del processo di primo grado
e dopo la chiusura del dibattimento, emergerebbe in modo incontestabile come di
avvelenamento e/o di adulterazione del biota lagunare non si possa neanche
parlare. Sostiene infatti la difesa che tutti i tentativi del P.M. si
infrangono contro lo scoglio della totale assenza di pericolo per la pubblica
incolumità, confermata dalle ricerche sugli effetti
osservati nell’uomo e nell’animale, dal mancato superamento dei valori massimi
di concentrazione (CL) dei contaminanti, ammissibili per la edibilità dei
molluschi – o dei valori ritenuti normali in tutti i Paesi del mondo, per
quelle sostanze non disciplinate attraverso la previsione di una concentrazione
limite (CL) – nonché dal mancato superamento dei valori di TDI (tolerable daily
intake-dose giornaliera accettabile).
E destinato a naufragare sarebbe altresì il
tentativo del P.M. di sostenere, anche se solo per le diossine, che i valori
riscontrati nelle vongole dei canali industriali, non potrebbero essere
considerati normali. Ancora una volta deporrebbero il contrario i dati della
realtà che hanno portato, dopo la fine del processo, a falsificazione dell’ipotesi
prospettata (con sorprendente parallelismo con la falsificazione operata
dall’OMS, agenzia IARC di Lione, delle ipotesi prospettate nella monografia
IARC dell’87 circa i pretesi effetti cancerogeni del CVM sui tre organo
bersaglio diversi dal fegato): nel luglio 2002, è diventata operativa, nelle
Comunità Europee, una legge (vd. regolamento CE n. 2375/2001 del 29.11.2001,
pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale della Comunità Europea come L. 231/5 del
6.12.2001) che individua la concentrazione limite (CL), proprio per le diossine
(PCDD + PCDF), ammesse nei prodotti ittici, ai fini della loro edibilità e
della loro libera commercializzazione, nell’ambito dei Paesi UE, in 4 pg/WHO
TEQ/g di prodotto fresco, concentrazione che è più di 4 volte superiore a
quella media, riscontrata dagli esperti dell’accusa, nelle vongole dei canali
industriali.
Di ciò non avrebbe tenuto conto nei motivi di
appello il P.M. che parimenti non dedicherebbe neppure un cenno ai risultati
delle ricerche compiute da Pompa ancor prima dell’emanazione della nuova legge,
culminanti nella dimostrazione della assoluta normalità delle concentrazioni di
diossina dei molluschi dei canali industriali, e delle ricerche compiute da
Vighi sulla comparabilità delle concentrazioni delle diossine nei molluschi
pescati nei canali industriali, con le concentrazioni riscontrabili nei pesci
del mare Adriatico e degli altri mari. E osserva ancora la difesa che i motivi
d’appello pure tacciono della recente Raccomandazione della Commissione Europea
(emanata il 4.3.2002 e pubblicata il 9.3.2002 sulla Gazzetta Ufficiale delle
Comunità Europee), relativa alla riduzione della presenza di diossine e furani
nei mangimi e negli alimenti, che, sostiene la difesa, assesta un altro colpo
mortale all’impianto accusatorio faticosamente messo insieme dal P.M..
La Raccomandazione, infatti, suggerisce (senza
peraltro imporlo) un approccio innovativo per affrontare il problema delle
concentrazioni di diossine negli alimenti: tale approccio si basa
sull’introduzione di una nuova classe di livelli di concentrazione delle
diossine negli alimenti, che prendono il nome di “livelli d’azione”, la quale
si distingue dalla classe di valori, ben superiori, presi in considerazione per
la edibilità dei prodotti (definiti “livelli massimi”).
Alla luce della bipartizione introdotta, il
documento della Commissione Europea raccomanda, qualora le concentrazioni di
diossine negli alimenti superino i “livelli d’azione”, l’avvio di indagini per
individuare la fonte di contaminazione dell’alimento, in modo da adottare i
provvedimenti necessari per risolvere il problema. In ogni caso, l’alimento
resta comunque edibile e commerciabile fino a quando la concentrazione di
diossine non supera il “livello massimo”.
Ebbene, per le diossine nei prodotti ittici, il
livello d’azione è fissato in 3 pg/g di prodotto fresco.
Ciò significa che il “valore d’azione”, che già
è ben lontano da quello che determina la edibilità del prodotto, è circa 3
volte superiore a quello medio riscontrato nelle vongole dei canali industriali
(1,0 pg/g), mentre è quasi 7 volte superiore alla concentrazione media (0,45
pg/g) di diossine presente in tutti i molluschi raccolti in laguna (canali
industriali compresi).
Per i parametri europei, quindi, le vongole
raccolte nei canali industriali di Porto Marghera non solo sono edibili, ma la
quantità di diossine in esse presenti è tale da non consigliare nemmeno
l’adozione di provvedimenti urgenti per la bonifica dei siti di provenienza. E
nonostante il ricorso ad espedienti pretestuosi introdotti nei motivi, il P.M.
non è riuscito neanche a dimostrare il superamento dei valori di TDI, previsti
dalle agenzie chiamate a regolare il rischio alimentare.
Quanto agli scarichi del Petrolchimico, contesta la difesa
il tentativo, nei motivi, di rilanciare le tesi di Cocheo, che nulla hanno a
che fare con l’accusa di “disastro”,
tesi secondo la quale i reflui del Petrolchimico dovrebbero essere sottoposti
alla disciplina dei rifiuti e smaltiti come tali.
Sostiene la difesa che al di là dell’inesistenza della
supposta contaminazione da CVM delle acque, sedimenti, falde e fauna e quindi
del solo immaginario pericolo per la pubblica incolumità, il tema è altresì
irrilevante rispetto all’imputazione di disastro o di avvelenamento e di
adulterazione: non c’entra nulla con queste contestazioni. Non c’entra nulla
perché non vi è – e non vi può essere – alcuna contaminazione da CVM
dell’ecosistema lagunare: perché il CVM è assente, ma anche se ci fosse non si
accumulerebbe né nelle acque della laguna, né nei sedimenti e nemmeno nel
biota. Ricorda al riguardo la difesa quanto lo stesso esperto dell’accusa
Cocheo aveva pacificamente ammesso nel giudizio di primo grado: e cioè, che il
CVM “ovviamente” non si accumula nei sedimenti, nei pesci e nelle acque: il CVM
“è un gas che ha una vita abbastanza breve. Nella stessa acqua in realtà,
avendo l'emivita breve, dopo un certo periodo di tempo sparisce”.
Parimenti contesta la difesa il tentativo nei motivi di
appello di rilanciare le tesi di Carrara. Sarebbe infatti insostenibile il
riferimento ai superamenti istantanei risultanti dai bollettini interni e la
perseveranza nel non considerare il carico inquinante. La tesi per la difesa è
infatti priva di rilevanza rispetto al reato di disastro o a quelli di avvelenamento
e di adulterazione, dopo che il prof. Foraboschi ha dimostrato, bollettini di
analisi alla mano, che, nel periodo di gestione EniChem, gli scarichi del
Petrolchimico hanno avuto un impatto ambientale sul corpo recettore inferiore
(di gran lunga inferiore) a quello che avrebbero prodotto scarichi che si
fossero sempre mantenuti entro i limiti tabellari.
Al riguardo si sostiene che dal dibattimento di primo grado
è comunque emerso che:
-
nessuno delle migliaia di bollettini di analisi prodotti
proprio dall’accusa attesta anche un solo episodio che sia lontanamente vicino
a costituire un pericolo per l’ecosistema;
-
tutte le discipline di settore sono concordi nell’affermare
che l’unico criterio valido per valutare l’accettabilità dei contributi di
contaminanti attraverso scarichi idrici è la stima del carico inquinante
(D.P.C.M. 27.12.1988; D.Lgs. 152/1999;
Quaderno 100 dell’IRSA “Metodi analitici per le acque”, 1994, p. 44), che si
basa sull’individuazione di carichi massimi ammissibili rispetto ai corpi
idrici (D.M. 23.4.1998 sulla tutela della laguna di Venezia; la competenza è
affidata alle Regioni, cui spetta fissare la quantità massima per unità di
tempo, per ogni inquinante o famiglia di inquinante, D.Lgs. 152/1999).
Criterio del carico
inquinante del quale non vi sarebbe menzione nei motivi d’appello. Questo per
l’ovvio motivo che il riferimento non poteva che portare ad una conclusione:
l’assoluta irrilevanza non solo dei bollettini interni, ma di tutto il tema
degli scarichi idrici rispetto alle accuse.
Rimarca infine la difesa di Smai Pisani e Patron comunque,
in relazione ai periodi di competenza ed agli specifici ruoli svolti,
l’estraneità degli stessi sia relativamente al primo che al secondo capo
d’imputazione rispetto ai cui fatti in ogni caso non avrebbero dato alcun
contributo causale.
Sui medesimi temi relativi al secondo capo d’imputazione
controdeduce ai motivi di appello altresì la difesa degli imputati Morrione,
Marzollo, Fabbri, Cefis, Grandi, Porta, Gatti, Lupo, D’Arminio Monforte, Calvi,
Trapasso, Diaz, Breichenbach, Sebastiani, Fedato, Gaiba, Belloni, Gritti e
Bottacco, nonché del responsabile civile Montedison S.p.A.., specificamente
confutando, in forza dell’esame delle emergenze processuali le singole
doglianze degli appellanti. In particolare sul tema delle discariche e acque di
falda sottostanti, ricordando come la ricostruzione accolta dal Tribunale sia
aderente alle risultanze dibattimentali ove la sostanziale consonanza delle
voci dei consulenti tecnici e gli studi condotti da enti pubblici, quali il
Magistrato delle Acque, il Comune di Venezia e la Regione Veneto,
avvalorerebbero le considerazioni accolte in tema di stratigrafia e
idrogeologia dei suoli e dei sottosuoli, di andamento di falda, di velocità di
deflusso delle acque di falda e del coefficiente di ritardo con il quale si
muovono gli inquinanti in essa eventualmente presenti, di irrilevanza del
trasferimento orizzontale degli inquinanti nella laguna e nei canali
industriali.
Ma altresì sull’inutilizzabilità delle acque di falda, sugli
scarichi idrici, sul biota e sull’assunzione delle sostanze rinvenute nel biota
dei canali industriali, nonché sull’accertamento di assenza di rischio per
l’incolumità pubblica. Ed anche in diritto, sostanzialmente in conformità alle
argomentazioni della difesa di Smai, Pisani e Patron di cui prima si è detto,
viene rimarcata l’insostenibilità dei rimproveri degli appellanti alla sentenza
con riferimento alla interpretazione e applicazione delle norme incriminatrici;
sostenendo altresì l’inesistenza di normae agendi in materia di gestione di
rifiuti in epoca anteriore all’entrata in vigore del d.P.R. 915/82,
l’inesistenza di un obbligo di bonifica o messa in sicurezza di siti
contaminati da terzi antecessori in epoche pregresse, l’inammissibilità della
qualificazione come “rifiuti” delle acque di processo provenienti dai reparti
CV.
Controdeduce infine la difesa degli imputati, e
contesta, le argomentazioni, oggetto di specifici motivi d’impugnativa, con le
quali il P.M. sostiene la cooperazione colposa fra tutti gli imputati, la
continuazione fra tutti i reati contestati, la permanenza delle contravvenzioni
di cui al II capo d’imputazione e l’insussistenza della prescrizione dei reati
contestati, argomentazioni delle quali preliminarmente la difesa rileva la
strumentalità per creare un collegamento fra le imputazioni individuali, per
tenere in qualche modo insieme fatti e responsabilità sparsi nell’arco di un
trentennio di vita di due diversi gruppi industriali. Una strategia unificante
–massificante- che si sarebbe mossa in due prospettive che si intersecano e si
alimentano reciprocamente nella spasmodica ricerca di uno spostamento in avanti
del tempo di commissione dei reati:
a) da un lato, in senso ‘orizzontale’, l’inserimento
di un numero ampissimo di imputati (ventotto sui trentadue complessivi),
dirigenti sia di Montedison che di Enichem,
in una gigantesca cooperazione colposa, maturata nel corso di tre
decenni;
b) dall’altro, sulla ‘verticale’ dello sviluppo
temporale delle azioni e delle omissioni, l’inclusione di tutti i reati attribuiti a ciascuno degli
imputati nelle figura del reato continuato (la continuazione ‘esterna’ fra i
reati dei due capi funzionerebbe tramite il trait d’union del disastro) e/o –
limitatamente agli imputati coinvolti nel secondo capo d’imputazione -
l’attribuzione del carattere ‘permanente’ alle contravvenzioni ivi contestate.
Sostiene al riguardo la difesa, quanto all’ipotizzata
cooperazione colposa tra tutti gli imputati, che la tesi non regge già all’assunto
con costanza ribadito dalla giurisprudenza in forza del quale “la cooperazione
nel delitto colposo di cui all’art. 113 c.p. si verifica quando più persone
pongono in essere una data autonoma condotta nella reciproca consapevolezza di
contribuire all’azione od omissione altrui che sfocia nella produzione
dell’evento non voluto” (sent. del 25.11.1998, ric. Loparco).
Ora, il solo accingersi nell’impresa di individuare
“reciproche consapevolezze” fra soggetti che si sono alternati, in contesti
organizzativi e normativi diversi, con ruoli diversi, addirittura in gruppi industriali diversi, in un trentennio di
gestione di una realtà industriale gigantesca, avrebbe causato, dopo un
iniziale senso di vertigine, moti di incredulità. Non sorprende, quindi, per la
difesa, che nel processo di primo grado l’esistenza di un qualche legame
conoscitivo fra gli imputati, avente ad
oggetto i rispettivi contributi causali, non sia stata oggetto di alcun
tentativo di dimostrazione da parte dell’accusa, pubblica o privata che sia.
Osserva poi la difesa come il tentativo del P.M. nei
motivi di appello, di superare l’ostacolo cercando di liquidare il predetto
requisito della consapevolezza reciproca, sostenendo essere una restrizione
estranea all’istituto, sarebbe un’assurdità ben colta dal Tribunale che in modo
stringente ma con insuperabile logica ha disatteso la tesi.
Quanto all’ipotizzata continuazione tra tutti i reati
contestati, osserva la difesa come il P.M., a fronte dell’esclusione da parte
del Tribunale in termini generali della configurabilità della continuazione fra
reati colposi, in considerazione del requisito dell’identità del disegno
criminoso, ritenuto compatibile solo con una pluralità di reati dolosi,
sostenga che “la colpa è senz’altro interna e compatibile con la volontà e la
consapevolezza dell’agire economico, delle scelte d’impresa, ecc.: in breve,
con un agire finalistico funzionale ad obiettivi (il profitto, la
massimizzazione della capacità produttiva, il risparmio di costi, ecc.) non
coincidenti certo con eventi lesivi od i fini immediatamente vietati e puniti
dal diritto penale, vale a dire con il dolo in senso proprio delle singole
fattispecie”. Onde, secondo l’accusa, “è senz’altro compatibile, con il
rimprovero di colpa, tanto più se ‘cosciente’, la presenza di un unico ‘disegno
criminoso’, realizzato dalle diverse condotte esecutive, attive od omissive, in
sé finalistiche, anche se non tecnicamente ‘dolose’ rispetto ai singoli fatti
tipici che poi lo integrano”.
Sostiene in contrario la difesa l’erroneità della tesi, osservando che
la verità è che nel contesto dell’art. 81 cpv., i termini “azioni” ed
“omissioni”, posti in essere in “violazione di leggi”, vanno necessariamente
intesi come equivalenti di “reati”. Ne consegue una conclusione ovvia: la
continuazione può esistere solo fra reati dolosi, posto che la mancanza di
volontà dell’evento – che caratterizza tutti i reati colposi – è logicamente
incompatibile con la presenza di un unico disegno criminoso, quale che sia
l’ampiezza che si voglia riconoscere a tale nozione.
D’altra parte, rileva ancora la difesa, l’inapplicabilità
dell’istituto della continuazione ai reati colposi è stata più volte affermata
in giurisprudenza, tanto da potersi dire che sul punto si è formato – come in
tema di cooperazione colposa - un indirizzo assolutamente univoco. E nel senso
dell’incompatibilità argomenta pure la dottrina maggioritaria.
Richiamare oggi i finalisti tedeschi sarebbe pertanto
un’operazione totalmente anacronistica, e d’altra parte neppure avrebbe
individuato il P.M. gli specifici disegni criminosi che avrebbero animato le
condotte degli imputati.
Quanto
all’ipotizzata permanenza delle contravvenzioni contestate nel secondo capo
d’imputazione, sostiene la difesa che l’operazione è, ancora una volta,
totalmente priva di fondamento giuridico. Premesso al riguardo che il secondo
capo d’imputazione è incentrato sulla contestazione, con tempo di commissione
“fino all’autunno del 1995”, dei delitti di avvelenamento, adulterazione e
disastro, e che al suo interno vi trovano menzione anche numerosi riferimenti
normativi che evocano fattispecie contravvenzionali, perlopiù in materia
ambientale, anche se senza una specifica descrizione di condotte corrispondenti
alle contravvenzioni richiamate, sostiene la difesa che con la modifica
dell’imputazione il P.M. ha chiaramente fatto intendere, così come riconosciuto
dal Tribunale con l’ordinanza del 23/1/2001, che i detti riferimenti e quelli
nuovi di cui alla modifica, costituivano mera indicazione di profili di colpa
specifica, e che l’aggiunta della contestazione della permanenza fino al
dicembre 2000 era da riferire solo al disastro.
Dunque, per la difesa, il riferimento alla “permanenza in
atto”, riferito alle contravvenzioni di cui al capo d’imputazione originario,
costituisce nulla più che un maldestro e tardivo tentativo di sollecitare una
pronuncia giudiziale su imputazioni mai ‘coltivate’ dal P.M. durante
l’istruttoria dibattimentale ed in ogni caso riferite a reati abbondantemente
prescritti. Ed una volta che si è verificato l’effetto estintivo, nessuna
correzione in corsa dei temi d’accusa, nessuna improbabile ‘spiegazione’ di
contestazioni irrimediabilmente pasticciate e ambigue può far rivivere realtà
ormai irrilevanti per il mondo del diritto.
Che, del resto, il Pubblico
Ministero non possa strumentalizzare l’istituto delle nuove contestazioni per
far ‘risuscitare’ a proprio piacimento
reati ormai prescritti, è un principio che la giurisprudenza ha avuto modo tempo addietro di riscontrare,
ritenendo che l’accusa non ha questo potere: ritenere diversamente
significherebbe infatti non tenere conto della “natura costitutiva della
contestazione dell’accusa, quale espressione della volontà punitiva dello
Stato” (Cass. 3.11.1987, Cass.pen. 89, 1233; Cass. 19.6.1981, ivi 83, 311).
In conclusione: tutti gli
ipotetici reati suscettibili di rientrare nelle ipotesi contravvenzionali di
cui al capo 2) originario, debbono ritenersi prescritti in quanto – alla
stregua dello stesso capo d’imputazione – si sono esauriti, istantanei o
permanenti che siano, prima dell’autunno del 1995.
Nelle specifico delle fattispecie contravvenzionali, osserva
la difesa che quanto a quella di discarica abusiva il riconoscimento del
carattere permanente del reato di cui all’art. 25 d.p.r. 915 / 1982, scontato
in dottrina e in giurisprudenza. Questo non può però bastare: la permanenza
esiste finché perdurano realizzazione e gestione delle discariche, e nella
specie il funzionamento delle discariche era terminato ben prima del periodo di
gestione Enichem.
Né potrebbe essere condivisa l’interpretazione fornita dal
P.M. in netto contrasto con l’insegnamento delle Sezioni Unite (sent. del
5/10/1994, ric. Zaccarelli) che ha precisato essere estraneo al reato “chi sia
subentrato e si ritrovi l’area con i rifiuti ammassativi da quegli che in
precedenza vi aveva gestito la discarica.
All’attuale detentore non è fatto alcun obbligo di controagire e cioè di intervenire per la
rimozione dei rifiuti dal terreno entrato nella sua disponibilità…”. E
l’insegnamento delle Sezioni unite è stato seguito in termini pressoché
letterali da successive pronunce (Cass. sez. III, 11.4.1997, Riv.pen. 98, 264,
e, nella giurisprudenza di merito, Pret. Terni, 31.1.1995, F.it. 95, II, 347).
Quanto alla tutela delle acque, il Pubblico Ministero ha
invocato una pretesa natura permanente della contravvenzione relativa ai limiti
tabellari di cui all’art. 21 III co. l. 319 / 1976. Questo sulla base di una
massima giurisprudenzale, ancora una volta isolata, che ha agganciato
l’individuata natura permanente ad una singolare presunzione: che “il prelievo
dei campioni evidenzia soltanto il protrarsi di una azione antigiuridica”, con
la conseguenza che “è compito dell’imputato offrire la prova che la permanenza
è cessata per avere gli compiuto atti idonei a tale scopo” (Cass. 21.7.1988, citata a p. 1439 dei
motivi d’appello).
In realtà come perentoriamente affermato dalla Corte
regolatrice, il reato di cui all’art. 21 III co. l.Merli, che consiste nel
superamento dei limiti di accettabilità prescritti, “non può essere ritenuto di
natura permanente, a meno che non si provi in concreto che lo scarico
extratabellare sia continuo, e cioè che l’alterazione della accettabilità
ecologica del corpo recettore si protragga nel tempo senza soluzione di
continuità per effetto della persistente condotta volontaria del titolare dello
scarico” (così Cass. sez. III, 16.11.1993, Riv.pen. 94, 889). E nella specie
l’accusa non avrebbe fornito detta prova.
Quanto all’asserita insussistenza della prescrizione
dei reati contestati, contesta innanzitutto la difesa le argomentazioni in
ordine al “disastro eventualmente progressivo”, osservando comunque che se il
danno alle persone non è elemento costitutivo del disastro, lo spettro della
prescrizione è destinato inesorabilmente
a materializzarsi; se invece ne fa parte, la prova della sua sussistenza
del tutto impossibile.
Erronea sarebbe poi la tesi per
cui l’inosservanza dolosa di cautele antinfortunistiche aggravata dal disastro
sarebbe un reato autonomo. Sostiene la difesa trattarsi di delitto aggravato
dall’evento: la conseguenza non può che
essere la consumazione del reato al momento della condotta, attiva od omissiva,
descritta nel primo comma dell’art. 437, ed il decorrere della prescrizione da
quel momento (nel senso che il verificarsi della circostanza non segna mai il
momento consumativo del reato).
Quanto infine alla ritenuta mancata prescrizione degli
omicidi e delle lesioni colposi, rinvia la difesa a quanto già sostenuto sia
relativamente alla singolarità della concezione del capo d’imputazione, sia
all’inconsistenza della tesi per cui sarebbe configurabile la continuazione fra
reati colposi ed anche fra reati dolosi e reati colposi, siano questi
caratterizzati da colpa incosciente o anche cosciente.
In
conclusione si sostiene che i motivi d’appello redatti dal Pubblico Ministero e
dai difensori delle parti civili sono totalmente infondati, una ingenua
richiesta al giudice di scardinare i termini più elementari del rapporto fra
aspirazioni di politica criminale e regole del diritto penale il cui
accoglimento potrebbe passare solo attraverso il sovvertimento dei principi
basilari del diritto penale liberale.
Con nuovi motivi depositati il 31/1272003, la parte
civile Medicina Democratica ripropone censure alla sentenza di primo grado in
merito al punto relativo alla responsabilità personale degli imputati che si
assume esclusa con motivazione inesistente, omettendo il tribunale di
incontrare la responsabilità degli imputati con riferimento agli uffici
ricoperti nei gruppi societari di appartenenza, formati dalla società di
controllo (holding) e dalle società controllate (società operative). Si
sostiene al riguardo che anche in assenza di una relazione obbligatoria tra
amministratori della capogruppo e amministratori della società controllata si
pone la questione di sanzionare l’abuso della direzione unitaria facendo
ricorso all’istituto della responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 CC;
responsabilità che, si sostiene, potrebbe nel nostro caso essere assimilata a
quella di cui all’art. 2395 CC degli amministratori nei confronti dei terzi
direttamente danneggiati dagli amministratori stessi.
Propone poi ancora detto appellante doglianze in merito
alla conclusione del Tribunale che, escludendo il patto di segretezza tra le
industrie chimiche, sostiene che dalla stessa documentazione prodotta dal P.M.
risulterebbe che il rischio oncogeno era ignorato in tutte le industrie di
produzione sia statunitensi che europee. Secondo il predetto appellante tale
conclusione sarebbe invece contraddetta dai documenti in atti, e, a supporto
allega documenti aventi ad oggetto la ricostruzione dei fatti operata da
studiosi americani.
Infine, ancora si dilunga il predetto appellante sul tema
della causalità generale richiamando i contributi sul tema del proprio
consulente tecnico, prof. Giorgio Forti e sostenendo totale incomprensione
dell’argomento da parte della difesa (specificamentre dell’avv. Stella).
Nuovi motivi aggiunti vengono altresì presentati dal P.M.
con atti depositati il 3 ed il 5 gennaio 2004 con i quali si richiede
rinnovazione del dibattimento per l’acquisizione di studi scientifici e
documenti (elencati negli atti stessi), pubblicati successivamente al novembre
2001 ed all’ottobre 2002, che si riferiscono ai dati ed alle conoscenze
scientifiche sul CVM, che sarebbero rilevanti nell’ambito della presente
vicenda giudiziaria.
In merito a tali motivi aggiunti e richieste di
rinnovazione dibattimentale, controdeduce ancora, con specifiche memorie
depositate il 17/1/2004, la difesa degli imputati Smai, Pisani e Patron. In
proposito, premessa l’eccezionalità della rinnovazione del dibattimento in
appello che sarebbe ancorata alla decisività anche qualora si indichino prove
sopravvenute alla sentenza di primo grado, si sostiene che un tale requisito
difetterebbe nella specie laddove i nuovi elementi forniti dal P.M, riguardano
solo alcuni punti specifici e circoscritti, fra i tanti che la sentenza del
Tribunale ha esaminato: le basi probatorie della decisione, rappresentate dalla
miriade di prove testimoniali e documentali, e da confronti a tutto campo fra i
consulenti dell’accusa e della difesa, non sono messe rimesse in discussione, e
sono solo vagamente sfiorate in alcuni punti.
Non potrebbero dunque i selezionati documenti e studi
recenti su presunti effetti del CVM, che non riguardano le condizioni di lavoro
nei reparti CV e gli eventi specifici di cui all’imputazione, essere
considerati indispensabili ai fini della decisione, cosa sulla quale neppure si
è dilungato il P.M. nell’avanzare la richiesta, neppure illustrando il
contenuto dei documenti elencati. Ma se già inaccoglibili sotto il predetto
profilo sostanziale, le nuove richieste istruttorie del P.M. sarebbero altresì
inammissibili in rito in quanto carenti della necessaria illustrazione delle
ragioni di diritto e degli elementi di fatto che le dovrebbero, appunto a pena
di inammissibilità dei motivi, e quindi anche di quelli aggiunti, supportare,
rilevandosi altresì la tardività dei nuovi motivi depositati il 5 gennaio 2004,
senza il rispetto del termine libero di 15 giorni prima della data del giudizio
di appello che varrebbe anche per le prove sopravvenute. Nel merito comunque
detta difesa esamina e contesta le conclusioni cui il P.M. vorrebbe pervenire
sulla scorta dei nuovi documenti. Infine rimarca come nessun valore potrebbero
avere, anche in tal caso per difetto di decisività, i documenti allegati ai
nuovi motivi dalla parte civile Medicina democratica che neppure ha formulato
richiesta di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, onde gli stessi
vanno senz’altro esclusi.
Aperto il giudizio di appello, si procedeva
preliminarmente a correzione dell’errore materiale relativo alla rubrica della
sentenza di primo grado. Venivano quindi decise da parte della Corte, come da
relative ordinanze in atti cui si rimanda, la preliminare eccezione avanzata
dalla difesa del responsabile civile Edison S.p.A. con adesione da parte delle
altre difese degli imputati, d’incostituzionalità del potere di appello di P.M.
e Parte Civile a seguito di sentenza assolutoria, questione dichiarata
manifestamente infondata, nonché, dopo la relazione e mutazione del collegio
conseguente ad, accolta, ricusazione di uno dei suoi componenti, le richieste,
preliminarmente discusse, di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale con
relative questioni in fatto e in diritto, richieste integralmente rigettate per
i motivi esposti analiticamente nella relativa ordinanza che qui deve
intendersi integralmente riportata e ribadita.
Si procedeva dunque a finale discussione nel corso della
quale gli appellanti concludevano per l’accoglimento dei motivi d’appello,
mentre i difensori degli imputati e responsabili civili insistevano per la
conferma dell’impugnata sentenza.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Va innanzitutto dichiarata l’estinzione dei reati ascritti
nei confronti degli imputati Cefis Eugenio e Sebastiani Angelo a sensi degli
artt. 531 cpp e 150 cp, estinzione che esime da valutazione di merito. Invero,
i predetti, come risulta dai relativi certificati in atti, sono deceduti nelle
more del giudizio di appello, il Sebastiani in data 27/8/2003, ed il Cefis in
data 25/5/2004.
Quanto al merito delle impugnazioni, osserva preliminarmente
la Corte che circa la doglianza del P.M. di NON CORRETTA
INTESTAZIONE DELLA SENTENZA per avere il Tribunale omesso di riportare
l'integrale capo d'accusa, e in particolare la corretta formulazione dei capi
d’imputazione come modificati con le contestazioni formulate ex art. 517 c.p.p.
nel corso delle udienze dibattimentali dell’ 8 luglio 1998 e del 13 dicembre
2000, la stessa, atteso che la sentenza, sia nel dispositivo che nella
motivazione era rispondente alle finali contestazioni, evidenzia
sostanzialmente un mero errore materiale della rubrica della sentenza di primo
grado, che anziché riportare le imputazioni come appunto modificate ex art. 517
cp dal P.M., riportava le originarie imputazioni di cui al decreto che
disponeva il giudizio. Alla relativa correzione questa Corte, giudice competente
ex art. 130 cpp, ha provveduto preliminarmente in udienza nel contraddittorio
tra le parti con ordinanza dettata a verbale.
Nella disamina dei motivi d’impugnazione è poi ancora utile
affrontare separatamente le questioni relative ai reati di cui al primo capo
d’imputazione e quelle relative al secondo capo.
I° CAPO D’IMPUTAZIONE
Si tratterà delle problematiche dirimenti rispetto agli
specifici motivi di appello, evidenziandosi fin d’ora che la sentenza del
Tribunale deve intendersi qui non solo conosciuta, così come tutti gli atti di
causa, ma altresì integralmente trascritta, sì che possa ritenersi fatta
propria da questa Corte nelle parti specificamente non oggetto di diversa
ricostruzione e/o valutazione. Con l’obiettivo di consentire, così come nello
scopo della motivazione della sentenza secondo la previsione normativa –artt.
190, 1° co., 546, lett. e, cpp-, la comprensione da parte dei soggetti del
processo delle ragioni in fatto e in diritto che logicamente portano alla
decisione enunciata nel dispositivo. Lungi ogni velleità di rifare riassunti di
atti e prove ovvero non richieste ennesime ricostruzioni dottrinarie e
giurisprudenziali di istituti giuridici, laddove invece sarà sufficiente
enunciare, sempre funzionalmente al controllo del processo logico decisionale,
il fatto ritenuto con riferimento alla fonte probatoria e la tesi in diritto
cui ci si ispira, che può coincidere con quella sostenuta da una delle parti,
onde la regola della concisione ben può imporre richiamo piuttosto che prolissi
tentativi di ridire diversamente le stesse cose.
La disamina dei motivi di gravame passerà attraverso la
valutazione della sussistenza o meno, nei suoi elementi oggettivi e
psicologici, dei reati contestati e degli istituti invocati dagli appellanti,
che ovviamente assorbirà ogni specifica doglianza, muovendo dalla prioritaria
questione relativa alla causalità in ordine ai reati di omicidio colposo e
lesioni personali colpose che, strettamente connessa alle caratteristiche di
pericolosità e concreta nocività del CVM e del PVC, è funzionale poi alla
valutazione anche dei restanti reati contestati nel primo ma anche nel secondo
capo d’imputazione.
I REATI DI CUI AGLI ARTT. 589 – 590
C.P. : problematica della CAUSALITA’.
Circa i reati di cui agli ARTT. 589 - 590 C.P. ed alla
problematica della causalità, si sono già ricordati, ma giova qui richiamarli
per il necessario confronto con le tesi sostenute dagli appellanti,
controdedotte a loro volta dalle ampie argomentazioni della difesa degli
imputati, i principi di diritto ai quali il Tribunale si ispira, assumendo di
uniformarsi ai più recenti e più rigorosi orientamenti della giurisprudenza
della S.C. così enucleandoli dopo excursus anche relativo alla giurisprudenza
nordamericana:le esigenze di certezza e garanzia, il rispetto dei principi di
legalità e personalità della responsabilità penale, di rango costituzionale,
devono essere
soddisfatti mediante
il mantenimento di un rigoroso modello causale ove il rapporto di
condizionamento sia spiegato o da leggi universali, secondo il modello
nomologico-deduttivo, o da leggi di copertura scientifico-statistiche, secondo
il modello statistico-induttivo. Anche le leggi statistiche possono essere
utilizzate nella spiegazione dell’evento purché il coefficiente percentualistico
consenta di inferire l’explanandum con quasi certezza sulla base di una
relazione logico-probabilistica, e, al tempo stesso, si possa razionalmente
escludere che l’evento si sia verificato nel caso concreto per cause esclusive
diverse dalla condotta dell’agente;la mancanza di certezze scientifiche o
comunque di consenso generalizzato nella comunità scientifica non legittima il
ricorso a criteri meramente probabilistici di grado difficilmente
determinabile, ancorché qualificato “alto” o “elevato”.
Il ricorso a tali criteri rischia infatti di introdurre
nell’accertamento del nesso causale un libero convincimento del giudice, sia
pure nobilitato dallo scopo di soddisfare esigenze ed attese di giustizia;dalle scienze e dai limiti di
conoscenza che esse pongono non si può prescindere; si può solo pretendere
l’adozione dei seguenti rigorosi criteri:
1) le inferenze causali devono essere tratte dalle
scienze che attraverso un rigoroso e corretto metodo scientifico apportino una
effettiva e affidabile conoscenza scientifica;
2) l'affidabilità delle conoscenze, sia pure suscettibili in
futuro di ulteriori apporti che possono modificarle o addirittura falsificarle,
è determinato dalla validazione che riceve e dalla accettazione generale o
preponderante nella comunità scientifica nonchè dalla verifica empirica delle
sue spiegazioni mediante il controllo dell'ipotesi attraverso la confutazione
così da raggiungere una "corroborazione provvisoria ";
3) le conclusioni debbono essere comunque verificate
nel loro progressivo evolversi e sempre confrontate con quelle di altre
discipline per accertare la coerenza complessiva del risultato raggiunto ;
4) l’incertezza scientifica che dovesse, comunque,
residuare va risolta sia nell'ambito del rapporto causale sia nell'ambito della
imputabilità soggettiva secondo la regola di giudizio che la responsabilità
deve essere provata " oltre il ragionevole dubbio ", regola di
giudizio che oramai fa parte del nostro ordinamento;
5) la causalità generale, intesa come idoneità della
sostanza chimica a produrre certi tipi di evento, non può essere ritenuta di
per sé sufficiente a spiegare il nesso causale tra la malattia che ha colpito
il singolo soggetto e l’idoneità della sostanza a causarla. L’accertamento
della causalità non può essere ricavato dal solo fatto che la condotta abbia
aumentato il rischio del verificarsi dell’evento. Ciò implicherebbe una
illegittima confusione tra il piano soggettivo e quello soggettivo, facendo
dedurre l’attribuibilità dell’evento lesivo dall’inosservanza di norme
cautelari;
7) gli studi
epidemiologici, avendo ad oggetto popolazioni generali e proponendosi scopi
preventivi di tutela della salute pubblica, non sono assolutamente in grado di
spiegare la causalità individuale e cioè di attribuire i singoli eventi lesivi
a singoli comportamenti.
Già in merito a questi principi si è
visto come specifiche censure all’interpretazione del nesso causale fornita dal
Tribunale siano mosse dagli appellanti ed in particolare dal P.M., che, a
seguito della sentenza n. 30328 del 10.7/11.9.2002 emessa dalle Sezioni Unite
della Corte di Cassazione sopravvenuta nelle more, sostiene come proprio tale
citata pronuncia permetterebbe di evidenziare i gravi errori commessi dalla
sentenza impugnata.
Contesta conclusivamente il P.M. il modello assunto dal
Tribunale secondo il quale di fronte all’incertezza scientifica non resta che
ricorrere alla regola di giudizio che la responsabilità deve essere provata oltre
il ragionevole dubbio, conclusioni che sarebbero erronee e che non possono
essere accettate prima di tutto e proprio alla luce del criterio offerto dalle
SSUU della Corte di Cassazione che non assumono affatto il modello causale
invocato dal Tribunale di Venezia, potendosi invece, secondo il P.M., così
schematizzare il ragionamento seguito dalla Suprema Corte:
5)
il processo penale, passaggio cruciale e obbligato della
conoscenza giudiziale del fatto di reato, è sorretto da ragionamenti probatori
di tipo inferenziale induttivo che partono dal fatto storico, rispetto ai quali
i dati informativi e giustificativi della conclusione non sono contenuti per
intero nelle premesse, essendo dipendenti da ulteriori elementi conoscitivi
estranei alle premesse;
6)
lo stesso modello condizionalistico orientato secondo leggi
scientifiche non può, d’altra parte, spiegare in via deduttiva la causalità,
perché è impossibile per il giudice conoscere tutti gli antecedenti causali e
tutte le leggi pertinenti;
7)
il giudice ricorre, invece, nella premessa minore del
ragionamento ad una serie di “assunzioni tacite”, presupponendo come presenti
determinate “condizioni iniziali” e “di contorno” non conosciute o solo
congetturate sulla base delle quali mantiene validità l’impiego della legge
stessa;
8)
non potendo conoscere tutte le fasi intermedie attraverso
cui la causa produce il suo effetto, né potendo procedere ad una spiegazione
fondata su una serie continua di eventi, il giudice potrà riconoscere fondata
l’ipotesi ricostruttiva formulata in partenza sul nesso di condizionamento tra
condotta umana e singolo evento soltanto con una quantità di precisazioni e
purché sia ragionevolmente da escludere l’intervento di un diverso ed
alternativo decorso causale;
9)
ove si ripudiasse la natura preminentemente induttiva
dell’accertamento in giudizio e si pretendesse comunque una spiegazione causale
di tipo deterministico e nomologico-deduttivo, secondo criteri di utopistica
“certezza assoluta”, si finirebbe col frustrare gli scopi preventivo-repressivi
del diritto e del processo penale in settori nevralgici per la tutela di beni
primari;
10)
tutto ciò significa che il giudice è impegnato
nell’operazione ermeneutica alla stregua dei comuni canoni di “certezza
processuale” conducenti ad un giudizio di responsabilità enunciato dalla
giurisprudenza anche in termini di “elevata probabilità logica” o “probabilità
prossima alla – confinante con la – certezza”.
A questo punto si può già rilevare, secondo il P.M., il
netto distacco tra la tesi sostenuta dal Tribunale (viziata da gravi errori di
interpretazione) e i principi espressi dalle Sezioni Unite del Giudice di
legittimità che afferma come “non è sostenibile che si elevino a schemi di
spiegazione del condizionamento necessario solo le leggi scientifiche
universali e quelle statistiche che esprimano un coefficiente probabilistico “prossimo
ad 1”, cioè alla “certezza”, quanto all’efficacia impeditiva della prestazione
doverosa e omessa rispetto al singolo evento”.
Qui, si sostiene, il punto cruciale enucleato dalla Suprema
Corte: “E’ indubbio che coefficienti medio-bassi di probabilità c.d.
frequentista per tipi di evento, rivelati dalla legge statistica, impongano
verifiche attente e puntuali sia della fondatezza scientifica che della
specifica applicabilità nella fattispecie concreta. Ma nulla esclude che
anch’essi, se corroborati dal positivo riscontro probatorio, condotto secondo
le cadenze tipiche della più aggiornata criteriologia medico-legale, circa la
sicura non incidenza nel caso di specie di altri fattori interagenti in via
alternativa, possano essere utilizzati per il riconoscimento giudiziale del
necessario nesso di condizionamento.
Viceversa, livelli elevati di probabilità statistica o schemi
interpretativi dedotti da leggi di carattere universale, pur configurando un
rapporto di successione tra eventi rilevato con regolarità o in numero
percentualmente alto di casi, pretendono sempre che il giudice ne accerti il
valore eziologico effettivo, insieme con l’irrilevanza nel caso concreto di
spiegazioni diverse, controllandone quindi l’”attendibilità” in riferimento al
singolo evento e all’evidenza disponibile.
Ecco allora, secondo il P.M. appellante, il distacco del Tribunale di
Venezia dal principio enunciato dalle Sezioni Unite. Si osserva infatti che la
sentenza impugnata sostiene che l’incertezza scientifica va provata oltre il
ragionevole dubbio, ma così facendo si ferma ad un passaggio precedente, che
priva il suo ragionamento proprio di quella natura rigorosa che voleva
attribuirgli, e non è in grado di arrivare alla conclusione decisiva che le
Sezioni Unite raccomandano: quella per cui è l’incertezza del riscontro
probatorio che va provata oltre il ragionevole dubbio.
Il Tribunale si sarebbe fermato al riscontro scientifico e
non avrebbe valutato il riscontro probatorio dell’istruttoria dibattimentale,
mancando comunque di verificare i dati delle scienze con i riscontri probatori
del processo.
Sostiene il P.M. che mentre per il Tribunale il giudizio
finale di probabilità causale in presenza di una legge statistica con
coefficiente medio-basso deve essere risolto secondo la regola dell’oltre il
ragionevole dubbio, per le Sezioni Unite una legge statistica con coefficiente
medio-basso può costituire legge di copertura se corroborata dal positivo
riscontro probatorio.
Controdeducendo su tutti i predetti temi, i difensori degli
imputati sostengono peraltro, così come pure sopra ricordato, l’assenza del
nesso di condizionamento, la cui prova mai sarebbe stata fornita dal P.M. che
ancora nei motivi d’appello non coglierebbe il punto focale del giudizio; da
ripudiare essendo la tesi dell’accusa che, ignorando ostentatamente le
prescrizioni in diritto, si attesterebbe su un concetto di possibilità o
probabilità della condizione necessaria estraneo al principio imperante secondo
il quale “in tanto sussiste il rapporto causale in quanto la condotta (azione
od omissione) sia condizione necessaria dell’evento lesivo”, e non condizione
idonea o condizione dell’aumento del rischio.
Contesta nello specifico la difesa degli imputati l’asserita
coincidenza delle tesi di accusa sul nesso causale con i criteri enunciati
dalle Sezioni Unite della Corte Suprema, osservando che l’approdo al concettodi
condizione necessaria, come condizione dell’aumento del rischio o delle
probabilità del verificarsi
dell’evento, o della mancata diminuzione del rischio e delle probabilità
sarebbe in realtà in insanabile contrasto con gli enunciati delle Sezioni Unite
relativi alla condizione necessaria dell’evento lesivo e al ripudio
dell’aumento o della mancata diminuzione del rischio, criterio estraneo al
nostro ordinamento che rifiuta altresì clausole indeterminate e manipolabili,
quali quelle relative alle serie o elevate probabilità dell’esistenza del nesso
di condizionamento.
Sostiene ancora la difesa che quanto al “passaggio dal piano
deterministico a quello probabilistico”, improprio deve appunto considerarsi,
come riconosciuto dal Tribunale che avrebbe sul punto anticipato l’insegnamento
delle SS.UU., l’uso della probabilità logica o credibilità razionale con
riguardo a materie in cui sono in gioco esigenze di tutela di beni fondamentali
quali la salute e la vita umana, così erodendo però il paradigma causale che
deve fondarsi su parametri logico-scientifici oggettivi, e non su formule
indeterminate e indeterminabili, e quindi manipolabili, quali quelle relative
al grado di probabilità, ancorché definito alto.
E parimenti anticipatoria rispetto alla sentenza delle
Sezioni Unite è l’affermazione per la quale “la responsabilità deve essere
provata secondo la regola di giudizio dell’oltre il ragionevole dubbio, regola
che ormai fa parte del nostro ordinamento” (sentenza, p. 148): le Sezioni Unite
diranno che “il plausibile e ragionevole dubbio, fondato su specifici elementi
che, in base all’evidenza disponibile, lo avvalorino nel caso concreto ... non
può non comportare la neutralizzazione dell’ipotesi prospettata dall’accusa”.
Errata sarebbe
dunque l’affermazione del P.M., secondo la quale le Sezioni Unite non
assumerebbero affatto il “modello causale” invocato dal Tribunale di Venezia
(p. 792), giacché, per i giudici di Venezia, sarebbero rilevanti, per la
spiegazione dell’evento, anche leggi scientifiche di forma statistica, purché
la frequenza consenta di inferire l’explanandum con quasi certezza mentre, per
le Sezioni Unite, sarebbero sufficienti coefficienti medio bassi di probabilità
frequentista.
In realtà, sostiene la difesa, il Tribunale avrebbe cercato
proprio di individuare un modello causale al tempo stesso compatibile con il
nostro ordinamento e idoneo a includere
non solo le spiegazioni nomologico-deduttive provviste di certezza, ma anche le
spiegazioni offerte dalla scienza secondo un modello statistico-induttivo che
colloca l' approccio nomologico nello specifico contesto che valorizza la
ricerca e l'analisi di tutti i fattori presenti e interagenti (Hempel): in tale modo anche le leggi
statistiche sarebbero in grado di
spiegare che un evento si è verificato a
patto che la frequenza consenta di inferire l'explanandum con quasi
certezza sulla base di una relazione logico-probabilistica” – il Tribunale di
Venezia non richiama più il criterio del coefficiente percentualistico
vicinissimo a 100, ma si attesta, con decisione, sull’idea di “regola di natura
probabilistica” tale da consentire una generalizzazione sul nesso di
condizionamento ricavabile dalla epidemiologia, dalla biologia molecolare,
dalla tossicologia e dalla medicina legale.
Il Tribunale avrebbe d’altra parte tenuto conto
dell’evidenza, della certezza processuale per operare le verifiche “attente e
puntuali” richieste dalle Sezioni Unite. Anzi la sentenza del Tribunale di
Venezia risulta addirittura molto più chiara, corretta e comprensibile della
sentenza delle Sezioni Unite. Infatti anche il Tribunale di Venezia non
considera inutilizzabili frequenze molto basse nella successione di eventi
singoli, come sono quelle relative alla successione tra alte esposizioni a CVM
e insorgenza dei singoli angiosarcomi, ma procede necessariamente
all’individuazione delle verifiche attente e puntuali: le Sezioni Unite non precisano
quali siano queste verifiche, pur ritenendole indispensabili; il Tribunale di
Venezia lo precisa, collegando la verifica attenta e puntuale al calcolo della forte
associazione tra rischio ed esposizione.
E facendo buon
governo della regola, invece fraintesa dal P.M. dell’oltre il ragionevole
dubbio: regola probatoria e di giudizio, propria di tutti i sistemi processuali
dei Paesi democratici in forza della quale se su una prova, sul riscontro di un
fatto, su una conoscenza scientifica (indispensabile per la sentenza di
condanna) sussiste un dubbio ragionevole, il giudice non ha alternative diverse
dal proscioglimento. E sarebbe altresì sfuggita al P.M. l’importanza della
precisazione del Tribunale in ordine alla necessità di verificare, sotto tale
ottica, l’affidabilità di una ipotesi scientifica (ad esempio, l’ipotesi
formulata da IARC 1979 – 1987 sul legame causale tra CVM e i tre organi
bersaglio diversi dal fegato).
E’ un problema non da poco, giacché, se il sapere scientifico
di oggi può diventare la favola di domani, il rischio di condannare degli
innocenti è sempre incombente quando, tra le prove di un processo penale, debba
essere annoverato anche il sapere scientifico.
Premesso quanto sopra in diritto, la difesa sostiene che
proprio in ordine alla condizione necessaria l’accusa abbia proposto un “grande
buco nero”, mai provando il nesso di condizionamento tra malattie e tumori ed
esposizione al cvm, atteso che le stesse diagnosi individuali degli esperti
medico-legali si sono limitate alla idoneità lesiva, ancorate quindi alla
causalità generale.
Ed ancora nei motivi non esisterebbe neppure l’ombra di un
accenno al nesso di condizionamento. Fallito infatti anche il tentativo di
ricostruzione della catena causale per l’incertezza scientifica sul punto
emersa dall’esame degli stessi consulenti dell’accusa e soprattutto del dott.
Simonato, il P.M. nei motivi butta lì,
scritta in grassetto, l’affermazione delle Sezioni Unite, secondo la quale “non
potendo conoscere tutte le fasi intermedie attraverso cui la causa produce il
suo effetto, nè potendo procedere ad una spiegazione fondata su una serie
continua di eventi, il giudice potrà riconoscere fondata l’ipotesi
ricostruttiva formulata in partenza sul nesso di condizionamento tra condotta
umana e singolo evento, soltanto con una quantità di precisazioni” (p. 793).
Per la difesa il P.M. dimostra però di non aver compreso
detta affermazione avallando un’interpretazione palesemente erronea del
pensiero delle Sezioni Unite. La loro sentenza, infatti, fa una osservazione
ovvia e banale: non si può pretendere che il giudice conosca tutte le fasi
intermedie e tutta la serie di eventi continui nel tempo e contigui nello
spazio che collegano l’evento iniziale con l’evento finale.
Dicendo “tutte”, però, la Corte Suprema vuole dire che è
sempre possibile, invece, l’individuazione di alcune fasi intermedie, di alcuni
anelli causali. E in effetti sarebbe sempre possibile una spiegazione parziale
del “meccanismo del fenomeno”, parziale ma sufficiente per l’attribuzione
causale dell’evento lesivo.
Ma nella specie nessun esperto dell’accusa sarebbe riuscito
a sostenere di aver individuato “l’anello causale intermedio” che, attraverso
una spiegazione parziale, consente l’attribuzione della responsabilità. E così,
difettando la prova che l’esposizione a cvm sia condizione necessaria delle
patologie non riconosciute dal Tribunale, è un falso problema quella della
concausa ancora sostenuto nei motivi di appello dal P.M. cui, si sostiene,
sfugge completamente una nozione basilare come è quella che concerne la
relazione tra la nozione di condizione necessaria e quella di causa
sufficiente. Né potrebbe sostenersi che il ruolo causale del cvm sarebbe fuori
discussione, avendo in ogni caso “accelerato i processi patologici sfociati
nelle malattie cancerose del fegato e del polmone”. Sarebbe questa
un’affermazione del tutto sfornita di prova, ennesima dichiarazione non
veritiera del P.M., così come sarebbero sfornite di elementi scientifici di
supporto i tentativi del P.M. di ricondurre l’asbesto e il CVM ad un unico
meccanismo di azione, e di contestare quanto recepito dal Tribunale in forza
dell’evidenza processuale, e cioè che il CVM fosse un cancerogeno iniziante con
idoneità lesiva solo ad elevate esposizioni.
Ora, queste le posizioni delle parti
rispetto ai principi espressi dal Tribunale in ordine alla problematica in
oggetto, osserva la Corte come il Tribunale in ordine alla causalità ha seguito
pedissequamente la costruzione dogmatica, ma altresì le linee interpretative ed
i percorsi di studio dipanatisi anche sull’esperienza e principi ricavabili
dalla giurisprudenza, penale e civile, nordamericana, proposte dalla difesa
Pisani (non vuole ovviamente essere questa una censura sul metodo
motivazionale, atteso che se convinto della bontà di un certo argomentare il
giudice può ben farlo proprio e come tale riproporlo, salvo la continenza in
relazione alla funzione della motivazione della sentenza che dovrebbe sempre
guidare senza indugiare nei percorsi che le tesi dottrinarie riproposte hanno,
queste sì legittimamente per la funzione didattica di ampio respiro anche
comparativistico, seguito nelle relative opere). Ne dà immediata evidenza la
stessa massimazione operata relativamente all’estratto della sentenza di primo
grado pubblicata sulla rivista Cassazione Penale (anno 2003, pagg. 267 e
segg.), dalla quale si ricavano, praticamente alla lettera, proprio i principi
espressi in materia nelle opere dottrinarie fornite, insieme alle memorie,
dalla suddetta difesa.
Ed ecco allora che in tale costruzione si comincia con il
distinguere la causalità generale dalla causalità individuale. Ora, osserva la
Corte, non è che si vuole dare un particolare peso a tale distinzione quasi a
volerla ritenere concettualmente non corretta. Ben se ne comprende la ratio di
fondo che è certo condivisibile; ma tant’è, nel nostro ordinamento, come ha
puntualizzato nella sua arringa il Maestro Marcello Gallo, la causalità, ai
fini penali, è una: quella in forza della quale si può dire, ex artt. 40 e 41
c.p., che una determinata azione od omissione, ha determinato, è conditio sine
qua non dell’evento dannoso o pericoloso da cui dipende l’esistenza del reato;
il nesso di condizionamento che collega il comportamento, contestato
all’imputato, all’evento integrante il reato.
Si vuole subito ovviamente rendere
giustizia anche alla difesa Pisani che ha insistito proprio sulla necessità di
provare detto nesso di condizionamento, ma tanto si è voluto precisare perché
la Corte parlerà meramente di causalità, di nesso di condizionamento, ben
essendo coscienti che punto di partenza, per la verifica della sussistenza di
tale elemento, è la verifica dell’idoneità (la causalità generale della difesa
Pisani e del Tribunale) del CVM ad arrecare le conseguenze lesive che integrano
i reati contestati, idoneità che, ancora come giustamente ad oltranza ribadito
dalla difesa Pisani, non è poi esaustiva per attribuire le conseguenze di tal
genere, che nella specie interesserebbero le parti offese individuate in
imputazione, alle azioni od omissioni degli imputati, se non si prova che
proprio dette azioni ed omissioni abbiano determinato l’azione dell’effetto
nocivo, nella specie, del CVM, e che di fatto proprio quest’effetto nocivo sia
specificamente causa degli eventi dannosi considerati, che per avventura, nella
loro specificità e peculiarità, potrebbero essere imputabili ad un diverso
fattore causale neppure collegato al CVM. Questi, sinteticamente, i concetti
che si ritengono rilevanti e di applicazione nel caso di specie; e questo
dunque il punto di approdo della Corte che nulla di originale elabora, onde non
occorre certo in questa sede dilungarsi nelle teorie del diritto, tesi ed
approcci dottrinari e giurisprudenziali che lo giustificano.
Il problema è invece l’accertamento a livello probatorio di
detto nesso di condizionamento. Ricordato (ovviamente con una certa
approssimazione, giusto per quanto è funzionale allo sviluppo del discorso, ma
ben avvertiti che i concetti che seguono hanno ben altri approfondimenti e distinguo)
che nella causalità commissiva all’accertamento si perviene con la formulazione
di un solo giudizio ipotetico, chiedendosi se senza l’azione l’evento si
sarebbe verificato ugualmente, mentre nella causalità puramente omissiva (che è
una costruzione giuridica nella quale interferisce altresì l’obbligo di
garanzia per cui, per espressa previsione di legge –art. 40, 2° co., c.p.-, si
risponde dell’evento solo se si aveva l’obbligo giuridico di impedirlo, con
necessità quindi di selezionare ed individuare i titolari della posizione di
garanzia con criteri che siano rispettosi dei principi di legalità in materia
penale) si formula un giudizio
doppiamente ipotetico, perché ci si domanda se, senza l’omissione, l’evento si
sarebbe verificato ugualmente, e poi se il compimento dell’atto dovuto avrebbe
scongiurato l’evento lesivo (secondo un ragionamento detto “controfattuale”,
aggiungendo cioè mentalmente l’azione comandata ed in realtà non eseguita),
soccorrono poi al riguardo, ai fini appunto del concreto accertamento, altri
principi, peraltro già ben enucleati dalla giurisprudenza della Suprema Corte
che si è interessata della problematica anche a sezioni unite.
Anche al riguardo, ampiamente sviluppata la tematica sia dal
Tribunale che dalle parti che hanno cercato, in relazione all’interesse
coltivato, di ampliare specifici concetti anche al di là del significato che
avevano nel contesto del ragionamento della Suprema Corte, ovvero di smorzare sul nascere quelli che si
ritengono tentativi di fallacie ed anarchie metodologiche coltivate da una
serie di sentenze della IV sezione della Corte di Cassazione successive alla
pronuncia delle Sezioni Unite, ritiene questa Corte territoriale utile un mero
richiamo dei principi espressi dalla variamente citata sentenza Franzese (n.
30328 del 10/7/2002 depositata il 11/9/2002) ai quali si ritiene di rifarsi
pienamente.
Diventa dunque poco
utile, essendo, si ribadisce, lo scopo della motivazione della sentenza quello
di far conoscere il processo logico motivazionale del giudice, discutere sia
del percorso dottrinario e giurisprudenziale che ha portato a tale arresto, sia
del fatto se sia vero che le sentenze Loi, Orlando, Ubbiali e poi anche Macola,
tutte successive alla pronuncia delle Sezioni Unite siano da considerare
eretiche nel riproporre un modello, asseritamente, da queste ripudiato (non lo
si ritiene, emergendo in realtà un mero approfondimento di concetti già
espressi dalle Sezioni Unite, ma tant’è non interessa, una volta che si dice
che questa Corte si richiama non alle assunte peculiarità delle sentenze Loi,
Orlando, Ubbiali o Macola ma ai puri principi, per tutti, accusa e difesa,
sacrosanti nella loro ortodossia rispetto al modello di causalità costruito dal
legislatore, letteralmente espressi dalle Sezioni Unite con la sentenza
Franzese).
Si vuole soltanto ricordare che la pronuncia delle Sezioni
Unite ha intanto avuto come primo rilevante risultato quello di ridare dignità
ed autonomia, nell’ambito dell’accertamento del reato quando questo dipende
dalla realizzazione di un evento, all’individuazione del nesso eziologico tra
le accertate condotte e l’evento stesso, argomento molte volte trattato
marginalmente dopo lunga disamina delle condotte tenute ed esposizione di
quelle che si ritenevano dovute, e quindi del profilo di colpa (quando invece
tale aspetto, relativo all’individuazione dei profili di colpa degli imputati,
dovrebbe rilevare solo nel momento in cui si riterrà l’evento causalmente
collegato alle condotte degli imputati stessi).
Modo di procedere,
non a caso ben stigmatizzato dalle Sezioni Unite penali della Suprema Corte,
che per “la presenza nei reati omissivi impropri, accanto all’equivalente
normativo della causalità, di un ulteriore, forte, nucleo normativo, relativo
sia alla posizione di garanzia che agli specifici doveri di diligenza, la cui
inosservanza fonda la colpa dell’agente, tende ad agevolare una prevaricazione
di questi elementi rispetto all’ordinaria sequenza che deve muovere dalla
spiegazione del nesso eziologico”, con conseguente erosione nei reati omissivi
impropri, del paradigma causale stesso, giustificata da difficoltà probatorie
in uno con gli interessi primari in gioco, che si arresta alla mera verifica
dell’aumento del rischio; ma con erosione altresì delle garanzie costituzionali
di legalità e tassatività delle ipotesi di reato e della personalità della
responsabilità penale. Indirizzo giurisprudenziale peraltro superato proprio
dal filone della ormai neppure più recente giurisprudenza della IV sezione
della Suprema Corte avallata dalla citata pronuncia a sezioni unite che, in
relazione appunto all’accertamento del nesso causale individua i seguenti principi
di diritto validi anche nel caso che ci occupa:
a)il nesso causale può essere ravvisato quando, alla stregua
del giudizio controfattuale condotto sulla base di una generalizzata regola di
esperienza o di una legge scientifica –universale o statistica-, si accerti
che, ipotizzandosi come realizzata dal medico la condotta a doverosa impeditiva
dell’evento hic et nunc, questo non si sarebbe verificato;
b)non è consentito dedurre automaticamente dal coefficiente
di probabilità espresso dalla legge statistica la conferma, o meno,
dell’ipotesi accusatoria sull’esistenza del nesso causale, poiché il giudice
deve verificarne la validità nel caso concreto, sulla base delle circostanze
del fatto e dell’evidenza disponibile, così che, all’esito del ragionamento
probatorio che abbia altresì escluso l’interferenza di fattori alternativi,
risulti giustificata e processualmente certa la conclusione che la condotta
omissiva del medico è stata condizione necessaria dell’evento lesivo con ‘alto
o elevato grado di credibilità razionale’ o ‘probabilità logica’;
c)l’insufficienza, la contraddittorietà e l’incertezza del
riscontro probatorio sulla ricostruzione del nesso causale, quindi il
ragionevole dubbio, in base all’evidenza disponibile, sulla reale efficacia
condizionante della condotta omissiva del medico rispetto ad altri fattori
interagenti nella produzione dell’evento lesivo, comportano la neutralizzazione
dell’ipotesi prospettata dall’accusa e l’esito assolutorio del giudizio.
Ecco allora che l’insegnamento delle Sezioni Unite appare
chiaro e non può essere “tirato per la giacchetta” con il mero richiamo di
passaggi che vanno letti nell’insieme, con la fortuna che l’interpretazione
viene letteralmente fornita dalle Sezioni Unite stesse con la formulazione dei
detti principi che sintetizzano coordinandoli i singoli passaggi argomentativi.
E se certo ne emerge che la Suprema Corte non solo ha
confermato la necessità che la spiegazione causale dell’evento verificatosi hic
et nunc provenga da attendibile
“giudizio controfattuale condotto sulla base di una generalizzata regola
di esperienza o di una legge scientifica –universale o statistica-“ che
consenta di affermare, secondo un modello causale idoneo a includere le spiegazioni nomologico-deduttive provviste
di certezza, che l’antecedente può essere considerato condizione necessaria
dell’evento se rientra tra quelle condizioni che le indicate leggi di
“copertura” (tra le quali a tutto diritto può rientrare anche la semplice
regola di esperienza che non è il senso comune inteso come generale credenza
pur priva di razionale fondamento ma, come ben coglie la difesa Pisani,
espressione abbreviata e familiare di leggi scientifiche) consentono di
ritenere aver provocato l’evento, ma,
non ritenendo comunque “ sostenibile che si elevino a schemi di
spiegazione del condizionamento necessario solo le leggi scientifiche
universali e quelle statistiche che esprimano un coefficiente probabilistico
“prossimo ad 1”, cioè alla “certezza”, quanto all’efficacia impeditiva della
prestazione doverosa e omessa rispetto al singolo evento”, ha altresì
riconosciuto l’utilizzabilità di un modello statistico-induttivo espressamente
osservando che seppure “coefficienti medio-bassi di probabilità c.d.
frequentista per tipi di evento, rivelati dalla legge statistica, impongano
verifiche attente e puntuali sia della fondatezza scientifica che della
specifica applicabilità nella fattispecie concreta”, peraltro “nulla esclude
che anch’essi, se corroborati dal positivo riscontro probatorio, condotto
secondo le cadenze tipiche della più aggiornata criteriologia medico-legale,
circa la sicura non incidenza nel caso di specie di altri fattori interagenti
in via alternativa, possano essere utilizzati per il riconoscimento giudiziale
del necessario nesso di condizionamento” laddove al contrario “livelli elevati
di probabilità statistica o schemi interpretativi dedotti da leggi di carattere
universale, pur configurando un rapporto di successione tra eventi rilevato con
regolarità o in numero percentualmente alto di casi, pretendono sempre che il
giudice ne accerti il valore eziologico effettivo, insieme con l’irrilevanza
nel caso concreto di spiegazioni diverse, controllandone quindi
l’”attendibilità” in riferimento al singolo evento e all’evidenza disponibile”.
Conclusivamente in ordine al modello causale proposto dalle
Sezioni Unite, si può citare un passo di un opera di Federico Stella, fornita
in atti dal medesimo nella sua veste di difensore, che appare felice sintesi
(onde si prende in prestito per non sforzarsi di diversamente dire e magari
male la stessa cosa) di quanto sopra esposto:“la causalità non può essere
amputata del suo elemento costitutivo, la condizione necessaria, e perciò va
ripudiato, come estraneo al nostro ordinamento, il criterio del rischio (del
suo aumento e della sua mancata diminuzione); il nesso di condizionamento va
accertato ricorrendo al sapere scientifico e alle sue leggi, quando risulti
pertinente al caso concreto; possono essere utilizzate anche nude statistiche
con frequenze medio-basse, allorché vi sia il riscontro probatorio della sicura
esclusione di altre cause; il complessivo assetto probatorio relativo alla
causalità…deve risultare immune da ragionevoli dubbi.”
Tenendo quindi in considerazione i principi e modello
causale di cui sopra, va poi operata la verifica della bontà o meno, in
relazione alle doglianze degli appellanti, del giudizio espresso dal Tribunale
in merito al nesso causale tra le contestate azioni od omissioni degli imputati
e le conseguenze lesive che nella specie interesserebbero le parti offese
individuate in imputazione e che integrano i reati contestati di omicidio
colposo e lesione personale colposa, se cioè dette conseguenze lesive possano
essere state determinate dagli effetti nocivi del CVM a loro volta consentiti o
non impediti dalle azioni od omissioni degli imputati.
Tenendo quindi in considerazione i principi e modello
causale di cui sopra, va poi operata la verifica della bontà o meno, in
relazione alle doglianze degli appellanti, del giudizio espresso dal Tribunale
in merito al nesso causale tra le contestate azioni od omissioni degli imputati
e le conseguenze lesive che nella specie interesserebbero le parti offese
individuate in imputazione e che integrano i reati contestati di omicidio
colposo e lesione personale colposa, se cioè dette conseguenze lesive possano
essere state determinate dagli effetti nocivi del CVM a loro volta consentiti o
non impediti dalle azioni od omissioni degli imputati.
Si è già ricordato come il Tribunale, dopo avere premesso
che nella specie proprio la causalità generale da esposizione a clorulo di
vinile è stata utilizzata dall’accusa ai fini di mostrare non solo la idoneità
lesiva della sostanza, ma altresì per indicare gli indici di rischio relativo
per ciascuna neoplasia che si è
ritenuta in qualche misura, forte o debole, associata all'esposizione, ritiene,
però, che dagli stessi studi epidemiologici, tossicologici e sperimentali
risulta una causalità generale debole, per lo più al di sotto non tanto del
raddoppio del rischio, come almeno pretende la giurisprudenza civilistica
americana del più probabile che no, ma addirittura della significatività
statistica, ma ciò nonostante sempre e
comunque assunta come ineludibile
presupposto della causalità individuale
anche di fronte a fattori di rischio alternativi di alta potenza
esplicativa che sono stati valutati
come concausa della malattia e mai come fattori causali di per sé sufficienti e
necessari.
Si è pure già analiticamente sopra ricordato come il
Tribunale supporti dette conclusioni con disamina approfondita di studi,
valutazioni dei consulenti di tutte le parti processuali anche messe a
confronto, testimonianze e documenti afferenti la specifica situazione del
Petrolchimico di Porto Marghera e dei singoli lavoratori parti offese, disamina
cui ci si può senz’altro rifare in quanto puntuale e rispondente alle
risultanze processuali. Giova solo, ai fini della comprensibilità del discorso,
richiamare solo sinteticamente detto percorso valutativo nei punti di arresto.
Ha osservato in particolare il Tribunale, dopo disamina dello sviluppo e degli
studi in materia e dei tempi in cui si sostiene essere stata acclarata la cancerogenicità
del cloruro di vinile monomero (questione che rileverà ai fini della
valutazione dell’elemento psicologico dei reati) che punto di partenza per le imputazioni e di approdo per le
conclusioni del PM sono le conclusioni di IARC 1987, che indicavano una
associazione tra esposizione a CVM e tumori al fegato (angiosaromi e carcinomi
epatocellulari), tumori polmonari, tumori cerebrali, tumori del sistema
emolinfopoietico, melanomi.
Ma le stesse hanno subito rivisitazioni critiche e
ampi aggiornamenti per la maggior parte incorporati nei due studi multicentrici
americano ed europeo ( Wong 1991; Simonato 1991), ulteriormente aggiornati di
recente (Ward 2000 e Mundt 2000 ) e ampiamente discussi in sede dibattimentale.
Sulla base di tali studi, considerando anche i risultati dello specifico studio
sulla coorte di Porto Marghera, che hanno evidenziato assenza di eccesso o non
significatività dell’eccesso per i tumori al cervello, del sistema
emolinfopoietico, del fegato diversi dall’angiosarcoma, del polmone, nonché per
la cirrosi epatica e per le malattie dell’apparato respiratorio, si osserva che
gli stessi consulenti epidemiologici
dell’accusa (si cita l’ultima relazione presentata dai consulenti Comba- Pirastu) avevano escluso o comunque
espresso dubbi e perplessità in ordine alla correlabilita' con le sostanze in
considerazione quantomeno dei tumori del cervello, del sistema
emolinfopoietico, dei melanomi, ma si potrebbe aggiungere anche del tumore
della laringe.
Ritiene invero il Tribunale che rispetto a queste
patologie, sulla base degli studi epidemiologici complessivi e più aggiornati e
delle più perentorie conclusioni cui
erano pervenuti gli stessi Simonato e Boffetta, autori dello studio multicentrico
europeo e del successivo aggiornamento, esaminati nel corso del dibattimento,
può affermarsi che non sussiste la prova di una causalità generale e cioè a
dire della idoneità del c v m e del PVC a provocare tali tumori. Si ritiene
infatti, che l'evidenza globale degli studi epidemiologici più recenti e più
significativi (e, come dichiarato da Simonato su espressa domanda, bisognava
”non considerare l'evidenza di Porto Marghera diversa dal resto dell'evidenza”)
individua una associazione forte tra esposizione a c v m e angiosarcoma epatico e eccessi di rischio
nello svolgimento di talune mansioni (autoclavisti e insaccatori) esposte ad
elevate concentrazioni per l’epatocarcinoma e per il tumore polmonare mentre le
altre associazioni, pure ipotizzate negli studi passati cui aveva fatto
riferimento IARC, non sono state confermate.
Ma il PM non ne avrebbe tratto le logiche e conseguenti conclusioni, limitandosi ad
eliminare solo tutti i tumori gastrici e del pancreas che erano stati associati
alla esposizione a dicloroetano, ed altresì le broncopatie e le broncopneumopatie (87), nonchè le
pneumoconiosi collegate all'esposizione a PVC e, soprattutto, quest'ultime
indicate come predittive del tumore polmonare di cui dagli studi epidemiologici
è stato rilevato un eccesso nella mansione di insaccatore che supporterebbe
l’associazione, prendendo atto il PM che anche IARC 1999 concludeva per
"inadeguata evidenza di cancerogenicità nell'uomo". Le altre patologie
(neoplastiche e non ) siano state ritenute o non sussistenti a seguito
della esame della documentazione medica e dell'anamnesi generale e lavorativa
ovvero non correlate all'esposizione.
Né, secondo il Tribunale, la debolezza delle evidenze
epidemiologiche può essere supplita, come ha tentato di fare il P.M. facendo
ricorso alla biologia molecolare, che pur puntualmente esaminata nei contributi
di studi offerti dalle parti, si rtiene offrire allo stato risultati ancora
incerti, contraddittori e lacunosi, né ancora potrebbe essere supplita
sostenendo, come ha fatto l’accusa, la tesi dell’azione sinergica tra i fattori
di rischio noti ( alcool, epatiti , fumo ) e le sostanze in discussione che in
tal modo assumerebbero il ruolo di concause potenzianti gli effetti lesivi: non
considerando che nel nostro ordinamento la concausa ha lo stesso statuto epistemologico
della causa con la conseguenza che se non è dimostrato che un fattore è causa
di un evento neppure può assumere la veste di concausa. Sulla scorta delle
critiche dei consulenti della difesa, metodologiche e basate su studi
tossicologici e sulle complesse dinamiche del processo metabolico del cvm e
dell'alcol, si ritiene invero che non sussistano dati scientifici su cui
solidamente basare l'esistenza della asserita interazione tra etanolo e cvm e,
anzi, l'analisi delle reazioni metaboliche ipotizzabili conduce a ritenere
improbabile l'interazione suggerita dai consulenti del pubblico ministero che
non hanno dimostrato come verrebbero a determinarsi gli effetti sinergici tra
le due sostanze.
Osserva dunque il Tribunale che se l'evidenza epidemiologica e
sperimentale indiscutibilmente individua negli effetti del cvm un rapporto
dose–risposta, la sua considerazione, da un lato, avrebbe ricollegato gli
eventi alle esposizioni di un lontano passato e, dall’altro, lo avrebbe indotto
ad escludere la rilevanza causale delle esposizioni successive al 1974.
Infatti
in tutte le coorti, anche in quella in considerazione in questo processo, i
tumori rilevati e in particolare l'angiosarcoma, ma anche l'epatocarcinoma in
coloro che hanno svolto la mansione di autoclavisti e il tumore al polmone in
coloro che hanno svolto solo la mansione di insaccattori, sono tutti
riconducibili ad elevate o elevatissime esposizioni che erano quelle proprie
degli anni '50 '60 e primi anni '70 sino alla scoperta della cancerogenità
della sostanza.
E si
citano al riguardo i già ricordati studi epidemiologici Simonato, Ward, Mundt,
ma anche Martines e Mastrangelo dai quali si può individuare un accordo
uniforme e assoluto tra tutti i consulenti che hanno partecipato al presente
processo, in ordine a tale conclusione. Pacifico, infatti, che nessun
angiosarcoma del fegato (che è il tumore tipico da esposizione a c v m) si è
manifestato in lavoratori assunti successivamente al 1973 nella corte europea e
successivamente al 1967 nella corte statunitense e in quella di Porto Marghera.
Ulteriore conferma deriverebbe dal recente studio di Rozman
e Storm (1997) dal quale emerge che " fino all'ottobre del 1993 nessun
nuovo caso di angiosarcoma epatico fu riportato dal registro internazionale fra
i più di 80 mila lavoratori degli Stati Uniti che erano stati esposti per la
prima volta al cloruro di vinile a partire dal 1968 ", traendone la
conseguenza che " la riduzione delle esposizioni entro il range di 0, 5-5
ppm sembra essere stata fino ad ora adeguatamente protettiva".
In particolare, ricorda il Tribunale come in Italia, dove i
contratti collettivi di lavoro erano soliti recepire i valori indicati dalla
A.C.G.I.H. (America Conference Governemental Industrial Hygienists) - che sino
a tutto il 1974 mantiene un valore di 200 ppm come media giornaliera - nel
contratto collettivo di data 12/12/1969 si raccomanda un MAC di 500 ppm e in
quello successivo del 31 ottobre 1972 viene indicato come proposta da adottarsi
il valore di 200 ppm come valore limite di soglia riferito alla media delle
concentrazioni per una giornata lavorativa di 7 o 8 ore per una settimana di 40
ore e tale valore viene adottato anche nel contratto collettivo di data 17
aprile 1976 anche se la definizione di un valore adeguato alla accertata
cancerogenità per l'uomo è in corso di individuazione . Solo con il contratto
collettivo del 23 luglio 1979 il limite
di soglia TLV-TWA viene fissato in 5 ppm .
Tale valore è definito come la “concentrazione media
ponderale in una normale giornata lavorativa di 8 ore o in una settimana di 40
ore, a cui praticamente tutti i lavoratori possono essere ripetutamente
esposti, giorno dopo giorno, senza effetti”. Si precisa inoltre che il Ministro
del Lavoro nell'aprile del 1974- su proposta e sollecitazione del prof Maltoni-
aveva emanato una raccomandazione di non superamento del valore di 50 ppm TVL
come valore di riferimento tendenziale. E solo con la direttiva CEE n°
610/78 recepita con DPR n°962/82 i valori
vengono ridotti a 3 ppm peraltro come media annuale.
In relazione dunque a tali
conclusioni in ordine alla nocività, ed alla soglia di nocività del CVM,
evidenzia il Tribunale come il primo e fondamentale dato di fatto, che confuta
in radice l’accusa, è che, come è
documentato in atti, la concentrazione di CVM nei luoghi di lavoro, misurata
con i gascromatografi installati nei reparti CV fin dal 1975, è sempre
risultata inferiore al valore soglia (3 ppm) stabilito nel 1978 dalla
direttiva 78/610/CE, recepita in Italia col DPR 962/1982.
Circostanza questa di estremo
rilievo se si considera che dagli stessi dati rilevati e riportati in tabella
dal consulente del P.M. prof Diego Martines nello studio caso-controllo sui
lavoratori della coorte di Porto Marghera affetti da angiosarcoma epatico, epatocarcinoma,
cirrosi epatica e epatopatia cronica si evidenzia che per tutte le malattie
considerate il rischio non cresce gradualmente dalla esposizione minore a
quella maggiore, bensì si innalza bruscamente solo nella categoria con
esposizione alta. Inoltre il consulente sottolinea che tutti i casi di
angiosarcoma si sono manifestati in quei lavoratori che subirono la prima
esposizione in un arco di tempo molto ristretto compreso fra il 1955 e il 1967
e ha altresì evidenziato che i tempi di latenza media sono di 29 anni e il
tempo di esposizione media dei lavoratori che sono stati affetti da
angiosarcoma era di 18 anni.
Seppur dunque, si evidenzia da parte del Tribunale,
l’Unione Europea e l’Organizzazione mondiale della sanità assumono
esplicitamente il principio di assenza di soglie per i cancerogeni e in Italia
la Commissione Consultiva Tossicologica Nazionale ha assunto identica posizione, (la ragione fondamentale della
assenza di soglia per i cancerogeni genotossici deriva dall'osservazione che la
relazione tra formazioni di addotti e dose
di regola è lineare con la dose e la probabilità che una molecola attiva
incontri il punto critico del DNA è proporzionale al numero di molecole
presenti), la stessa OMS stima il rischio cancerogeno anche sulla base di
dati epidemiologici e a tal fine
utilizza il parametro della rischio relativo (RR) definito come il rapporto tra
il numero di casi osservato e atteso nella popolazione esposta, e dunque, può
concludersi, così come fa il centro tossicologico e ecotossilogico europeo
dell'industria chimica (ECETOC 1998), nel rapporto dedicato al cloruro di
vinile, che "sebbene non sia possibile stabilire definitivamente livelli
sicuri di esposizione per i cancerogeni genotossici, l'evidenza presentata in
questo rapporto non suggerisce che l'esposizione lavorativa ai livelli correnti
nel rispetto del limite di 3 ppm
comporti rischi significativi per la salute".
E lo stesso professor Zapponi, consulente tecnico
dell'accusa privata Presidenza del Consiglio e Ministero dell'Ambiente, pur
partendo dalla premessa che non può essere identificata una soglia per i
cancerogeni genotossici non essendo possibile definire un livello senza
effetto, passando poi in rassegna le
principali stime, su dati epidemiologici e su dati sperimentali, di rischio
cancerogeno per il c v m, trae l’indicazione che che una esposizione lavorativa presumibilmente priva di un
rischio significativo dovrebbe andarsi a collocare a livelli di frazione
relativamente piccole di 1 ppm e l'uso del modello a soglia, pur in presenza di
un cancerogeno genotossico, ha portato a stime di livelli di esposizione sicura
tra 0.1 a e 0.6 ppm che sono valori di un ordine di grandezza superiori a
quelli stimabili con valutazioni di rischio che assumono l'assenza di soglia.
Ed evidenzia dunque il Tribunale che seppure le
scelte politiche portano a opzione di default utilizzate ai fini di aggirare il
problema dell'incertezza sui seguenti problemi maggiormente rilevanti:1)
mancanza di dati scientifici che correlino in maniera quantitativa
l'esposizione a sostanze chimiche con i rischi per la salute; 2) divergenze di
opinioni all'interno della comunità scientifica sul livello dell'evidenza
scientifica; 3) mancanza di una conformità nel riportare i risultati delle
ricerche; 4) incertezza dei risultati prodotti dai modelli teorici, operando
scelte precauzionali, in realtà nella comunità scientifica e' messo in
discussione soprattutto l'assioma della equivalenza alte-basse dosi; ed in
proposito si ricorda l’affermazione di un ricercatore di biologia molecolare
(Ames) secondo la quale "vi sono sempre più prove che la scissione
cellulare causata dall'alto dosaggio, piuttosto che dalla sostanza chimica in
se', aumenti il tasso di positività poiché ogni volta che una cellula si divide
aumenta la probabilità che si verifichi una mutazione e così aumentando in tal
modo il rischio di tumori”, e si ricordano altresì gli studi di Swemberg
secondo cui a seguito delle sperimentazioni a basse dosi effettuate
"esiste la prova che bassi livelli di esposizione non sono cancerogeni né
per gli uomini né per i roditori".
Onde nella comunità scientifica si propone una
valutazione realistica del rischio che superi il postulato ritenuto estremo e
irrazionale che "nessuna dose è sicura" proprio alla luce dei
risultati sperimentali negativi alle basse dosi e altresì della osservazione
epidemiologica sulla base degli aggiornamenti delle coorti americane ed europee
da cui risulta che nessun lavoratore esposto per la prima volta c v m
rispettivamente dopo 1968 e dopo il 1972 risulta essere affetto da
angiosarcoma, così da far ritenere che
le esposizioni normativamente imposte e osservate sono sufficientemente
protettive ( Storm-1997).
In
conclusione secondo il Tribunale si può affermare che i criteri valutativi che
stanno alla base della valutazione del rischio, che ricorrono spesso a opzioni
di default, che non solo sono indimostrate, ma falsificate anche dai risultati
cui è pervenuta la comunità scientifica, possono tutt’al più essere utilizzati
a fini precauzionali ma non possono essere richiamati a fini conoscitivi in
particolare per accertare quale sia la dose idonea a produrre effetti oncogeni
sull’uomo.
Invero,
dagli studi epidemiologici e dagli stessi registri internazionali dei casi di
tumore da cui risulta per l'appunto che negli Stati Uniti non era stato
accertato alcun angiosarcoma nei lavoratori esposti per la prima volta al c v m
a partire dal 1968, gli autori pervengono alla conclusione che la riduzione
delle esposizioni entro il range e 0. 5 - 5 ppm possa ritenersi
adeguatamente protettiva.
Da
parte del Tribunale si constata che tali ipotesi hanno il pregio di essere
compatibili con i dati epidemiologici disponibili, mentre le ipotesi
dell'assenza di soglia e della suscettibilità dell'uomo uguale o minore a
quella degli animali non hanno tale supporto e, anzi, si basano su postulati
che possono avere validità in un ambito prettamente precauzionale, ma sono
smentiti dall’osservazione scientifica, potendosi concludere pertanto che i
risultati delle osservazioni epidemiologiche e dei dati sperimentali proprio
perché convergenti hanno una loro
rilevanza sotto il profilo probatorio della presenza di una soglia di non
effetto del cvm o di una sua idoneità lesiva solo a concentrazioni di una qual
certa entità e che vengono individuati in 10 ppm (Swemberg), atteso che
peraltro dagli studi analizzati non emerge alcun dato dal quale ricavare che le
basse dosi vigenti successivamente alla conoscenza della oncogenità del c v m abbiano avuto un
qualsiasi effetto su incidenza, latenza o progressione dell’ angiosarcoma.
Sulla scorta dei dati e studi di cui sopra posti in
relazione ai principi in diritto sopra ricordati ritenuti fondanti il modello
causale applicabile, il Tribunale procedeva dunque alla valutazione dei fatti
di cui in imputazione, ricordando e premettendo che comunque la causalità
generale, anche là dove ritenuta, non può bastare perché suggerisce
inferenze eziologiche senza però
poterle dimostrare in rapporto ai singoli individui; affermazione sulla quale
concordano tutti i consulenti anche dell’accusa pubblica e privata.
Si osserva poi che se si considera che la dose cumulativa
più bassa a cui è stato individuato un angiosarcoma (oltretutto di tipologia
non certa ) è quella di 288 ppm pari a circa 28 ppm circa di esposizione
giornaliera, si può affermare che alle esposizioni già presenti nella coorte di
Porto Marghera nel 1974, e ancora più alle esposizioni degli anni successivi,
pacificamente rientranti nei limiti dapprima adottati e in seguito imposti di 3
ppm giornalieri (e anche ampiamente al di sotto degli stessi come documentato
dalle rilevazioni dei gascromatografi) non risulta esservi prova di una
efficienza lesiva del cvm. In tal senso sarebbero convergenti anche gli studi
tossicologici e di oncogenesi che pure individuano un rapporto dose-risposta
per il cvm (si ricordano gli esperimenti di Maltoni e gli studi di Weinrauch e
di Swemberg secondo cui al di sotto di dosi cumulative di 10 ppm non è stata
accertata una idoneità lesiva del c v
m.
Evidenzia il Tribunale che gli
stessi consulenti del pubblico ministero relativamente al problema della
idoneità lesiva del cvm alle bassi dosi non hanno potuto smentire né i
risultati epidemiologici né quelli sperimentali. Si sono limitati ad affermare
"che non si può escludere", "che la soglia al di sotto della
quale non si sono osservati tumori non
è una soglia effettiva ma una soglia apparente... perché non si possono fare
degli studi che dimostrino l'inesistenza di una soglia perché bisogna andare
nell'infinitamente piccolo".. (Berrino);
“attualmente una relazione tra esposizione e cancerogenità delle
sostanze genotossiche è troppo confusa
per offrire linee guida sulla soglia.... e perciò non vi è possibilità di
uscire dall'atteggiamento di essere molto conservativi e sull'esposizione e sul
rischio e quindi accettare che non vi è
una dose sicura" ( Terracini); "con questo tipo di modello non riesco
a vedere l'effetto alle basse dosi e quindi sulle basse dosi non posso dire
assolutamente nulla " (Martines).
Resterebbe
il fatto, e questo rileva nel processo penale, dell’assenza di sicura prova. Si
osserva infatti che, per quanto concerne gli angiosarcomi e gli epatocarcinomi
riscontrati negli autoclavisti nonché i tumori del polmone negli insaccattori e
nei solo insaccattori, ammesso che questi ultimi tipi di tumore, a differenza
del primo, abbiano significatività statistica oltre che plausibilità biologica,
si sono verificati tutti a seguito delle alte esposizioni risalenti agli anni
50 e 60 e prima parte degli anni '70 e cioè a quelle esposizioni elevate
antecedenti alla conoscenza della cancerogenità del cvm.
Nessun tumore del fegato e del polmone ha interessato
lavoratori della corte di Porto Marghera assunti dopo il 1967 e da tale data
oramai è trascorso interamente il periodo di latenza non solo medio ma
approssimantesi anche alle punte medio-alte rilevate.
Conseguentemente
si può trarre una prima incontestabile conclusione: alla stregua delle analisi epidemiologiche aggiornate l'idoneità
lesiva del c v m si è rivelata ad alte o elevatissime dosi mentre non sussiste la prova di una efficienza lesiva anche a basse dosi e in
particolare a quelle esistenti dal 1974 in poi.
Le
incertezze della scienza in proposito o le mere ipotesi o i postulati fondati
su preoccupazioni cautelative, seppure possano costituire dei punti di partenza
per ulteriori approfondimenti, non apportano nessun dato di conoscenza
utilizzabile in ambito processuale dove
ci si deve attenere ai fatti accertati e provati. Da tenere in considerazione
dunque le sole esposizioni eziologicamente rilevanti dal punto di vista
temporale, traendone tutte le conseguenze sia sotto il profilo della
riferibilità delle imputazioni agli imputati tutti tratti in giudizio, sia sotto il profilo della
addebitabilità per colpa degli eventi.
Infatti le condotte cui riferire causalmente gli
eventi sono antecedenti al 1974. Mentre per il periodo successivo, non
sussistendo la prova di una idoneità lesiva di tale sostanza alle basse dosi
successive, immediatamente contenute nei limiti imposti dalle norme cautelari e
poco dopo ridotte anche al di sotto degli stessi (e quindi nell'ambito di un
rischio consentito nell'attività di impresa), non si ravvisano neppure condotte cui causalmente riferire e colpevolmente
addebitare tali eventi.
Per il Tribunale dunque, tutti i dati di conoscenza
introdotti nel presente processo, molteplici e aggiornati, valutati
complessivamente, e altresì l’esame dettagliato e la valutazione critica, con
specifico riferimento alla coorte di Porto Marghera, dei dati epidemiologici e
delle risultanze sperimentali anche di biologia molecolare con approfondimento
delle caratteristiche nosologiche e morfologiche delle neoplasie alla luce dei
contributi dei consulenti medico-legali
e anatomo patologi, non consentono di ritenere sussistente una associazione
causale tra cvm-pvc e tumori diversi dall'angiosarcoma e patologie che non
siano la sindrome di Raynaud e l'acrosteolisi nonchè tipiche epatopatie
interessanti l'endotelio.
E conclude conseguentemente il Tribunale ritenendo
non individuati fattori di rischio professionale, né ipotizzabile un ruolo
concausale dell’esposizione lavorativa proprio perché non provata la causalità
del fattore professionale, per i tumori del laringe, del sistema linfatico e
omopoietico, del cervello, per i melanomi, ma anche per i tumori del polmone
che gli ultimi studi avrebbero ritenuto non correlabile all’azione del CVM e
per i quali, rispetto ai casi in specie contestati, sarebbero emersi fattori di
confondimento per la ricorrenza in 11 casi su 12 di una causa nota quale quella
del tabagismo, e, quanto al fegato, per l’epatocarcinoma per le incertezze
scientifiche non ancora diramate e per la ricorrenza di diversi fattori di
spiegazione causale.
Osserva infatti il Tribunale, quanto a tale ultima
patologia, che intanto all’osservazione epidemiologica gli eccessi
significativi che hanno evidenziato un associazione forte riguardano i tumori
epatici, angiosarcoma e epatocarcinoma, e quindi il fegato appare come l’unico
organo bersaglio del cvm. Entrambe tali neoplasie hanno interessato lavoratori
esposti ad elevate concentrazioni di cvm, risalenti tutte agli anni ’50-’60,
perlopiù svolgenti le mansioni di addetti alle autoclavi.
Precisa tuttavia che le evidenze epidemiologiche
presentano differenze di rilievo per la diversa incidenza dei due tumori e per
la presenza di una variegata molteplicità di fattori confondenti che
legittimano spiegazioni alternative per l’ epatocarcinoma, rispetto a cui le
analisi stratificate che mettono in rilievo una relazione dose risposta sono
ancora non persuasive e abbisognano di conferme per soddisfare il criterio di
riproducibilità del dato. Altresì per quest’ultimo si pone un problema di
plausibilità biologica inquantochè non è noto neppure a grandi linee il
meccanismo di induzione di tale tumore, che interessa le cellule epiteliali, da
parte del cvm che, invece, tipicamente viene a colpire le cellule endoteliali :
si dovrebbe dare una spiegazione plausibile della circostanza che una medesima
sostanza produce neoplasie nettamente diverse sul piano morfologico ancorché
interessanti lo stesso organo. Spiegazione scientifica che non è stata offerta
neppure a livello sperimentale.
Pertanto
trovano spiegazione causale con riferimento alle elevate esposizioni a cvm solo gli angiosarcomi (otto) e, tra le patologie non neoplastiche,
le epatopatie caratterizzate dalle tipiche lesioni da cvm (cinque) e, infine,
le sindromi di Raynaud e/o acrosteolisi (dieci).
In relazione alle suddette conclusioni del Tribunale si pongono le
censure degli appellanti di cui agli specifici motivi sopra analiticamente
ricordati, sostenendosi sostanzialmente, come motivo assorbente, che il
Tribunale ha gravemente errato nella scelta di affidarsi totalmente ed
esclusivamente alle dichiarazioni dei consulenti tecnici degli imputati,
omettendo di esaminare e di valutare tutto il materiale probatorio acquisito,
dal quale emergerebbe invece la tossicità e cancerogenicità del CVM con
riferimento a tutti gli organi indicati dall’accusa e quindi, secondo il modello proposto dal P.M. appellante
peraltro in parte discordante come sopra visto con le stesse indicazioni delle
Sezioni Unite cui pur dichiara di rifarsi, la sussistenza del nesso di
causalità in questione, per la gran parte negato dal Tribunale.
Ma oltre all’applicazione dei principi sulla causalità, si è visto come
in particolare il P.M. lamenti, seguito anche dalle parti civili appellanti,
l’erroneità della valutazione dei presupposti di fatto, storici e scientifici
per giungere ad affermare la penale responsabilità degli imputati consistono
nella disamina di epidemiologia e studi epidemiologici, metodologia
epidemiologica, studi epidemiologici sul CVM,
studi epidemiologici a Porto Marghera, effetto lavoratore sano rilevato
nella coorte di Porto Marghera, cancerogenesi, influenza delle esposizioni a
basse dosi, cancerogenesi e organismi internazionali.
Brevemente ricapitolando quanto sopra già analiticamente esposto in
ordine ai motivi di doglianza in merito a tale problematica proposti dal P.M.,
si osserva che, circa il primo punto, sostiene l’appellante che le conclusioni
in merito alla cancerogenicità di una
sostanza fatta da organismi
internazionali non potrebbero essere messe in discussione dai risultati di
singoli studi, essendo le prime il risultato di un processo di ricerca del
consenso nell’ambito di un gruppo di esperti che si raggiunge attraverso
procedure standardizzate ed esplicitate, che hanno come oggetto l’esame delle
conoscenze scientifiche disponibili al momento della formulazione della
valutazione… ed i risultati di singoli studi non mettono in discussione le
suddette valutazioni; bensì essi contribuiscono all’insieme delle conoscenze in
modo commisurato alla loro qualità.
Onde non sarebbe corrispondente a realta’ (Pg. 27) l’affermazione
generale che: “Le conclusioni cui era pervenuta IARC nel 1987 sono state poste
in discussione dagli studi
epidemiologici successivi . In particolare dallo studio multicentrico europeo
coordinato da IARC e condotto da Simonato e altri (1991) e dallo studio sulle
coorti americane condotto da Wong (1991) i quali saranno successivamente
aggiornati rispettivamente da Ward (2000) e da Mundt (1999)”. I nuovi studi,
per quanto ampi, sarebbero una parte del tutto che si inseriscono nell’alveo di
quelli precedenti e di per sé non portano a modifica della precedente
valutazione, essendo necessario tutto un meccanismo di approfondimento ai fini
della classificazione (o riclassificazione) di una sostanza.
Quanto alla seconda questione, sostiene il P.M. che la sentenza sarebbe
gravemente viziata per non avere dato contezza delle manchevolezze dello studio
Mundt 2000 fondato su carente database del “filone principale” U.S.A.,
nonostante che in dibattimento i vari consulenti tecnici del P.M. (Berrino,
Comba, Pirastu, Mastrangelo) si siano ampiamente soffermati su tale
problematica.
Quanto alla terza questione sostiene il P.M. che i tentativi di
ridimensionare le evidenze epidemiologiche relative alla cancerogenicità del
CVM presenti nella letteratura scientifica sarebbero conseguenza del ruolo
svolto dall’industria nella diffusione delle conoscenze sulla cancerogenicità
del CVM, nello specifico quella statunitense, ma anche Enichem, con il supporto
di noti e ben pagati epidemiologi stranieri, tra cui Richard Doll, al quale
Enichem ha dato mandato di sostenere che l’angiosarcoma epatico e’ l’unico
tumore causalmente associato con l’esposizione a CVM.
E così, riguardo alla metodologia epidemiologica, sostiene il P.M.
l’erroneo utilizzo da parte del Tribunale, in uno stesso studio di livelli di
confidenza diversi per diverse cause di morte, e non sarebbe accettabile in
assoluto nemmeno l’ulteriore affermazione e decisione del Tribunale, che esclude sempre e per partito preso
le situazioni con limitata significatività statistica: a questo proposito
richiama ancora l’appellante la recente sentenza delle Sezioni Unite della
Corte di Cassazione (nr.27 del 2002: pag.15), dove viene scritto che “coefficienti medio bassi di pericolosità ….
impongono verifiche attente e puntuali …. Ma nulla esclude che anch’essi, se
corroborati dal positivo riscontro probatorio, condotto secondo le cadenze
tipiche della più aggiornata criteriologia
medico-legale …. possano essere utilizzati per il riconoscimento
giudiziale del necessario nesso di condizionamento”. Riscontro probatorio
secondo il P.M. per il caso dei tumori professionali possono essere le evidenze
sperimentali sugli animali e su altri modelli di laboratorio.
Lamenta poi il P.M. errori ed errate valutazioni da parte del Tribunale
in merito alle conclusioni assunte relativamente ai tumori diversi
dall’angiosarcoma con riferimento agli studi epidemiologici sul CVM, sia di
corte europea coordinato da IARC (Ward 2001), sia USA (Mundt 2000), ritenendosi
invece che una esatta proposizione dei dati stessi porterebbe a diversa
conclusione, in particolare relativamente al carcinoma epatocellulare, al
tumore al polmone ed alla cirrosi.
Richiamando poi il P.M. gli studi
epidemiologici a Porto Marghera, lamenta che il Tribunale, pur citando una
serie di dati prodotti dai Consulenti Tecnici del PM, che dimostrano come nella
coorte di Porto Marghera, oltre all’eccesso degli angiosarcomi epatici, vi sia stato un significativo eccesso di
altri tumori epatici, in particolare per gli autoclavisti, nonché, come
emergerebbe dall’aggiornamento 1999, un significativo eccesso di tumori
polmonari per i lavoratori che avevano svolto mansioni di insaccatori.
E si sostiene da parte dall’appellante, in tema di causalità generale
da esposizione a cloruro di vinile, che, alla luce di quanto scritto, e sopra
accennato, in merito agli studi epidemiologici sul CVM, non è assolutamente
condivisibile l’affermazione del Tribunale relativa “all'assenza della prova allo stato delle conoscenze scientifiche
della idoneità del cvm a provocare il cancro del polmone , il carcinoma epatocellulare e la cirrosi riconoscendo
solo la sua associazione causale con l'angiosarcoma , con tipiche epatopatie e
con la sindrome di Raynaud”. Lamenta il P.M., che per affermare ciò, il
Tribunale avrebbe dovuto prima di tutto affrontare e criticare quanto esposto
dall’accusa in senso contrario, esaminando le relazioni finali depositate dal
P.M., criticandone l’eventuale metodologia, la logica e le conclusioni.
Analogamente, sarebbe del tutto arbitraria l’affermazione del Tribunale
secondo la quale “tutti i dati di conoscenza introdotti nel presente processo,
molteplici e aggiornati, valutati complessivamente, non consentono di ritenere sussistente una associazione causale
tra CVM-PVC e tumori diversi dall'angiosarcoma e patologie che non siano la
sindrome di Raynaud e l'acrosteolisi nonchè tipiche epatopatie interessanti
l'endotelio”.
Nello specifico delle singole patologie, sostiene
l’appellante, richiamando in particolare gli studi dei propri consulenti, che,
quanto al tumore al polmone, “nelle coorti che hanno condotto un'analisi
specifica per gli insaccattori, definiti come "solo addetti
all'insacco" e " addetti all'insacco "si sono identificati
incrementi di mortalità. Pertanto la persuasività scientifica della relazione
causale fra l'attività lavorativa che comporta esposizione a polveri di PVC è
elevata”.
Quanto ai tumori del fegato –angiosarcoma a bassa esposizione sostiene l’appellante che
neppure avrebbe ben compreso il Tribunale i dati emergenti dallo studio europeo
WARD 2001, che pur ritiene fondamentale, dati dai quali, contrariamente a
quanto ritenuto dal Tribunale, emergerebbe un rischio di angiosarcoma anche a
bassa esposizione, non avendo d’altra parte il Tribunale considerato che era
stato discusso dal P.M. un caso di angiosarcoma per un operaio assunto dopo il
1973 (Dalla Verità Domenico, assunto nell’aprile del 1974), ed avendo pure
rigettato la richiesta del P.M. di acquisire della documentazione attestante
un’altra morte per angiosarcoma a causa del CVM, verificatasi negli USA, per
bassissime esposizioni.
Quanto al carcinoma epatocellulare si richiamano ancora gli
studi e conclusioni dei propri consulenti che suggeriscono che “l’esposizione
a CVM può essere associata anche con
questo tumore”. Si ricorda inoltre che valutazioni dell’associazione causale
intercorrente fra esposizione a CVM e carcinoma epatocellulare sono state
formulate, oltre che da IARC, anche da EPA. Onde anche nel caso secondo il P.M.
i criteri di causalità esposti dal Tribunale a pag. 42 siano stati
adeguatamente verificati e, quindi, anche in questo caso va affermata la
sussistenza del nesso causale.
E così per la cirrosi relativamente alla quale se è vero che
nella coorte generale di Porto Marghera la mortalità per tale patologia è
inferiore all’attesa, va peraltro rilevato che essa è superiore all’attesa fra
gli autoclavisti.
Così
non avrebbe adeguatamente valutato il Tribunale l’effetto lavoratore sano nei
termini e per gli effetti già sopra esposti, che renderebbe invece possibile
rilevare che:
a -
non
c’è alcuna diminuzione di rischio per le coorti di assunti a partire dal 1974,
tenendo conto del tempo trascorso dall’assunzione;
b -
gli
assunti in anni più recenti non hanno ancora maturato la “latenza” necessaria
perché si manifesti una patologia (soprattutto in riferimento a quelle
patologie per le quali il periodo di latenza può essere molto lungo);
c -
non vi
è alcuna evidenza empirica che gli assunti dal 1974 in poi abbiano sperimentato
un vantaggio in termini di salute rispetto agli assunti negli anni precedenti;
d - i soggetti esposti nelle mansioni a rischio
(autoclavisti e insaccatori) manifestano una mortalità per tutte le cause
aumentata e questo rischio appare crescente al crescere della durata di impiego
nella mansione a rischio.
Così non avrebbe compreso il Tribunale le questioni relative
alla carcinogenesi. E riproponendo l’appellante i concetti di genetica
molecolare sostiene la correttezza dell’ipotesi di accusa per la quale il CVM è
cancerogeno non solo iniziante, come riconosciuto dalla sentenza, ma altresì
promovente, onde non può parlarsi della
presenza di una " soglia di sicurezza”.
Quanto poi alle patologie riscontrate a
Porto Marghera, ricorda ancora il P.M., contrariamente alle diverse conclusioni
del Tribunale, che secondo vari organismi e organizzazioni internazionali, tra
cui IARC ed EPA in primo luogo, devono essere considerati come principali
organi – bersaglio del CVM il fegato, il polmone, il cervello, il sistema
emolinfopoietico. Inoltre, sulla base di singoli studi, devono essere
attribuite all’azione del CVM alcune altre patologie, come il tumore del
laringe, nonché – come ampiamente illustrato anche nel capitolo 2.3 – il
fenomeno di RAYNAUD e l’acroosteolisi.
Nello specifico, si sottopongono a critica anche alcune
conclusioni del Tribunale quali l’esclusione della presenza dell’angiosarcoma
epatico per Simonetto Ennio su asserito unanime giudizio di tutti i consulenti,
quando invece tra i consulenti vi era contrasto sul punto (ma, osserva la
Corte, su questo punto neppure si tornerà in quanto la doglianza è frutta di
sicura svista dell’appellante atteso che il suddetto caso è tra gli otto casi
di angiosarcoma riconosciuti dal Tribunale integranti oggettivamente, per la
sussistenza del nesso causale, i contestati delitti di omicidio colposo,
esclusi solo per carenza dell’elemento psicologico del reato -si cita il
relativo capo di sentenza: “Assolve i predetti imputati dai reati di "omicidio
colposo" per angiosarcoma epatico in danno di Agnoletto Augusto, Battaggia
Giorgio, Faggian Tullio, Fiorin Fiorenzo, Pistolato Primo, Simonetto Ennio,
Suffogrosso Guido e Zecchinato Gianfranco, perché il fatto non costituisce
reato”).
Quanto all’epatocarcinoma, lamenta l’appellante travisamenti
ed erronei apprezzamenti dei contributi scientifici, e dopo aver ancora
ribadito la tesi, sostenuta dai propri consulenti, dell’azione sinergica del
CVM con gli abusi di alcol e le infezioni
da virus B e C, sostiene che in forza degli atti del processo il
carcinoma epatocellulare può essere ascritto all’esposizione a CVM.
Analogamente, anche relativamente alla cirrosi
epatica contesta il P.M. come già accennato, le conclusioni del Tribunale,
ritenendole, così come sopra nella disamina dei motivi già ricordato non basate
sulla realtà dei dati e sulle logiche considerazioni che ne sarebbero dovute scaturire, come
ampiamente presentato in dibattimento.
Sempre con
riferimento all’organo bersaglio fegato, sostiene infine il P.M. che trattando
delle epatopatie riscontrate nei lavoratori del PCV-CVM di Porto Marghera, il
Tribunale continua a far confusione tra tossicità e cancerogenicità del CVM.
Sostiene dunque l’appellante, dopo richiamo alla già ricordata differenza
concettuale e sostanziale tra tossicità e cancerogenicità, e dopo
riproposizione dei casi dei lavoratori le cui epatopie sono state escluse dal
Tribunale come causate dall’esposizione a CVM, che al riguardo la sentenza ha
ripetutamente invocato (fin da pag.9) l’elevato consumo di alcol come
“giustificata soluzione alternativa” all’eccesso di tumori del fegato, di
cirrosi e di epatopatie. Ma, sostiene l’appellante, l’eccesso osservato negli
operai di Porto Marghera è troppo elevato per poter essere spiegato da un
eccessivo consumo di alcol.
Lamenta altresì il P.M. che il Tribunale abbia assolto gli
imputati amministratori Montedison del periodo 1969 – 1973, non meglio
individuati, perché il fatto non costituisce reato, dai cinque casi di
epatopatia (Poppi Antonio, Bartolomiello Ilario, Salvi Andrea, Scarpa Giuseppe
e Sicchiero Roberto) riconosciuti come causati dal CVM. Non convincenti secondo
l’appellante le motivazioni per l’esclusione dell’elemento soggettivo, atteso
che il CVM era un noto epatotossico (lo si sapeva dagli anni cinquanta-sessanta
e lo si insegnava all’università). Ed a questo proposito e in relazione
all’art.437 c.p. (malattie derivate da omissioni del “datore di lavoro”) nulla
ha risposto il Tribunale.
Si
lamentano, infatti, ripetute omissioni in fatto rilevate in motivazione;
incompletezza grave nell'esame di tutti gli elementi probatori sottoposti
dall'accusa all'esame del Tribunale; distorsione di quanto scritto e segnalato
dai consulenti tecnici dell'accusa; accettazione acritica e totalmente
immotivata delle tesi della difesa degli imputati.
Conclude,
infine, sul punto il P.M. contestando altresì l’esclusione delle patologie
degli altri "altri organi" bersaglio del CVM-PVC (laringe - sistema
emolinfopoietico -encefalo). Anche al riguardo, ci si lamenta che le motivazioni
della sentenza sono del tutto insufficienti e non affrontano nemmeno tutti i
dati, gli studi scientifici, le relazioni tecniche e le dichiarazioni dei
consulenti tecnici del P.M. e delle parti civili offerti all'esame e alla
valutazione del Tribunale.
E una
situazione analoga si presenterebbe anche per i melanomi, per i quali sono
emersi "eccessi", nonché relativamente alla sindrome di Raynaud per
la quale il Tribunale oltre a fornire dati numerici sbagliati rispetto ai casi
introdotti dal P.M. nel processo, fa poi confusione sul numero dei casi da lui
stesso ammessi, si è completamente dimenticato di Terrin, non ha considerato
che il certificato di diagnosi di RAYNAUD per Gabriele Bortolozzo è del 1995,
ed inoltre, si è dimenticato dell’accusa di cui all’art. 437c.p..
A fronte delle suddette doglianze sul punto, sostanzialmente
analoghe quelle proposte dalle parti civili a quelle del P.M. che, più
analitiche, si sono citate, ritiene la Corte, richiamata la ricostruzione degli
elementi probatori analiticamente operata dal Tribunale e sopra già riportata,
ma che comunque deve intendersi qui integralmente trascritta e fatta propria da
questa Corte in quanto rispondente a corretta riproposizione di tutte le
risultanze rilevanti ai fini della valutazione e giudizio sul punto, che
altresì condivisibili sono le valutazioni, che pure si fanno proprie e debbono
qui intendersi riportate, e le conclusioni cui in forza delle stesse il
Tribunale è pervenuto nell’individuare gli eventi, tra quelli contestati, che
sarebbero causalmente collegati all’azione nociva del CVM con riferimento al
periodo temporale fino a tutto il 1973 e quindi alle contestate azioni ed
omissioni di chi tra gli imputati, pure correttamente individuati, aveva
determinato quelle condizioni di lavoro favorevoli all’aggressione del CVM
(profilo, questo, di causalità commissiva), ovvero aveva omesso di intervenire
con strumenti prevenzionali e con modifiche di procedure, con opere di
risanamento degli impianti e quant’altro idoneo ad evitare le alte
concentrazioni di CVM superiori alle soglie di nocività.
Solo, diversamente dal Tribunale, si ritiene, atteso quanto
poi si dirà, sul punto specifico riformando la sentenza del primo giudice, in
ordine alla sussistenza altresì dell’elemento psicologico onde l’impossibilità
in ordine ai ritenuti reati di omicidio colposo e di lesioni personali colpose
di pervenire ad assoluzione sotto tale profilo, che le ipotesi di reato ex art.
590 c.p. per epatopatie siano da ampliare rispetto ai casi riconosciuti dal
Tribunale, attesa la soluzione giudiziaria cui si perviene, che è quella della
prescrizione ormai da lustri già intervenuta e che va immediatamente dichiarata
attesa la mancanza di evidenza di ipotesi assolutoria che interessa certo gli
specifici casi di epatopatie individuati dal Tribunale (in ordine alle quali
non vi è gravame circa la riferibilità obiettiva alle condotte degli
individuati imputati ritenuta dal Tribunale che assolveva poi per difetto di
colpa), ma anche gli ulteriori casi individuati dalla Corte che concernono
similari patologie contratte altresì nel periodo di riferimento (fino a tutto
il 1973) nel quale gli ambienti di
lavoro erano interessati da alte concentrazioni di tale sostanza e per le quali
non può senz’altro escludersi l’azione del cloruro di vinile monomero.
Infra comunque meglio si specificherà in ordine a tale
statuizione, così come in ordine alla condivisibilità del giudizio del
Tribunale in ordine alle altre epatopatie per le quali non vi sono elementi
idonei a suffragare l’ipotesi accusatoria e dunque vi è evidenza di
insussistenza del chiesto nesso causale e conseguentemente dell’oggettiva
insussistenza del reato.
Infondate dunque le specifiche doglianze di cui sopra
relative appunto all’individuazione del nesso causale in relazione alle ipotesi
di reato per le quali invece non veniva riconosciuto dal Tribunale, giova
peraltro osservare, in relazione ai punti salienti di gravame, che parziale è
la lettura offerta dagli appellanti che, nel lamentare omissioni e difetto di
valutazione da parte del Tribunale di specifiche circostanze o punti
argomentativi, si sono ancorati a tale asserite omissioni dimenticando invece
tutto il resto nel cui contesto scarsa valenza probatoria avevano le
circostanze stesse. Contrariamente invece il Tribunale ha fondato il suo
convincimento sul risultato complessivo dell’evidenza probatoria correttamente
colto e riproposto e che integralmente viene fatto proprio da questa Corte, per
la evidente, tra l’altro, infondatezza delle singole censure.
Ed invero, intanto va pur sempre ricordato che comunque, a
prescindere anche dalla soluzione della problematica in ordina alla nocività
del CVM ed alla sua idoneità a cagionare le patologie contestate, peraltro con
ricorrenza frequentista non certo alta rispetto al numero delle persone che
possono esservi venuti a contatto, il nesso causale tra l’esposizione e le
patologie stesse per come nella specificità insorte in capo alle parti offese
indicate in imputazione sarebbe ancora tutto da provare.
A parte infatti le patologie ed i casi riconosciuti
compiutamente dal Tribunale e quelli che, per come si vedrà, per la mancanza di
evidenza di ipotesi assolutoria, possono portare a declaratoria di prescrizione
che si impone con immediatezza senza compiuta disamina degli elementi sia
oggettivi che soggettivi del reato, nella specie il nesso di condizionamento
tra condotte contestate ed eventi lesivi individuati non risulterebbe neppure
provato per difetto di idonei elementi esaustivi non solo medico legali, ma anche
indiziari tali che, collegati all’astratta idoneità lesiva della sostanza,
possano portare a ritenerne la sussistenza oltre ogni ragionevole dubbio. La
prova, si è detto, non può consistere nella mera esposizione al rischio.
Ma tant’è le censure sul punto relativo alla specifica
ricorrenza della causalità in merito alle ipotesi di reato contestate sono
infondate anche in fatto.
La lunga ed articolata istruttoria dibattimentale ha invero
messo in luce, ora su una patologia ora su l’altra, insanabili contrasti tra
gli stessi consulenti e testimoni qualificati dell’accusa con il risultato che
questa ala fine non avrebbe adempiuto all’onere probatorio non solo in merito
alla condizione necessaria dei singoli eventi ma già dell’idoneità della
sostanza incriminata a cagionare quelle determinate patologia.
Intanto contrasti in merito all’individuazione degli organi
bersaglio diversi dal fegato: il polmone, il sistema emolinfopoietico e il
cervello. Se al riguardo Berrino resta
fermo nelle conclusioni cui a seguito dei primi studi era giunta IARC, di
diverso parere appare l’altro consulente epidemiologo dell’accusa Carnevale per
il quale negli studi successivi all’87, non c’è più evidenza di una
associazione con i tre organi bersaglio.
Nello specifico poi dei singoli organi, di mera possibilità
di un nesso eziologico tra CVM o polveri di PVC e tumore al polmone parlano,
ancora in contrasto con Berrino ed altresì con Mastrangelo (che peraltro nella
relazione depositata il 19.2.2001 asserisce che, per il ruolo svolto
dall’esposizione alle polveri di PVC dei dipendenti delle cooperative, sarebbe
eziologicamente rilevante solo il periodo di esposizione fino al 1975 in quanto
successivamente al situazione sarebbe migliorata), i consulenti Comba e Pirastu
in relazione proprio allo specifico studio di coorte su Porto Marghera,
evidenziandosi tra l’altro nell’esame da detti consulenti che se dallo studio fossero stati esclusi i
soci delle cooperative che avevano una età, all’ingresso, estremamente elevata,
e costituiscono una popolazione che non è sovrapponibile molto facilmente ad
altre popolazioni di lavoratori dipendenti, essendo il dipendente di
cooperative uno che lavora “in più siti diversi” onde “non c’è la possibilità
di sovrapporre la coorte con la fabbrica”,
per gli insaccatori dipendenti Montedison ed EniChem non emergerebbe
alcun eccesso, come ancora puntualizzato da Comba nel suo esame, che precisa in
sostanza che nessun elemento nello studio di coorte poteva portare ad affermare
con certezza il ruolo eziologico del CVM o del PVC in relazione al tumore al
polmone, ruolo eziologico che si limitavano detti autori a “suggerire”, a
ritenere “possibile” “perchè, di fatto, si disponeva solo di uno studio
americano”, cioè dello studio di Waxweiler
del 1981, ben citato già dal Tribunale, che prospettava l’ipotesi, mai
confermata, dell’azione del cvm imprigionato nelle polveri di pvc.
Ma un solo studio,
ne sono consapevoli gli stessi Comba e Pirastu, non può essere sufficiente non
essendosi neppure raggiunta scientificamente la soglia (che richiederebbe
comunque delle convalide tali da far ad un certo punto ritenere data per
accettata la tesi) per la quale potrebbe poi comunque temersi una
falsificazione.
Restano dunque i
dati oggettivi a livello epidemiologico evidenziati dai detti studiosi, e resta
soprattutto il dato, espresso nella tabella della relazione Comba-Pirastu, dal
quale emerge una relazione inversa tra aumento della latenza e valore del SMR
per il tumore al polmone, dato che depone in senso contrario al collegamento
eziologico ipotizzato e ben evidenziato dal Tribunale nella sua motivazione non
trovando al riguardo idonei argomenti contrari. Invero, come ben ha spiegato,
ribadendo il concetto in due udienze diverse (ud. 1/7/98 e ud. 8/7/98), la
Pirastu nel suo esame (“ci si aspetterebbe che all’aumentare della latenza, del
tempo trascorso dal momento in cui hanno cominciato l’esposizione, questo
aumenta il valore dell’SMR, mentre questo nel nostro caso non si verifica”;
“quello che si attende per un cancerogeno è che all’aumentare della latenza
aumenti anche la nostra stima dell’effetto”).
Contraddittorie con la tesi propugnata dal P.M. sono altresì
le conclusioni dei suoi consulenti, certo comunque non idonee nel complesso a
comprovare l’accusa, per gli altri tumori e malattie.
Quanto agli epatocarcinomi Berrino sostiene che non ci sono
evidenze epidemiologiche: gli studi epidemiologici generalmente non sono stati
in grado di calcolare un rischio relativo preciso (ud. 12.6.1998). La tesi del
P.M. secondo il quale dalle pubblicazioni EPA si evincerebbe che esistono
“prove estremamente indicative di una relazione causale con il carcinoma
epatocellulare” non appare invero
suffragata in atti da generalizzata accettazione scientifica dell’assunto.
Permane, nonostante la classificazione di EPA, incertezza. Sia nella
pubblicazione di maggio 1999 che in quella di maggio 2000 EPA compie una
revisione della letteratura disponibile. In entrambe le relazioni il sostegno
maggiore alla tesi di una associazione tra CVM ed epatocarcinoma proviene da
una valutazione dei casi di tumore del fegato dello studio americano (nella
prima relazione si tratta dello studio di Wong
del 1991 mentre nel secondo caso si tratta dello studio di Mundt del 1999).
Secondo gli estensori dei rapporti EPA, dall’analisi delle
coorti americane risulterebbe che, una volta esclusi dal calcolo gli
angiosarcomi del fegato, tutti gli altri tumori del fegato sarebbero comunque
in eccesso indicando quindi un effetto del CVM anche su questo tipo di tumori
(e non solo sugli angiosarcomi). Ma, come condivisibilmente rimarca la difesa
Pisani, l’argomentazione è molto debole sia perché non è supportata da
letteratura sufficiente (nessuno studio epidemiologico aveva ancora affrontato
in dettaglio il problema degli epatocarcinomi in quanto tali: ricordiamo che il
primo studio che ha esaminato la questione è l’indagine multicentrica europea (Ward, 2000; Ward, 2001) con la valutazione di un numero molto ridotto di
casi, indagine non esaminata in nessuno dei documenti EPA citati) sia perché il
documento EPA stesso (maggio 2000, p. 11) riconosce gli enormi limiti della
analisi condotta, soprattutto laddove indica esplicitamente l’esistenza di una
difficoltà diagnostica nella valutazione dei casi di epatocarcinoma e la possibilità
che in realtà molti dei casi ritenuti epatocarcinomi possano essere invece
degli angiosarcomi mal diagnosticati.
D’altro lato, la rilevanza dello studio di Mundt sugli epatocarcinomi è esclusa in
radice perché a) gli eccessi non sono statisticamente significativi; b) manca
l’analisi dose-risposta.
Pochi e incerti quindi gli elementi a favore di una
associazione tra esposizione a CVM ed insorgenza di tumori del fegato diversi
dagli angiosarcomi, un incertezza scientifica che non può essere superata,
laddove si discute di reati, dalla classificazione EPA che si basa solo su
alcuni studi peraltro non scevri da dubbi diagnostici, e pur rimarca assenza di
consistente evidenza epidemiologica.
E lo stesso Zocchetti nella memoria del 13.1.1999 concludeva
nel senso che “la situazione sembrerebbe pertanto quella tipica in cui si deve
dire sospendiamo il giudizio e suggeriamo un supplemento di indagine perché non
ci sono elementi sufficienti per dare delle indicazioni esplicite e precise”; e
nella memoria del 26.9.2000 si aggiungeva che “bisogna anche osservare, almeno
in termini descrittivi, che il piccolissimo numero di casi rappresentato dalla
letteratura, non depone certo per una evidenza di effetto, soprattutto se si
considera il numero piuttosto elevato di soggetti esposti, anche a dosi molto
elevate nel passato, e la frequenza di epatocarcinoma che è certamente
superiore a quella degli angiosarcomi. … e che l’epatocarcinoma è correntemente
giudicato un tumore dalla eziologia molto variegata”.
Proprio quest’ultima notazione è estremamente significativa
e già rilevata dalla difesa Pisani: l’epatocarcinoma non è un tumore raro
(almeno in paragone con l’angiosarcoma). Inoltre, in aggiunta e ad ulteriore
differenza rispetto all’angiosarcoma, è bene ricordare (come fanno anche i
consulenti della accusa nella memoria di sintesi dell’aprile 2001) che
l’epatocarcinoma è un tumore che oltre ad ammettere fattori di rischio di tipo
professionale (diverse sostanze epatotossiche, come le aflatossine e le
nitrosoammine) riconosce ben noti fattori di rischio extraprofessionali, di cui
i più importanti sono l’infezione cronica da virus B e C, l’abuso di alcol
(nonché alcuni aspetti relativi alla dieta), e la cirrosi.
Correttamente evidenziandosi dalla predetta difesa che per
l’epatocarcinoma le differenze rispetto all’angiosarcoma del fegato non sono da
riferire solo al differente livello della evidenza scientifica presente (più
propriamente sarebbe meglio dire assente) in letteratura, ma anche alla
differente impostazione del problema eziologico, che vede per l’angiosarcoma un
insieme limitato di fattori di rischio noti, mentre per il carcinoma
epatocellulare si deve considerare una eziologia chiaramente multifattoriale
con particolare rilevanza dei fattori extraprofessionali, e che non esiste un
registro degli epatocarcinomi esposti a CVM e pertanto non è possibile definire
in maniera precisa le caratteristiche dei casi riscontrati per quanto riguarda,
ad esempio, la latenza, il periodo di inizio e la durata della esposizione, la
mansione svolta, l’esposizione cumulativa, etc.
Quanto alla cirrosi, per Berrino l’evidenza epidemiologica
non è chiara, ma è un po’ dubbia; per Comba e Pirastu, i casi di cirrosi sono
inferiori all’atteso nella coorte di Porto Marghera. Dalle memorie dei
consulenti della difesa Zocchetti
del 26.9.2000 e Zocchetti-Dragani
del 20.4.2001 emerge poi, sulla base di esame della letteratura e di una
valutazione epidemiologica, inesistenza di associazione con l’esposizione a
CVM.
Ed invero, correttamente e stato già evidenziato dal
Tribunale e dalla difesa degli imputati, che:
gli studi epidemiologici di mortalità per cirrosi non hanno
evidenziato rischi significativi; lo studio multicentrico europeo (Simonato
1991-) e quello sulle coorti americane (Wong-1991-) hanno rilevato
rispettivamente un RSM pari a 0,88 e a 0,62 e hanno osservato una relazione
inversa con l'esposizione a c v m; nell'aggiornamento dello studio europeo
(WARD 2000) si sono osservati 50 decessi per cirrosi epatica rispetto ai 64, 62
attesi corrispondenti a un RSM di 0,
77; in detto studio si afferma che " sebbene vi fosse un deficit
significativo della mortalità per cirrosi epatica nell'intera corte tuttavia vi
era per un eccesso significativo di mortalità nel gruppo ad elevato rischio relativo:
la Norvegia era comunque l' unico paese per il quale il rapporto standardizzato
di mortalità, basato su quattro decessi,
era statisticamente significativo; tuttavia non era stato rilevato alcun
trend nella mortalità per cirrosi per quanto riguarda il tempo della prima
occupazione, l'impiego e la durata dell'impiego; un trend significativo invece
era stato rilevato all'aumentare dell'esposizione cumulativa; sebbene coloro
che avevano lavorato come autoclavisti avessero il rapporto standardizzato maggiore
rispetto a coloro che non avevano mai ricoperto questa mansione tuttavia il RSM
per la prima categoria non era statisticamente significativo; la relazione tra
esposizione a c v m e insorgenza di cirrosi epatica nella coorte di Porto
Marghera è stata analizzata sia nello studio Comba - Pirastu sia nello studio
caso controllo di Martines; lo studio generale sulla corte indica tali
risultati: osservati 14; attesi 25, 5 :
SMR=55; nello studio caso controllo di Martines vengono considerati 32 casi: di
questi per 14 la diagnosi era stata formulata sulla base dell'esame istologico,
per gli altri la diagnosi era basata sul quadro clinico.
Per il calcolo dei rischi relativi sono stati considerati
anche 14 pazienti risultati affetti da epatocarcinoma con segni di precedente
cirrosi; come risulta nel capitolo di presentazione dello studio l'unica
categoria in cui vi è un rischio relativo in eccesso (2. 38) è quella con
esposizioni elevate (1651-10125); anche nel caso di cirrosi i fattori di
confondimento appaiono fortemente sottovalutati nonostante fossero presenti in
tutti i soggetti: l'infezione virale b o c era presente in 7 soggetti ; il
consumo di alcol in tutti e in particolare in 23 elevato e in 14 molto alto
(> 120) ; ciònonostante il rischio relativo era calcolato per le due
categorie di poco superiore a 1 (1. 05 - 1. 24); l'autore dello studio
giustificava la sottostima non solo per aver assunto come categoria di
riferimento lavoratori con danno epatico, ma sostenendo che l'obiettivo dello
studio non era quello di dimostrare la responsabilità del consumo di alcol e di
virus b e c nel determinare la cirrosi epatica (e l'epatocarcinoma) che è
ampiamente riconosciuta, ma quello di evidenziare un eventuale effetto
aggiuntivo o primario dell'esposizione al c v m; non si può non rilevare, diversamente la sottostima porta a
risultati inaffidabili, che se si intende assumere come ipotesi a priori
l'effetto lesivo di una sostanza non si può che esaminare con estrema cautela i
risultati ottenuti soprattutto in presenza di fattori causali non solo noti ma di elevatissima
incidenza.come la letteratura già citata mette in chiara evidenza : (virus
dell'epatite b e c nel 60% dei casi, abuso di bevande alcoliche nel 30% dei
casi); inoltre non si può non rilevare un vizio di impostazione che
inevitabilmente porta a effetti distorsivi : proprio perchè l'autore ha assunto
come casi i soggetti che, secondo i consulenti medico legali del pubblico
ministero erano affetti da cirrosi, non si può non rilevare come vi sia stata
una riduzione da parte del pubblico ministero nelle sue conclusioni dei casi di
cirrosi, otto dei quali sono stati utilizzati dal dottor Martines per
effettuare le sue elaborazioni statistiche.
Appare del tutto ovvio che di conseguenza anche per questa
ragione vi è stata una sovrastima del rischio relativo; ma anche i fattori
virali sono sottostimati posto che circa la metà dei lavoratori non è stata indagata per la presenza di
marcatori dell'epatite c e 14 per la presenza di infezione da virus b; lo
stesso autore pare rendersi conto di questi limiti posto che nelle
considerazioni conclusive individua un ruolo concausale nello sviluppo di
cirrosi solo in 9 dei 22 soggetti
facenti parte del gruppo ad alta esposizione
mentre per gli altri pazienti cautamente si afferma che"il ruolo
dell'esposizione del c v m nell'insorgenza di cirrosi è più difficile da
quantificare ma non può essere escluso"; delle caratteristiche della
cirrosi si è già detto nel paragrafo in cui si è trattata la associazione cvm epatocarcinoma
: nel paziente cirrotico la persistente proliferazione degli epatociti è determinata dal persistere di stimoli
infiammatori come necrosi e rigenerazione epatocitaria da virus o alcol che
incrementano in maniera rilevante il rischio di tale tumore; peraltro non
possono non richiamarsi le puntuali
osservazioni sui fattori di rischio illustrate dal consulente epatopatologo
della difesa professor Colombo nel corso della sua audizione ( udienza 11
dicembre 1998 );il consulente mette in rilievo la lesività di dosi elevate di
alcool che viene sottoposto a una
ossidazione metabolica a tre livelli nella cellula epatica producendo una
addotto- l'acetaldeide- assai instabile che si aggrega alle proteine
strutturali della cellula epatica che determinano delle lesioni cellulari
ovvero producono a loro volta dei composti che suscitano reazioni
immunologiche;
la dose pericolosa è individuata in 80 grammi e l'epatopatia
alcoolica può portare a morte anche senza evolvere in tumore epatico; il
rischio di infezione da epatite b determina cirrosi e come già si è visto e'
inesorabilmente connesso con lo sviluppo dell'epatocarcinoma, che peraltro è
assai lento, anche se si calcola che milioni di persone all'anno muoiono per
tale tumore avente come fattore eziologico l'infezione virale : il virus
dell'epatite b determina necrosi e rigenerazione continua degli epatociti e
quindi mitosi che amplifica l'eventuale danno genetico : il virus b ha quindi
in sé sia la capacità genotossica di ledere il genoma e altresì ha la capacità di promuovere il tumore con una
continua infiammazione degli epatociti;il virus dell'epatite c identificato nel
1989 ha consentito alla comunità scientifica di riclassificare e rivalutare
malattie la cui identificazione eziologica era stata problematica;in particolare
taluni studi hanno evidenziato che la stragrande maggioranza dei pazienti con
cirrosi non classificabile come da virus b o da abuso di alcool avevano la
epatite c la quale può evolvere in epatocarcinoma: l'80% dei pazienti italiani
con carcinoma epatocellulare è
cronicamente infettato dal virus c che nella fase precedente causa una cirrosi
correlata all'epatite virale c;in Italia le persone affette da epatite virale c
sono stimate in circa 1 milione ma vi sono dati che indicano che questa stima è
conservativa.
Peraltro vi sono stime molto più precise concernenti la cirrosi da virus c che è stata individuata
in duecentomila italiani e questa corte di cirrotici genera almeno dieci -
ventimila casi di epatocarcinomi (così prof.Colombo ud 22/12/1998); la
incidenza di morte per cirrosi è elevata e la probabilità di sopravvivere dieci
anni dalla diagnosi iniziale in pazienti con cirrosi compensata e’ di circa il
50%;l'esame istologico dell'accertamento della cirrosi è di assoluta importanza
non solo per individuarne l'eziologia ma per individuarne le
caratteristiche e la fase a cui la
malattia è pervenuta; tutti i casi di cirrosi osservati nella casistica di
Porto Marghera per i quali era disponibile l'istologia hanno mostrato evidenza
di processi necroinfiammatori e in tutti i casi l'esame istologico ha
consentito anche di identificare l'agente eziologico coincidente con uno dei
noti fattori di rischio; in 20 soggetti l'alcool ; in 11 il virus b o c ; in 3
l'emocromatosi.
Inoltre 17 cirrosi sono evolute in epatocarcinomi e 7 erano
sorrette da epatite virale b o c;
proprio la
presenza di tali fattori di rischio ha indotto i consulenti del pubblico
ministero a ipotizzare comunque solo un
ruolo concausale del c v m , peraltro limitato nello studio di Martines a 9
soggetti e del tutto problematico per tutti gli altri.
Ritiene questa Corte corretta la conclusione in ordina al
fatto che l’eccesso rilevato in particolare nella coorte di Porto Marghera non
può essere ritenuto significativo dal punto di vista statistico, attesa appunto
la presenza di fattori di confondimento, quali epatiti e abuso di alcole, e
soprattutto per la scarsità di informazioni in
ordine ad una associazione che là dove viene evidenziata, come nello
studio Martines, si riporta solo alla categoria dei soggetti con elevata
esposizione (esposizione cumulativa maggiore di 1650 ppm). Inoltre nella
categoria intermedia di esposizione i valori di OR sono inferiori o uguali ad 1
(e cioè il rischio in questa categoria è uguale o inferiore a quello presente
nella categoria con esposizione più bassa), il che significa che il rischio non
cresce gradatamente dalla esposizione minore a quella maggiore bensì si innalza
improvvisamente, bruscamente, ed anche in termini numericamente molto decisi, solo
nella categoria con esposizione molto elevata.
Ma, sicuramente non probanti tali dati ai fini della
certezza in ordine all’idoneità del CVM a cagionare cirrosi, già si è accennato
pure ai contrastanti dati dello studio di coorte di Comba-Pirastu che evidenzia
un valore di SMR addirittura inferiore all’atteso.
Per il melanoma, sempre Berrino, assieme a Bai, precisa che
ci sono “degli aumenti di mortalità che però si basano su piccoli numeri e sono
limitati ad un solo Paese” (ud. 17.6.98), affermazione in linea con tutti gli
studi epidemiologici che individuano un eccesso proprio nei paesi del nord
Europa, in particolare in Norvegia, come evidenziato anche da Simonato, mentre
in Italia sarebbero stati osservati (relazione Vineis-Comba Pirastu del 20/4/2001)
due casi su 1,2 attesi, eccesso ovviamente non significativo oltre che isolato.
Nessuna evidenza epidemiologica anche per il tumore al laringe,
salvo un solo eccesso a Ferrara (studi Pirastu 1998, 5 osservati su 0,8
attesi), ma non nella corte europea (Simonato 1991), non nelle altre coorti
internazionali ed italiane prese in considerazione dove i casi osservati erano
nettamente inferiori all’atteso, non soprattutto nella specifica coorte (studi
Pirastu 1997) di Porto Marghera con 0 casi osservati su 5,1 attesi); anche se per Berrino si potrebbe ritenere
provato a livello logico il nesso eziologico di tale tumore con il CVM o PVC
per il fatto che riconoscendosi la causalità per il tumore polmonare la si
potrebbe dedurre anche per il tumore al laringe che “è il tubo dell’aria prima
della trachea”.
E nessuna evidenza epidemiologica per i tumori al cervello ed
al sistema emolinfopoietico per come chiaramente risulta dall’evoluzione degli
studi degli anni novanta dai quali non emerge nessuna evidenza significativa,
nemmeno nella coorte di Porto Marghera, e la mancanza di dati significativi
emerge altresì dalle testimonianze di Simonato e Boffetta.
Per chiudere invero su tale punto relativo alla non conferma
probatoria delle ipotesi ancora sostenute dagli appellanti nei rispettivi
motivi, grande rilevanza assumono proprio le testimonianze degli scienziati,
citati proprio dall’accusa come testi, Simonato e Boffetta, avvicendatisi alla
direzione delle ricerche multicentriche per la coorte europea avviate dalla IARC
proprio dopo il 1987 (e conclusesi con il rapporto Ward del 2000). Ne emerge,
come ben ricordato nella sentenza di primo grado alla cui completa e corretta
disamina si rimanda, che l’evoluzione di tali studi ha portato a falsificazione
delle ipotesi che IARC nel 1987 dava per acclarate. Si perveniva cioè a
conclusione che non esistevano prove sull’effetto cancerogeno del CVM sui tre
organi bersaglio diversi dal fegato, ed anche per il fegato mancano evidenze di
un aumento del rischio per l’epatocarcinoma in quanto i relativi dati non
sarebbero ancora esaustivi, nonché per le epatopatie evolventesi in cirrosi e
per la cancrocirrosi.
Né può sostenersi, con il P.M. che detti studi non
potrebbero sminuire le precedenti conclusioni degli organismi internazionali,
trattandosi di studi isolati. Intanto non si tratta di estemporanei isolati
studi, ma di ricerche multicentriche coordinate proprio da IARC, così come
quella per la coorte americana condotta da Wong ed aggiornata da Mundt 1999), e
poi se ne ricava comunque incertezza scientifica, così come potrebbe avvenire
se anche un solo studio accertasse, senza generale consenso scientifico, una
conseguenza nociva prima non considerata. Per tali motivi tra l’altro, per la
mancanza di esaustività e di accompagnamento quindi di una generale e
conclamata condivisibilità scientifica, si sono disattese le produzioni degli
studi, singoli sì questa volta, indicati dal P.M. che non sarebbero in ogni
caso stati decisivi neppure ai fini della dimostrazione dell’idoneità lesiva
del CVM relativamente ad ulteriori patologie non considerate dal primo giudice.
Come può dunque il giudice, in un simile contesto sposare
l’una o l’altra tesi e condannare un imputato? Non è legittimo in tal caso un
ragionevole dubbio? Non si verte nella ipotesi stigmatizzata dalle Sezioni
Unite per la quale in caso di insufficienza,
contraddittorietà e incertezza del riscontro probatorio sulla
ricostruzione del nesso causale, quindi di
ragionevole dubbio, in base all’evidenza disponibile, sulla reale
efficacia condizionante della condotta contestata rispetto ad altri fattori
interagenti nella produzione dell’evento lesivo, comportano la neutralizzazione
dell’ipotesi prospettata dall’accusa e l’esito assolutorio del giudizio?
Sulla scorta delle medesime considerazioni e con richiamo
alle medesime fonti probatorie di valenza scientifica, possono ritenersi
destituite di fondamento le doglianze degli appellanti che fanno riferimento
alla problematica di lesività del CVM a basse dosi, collegata altresì alla tesi
che vuole il CVM cancerogeno promovente e non semplicemente iniziante, nonché
alla problematica della concausalità per assunta azione sinergica del CVM con
altri riconosciuti fattori causali quali il fumo di sigarette per i tumori al
polmone ed epatiti da virus b o c ed abuso di sostanze alcoliche per i tumori
al fegato diversi dall’angiosarcoma e, in particolare, per la cirrosi.
Quanto alla problematica relativa alla
lesività a basse dose o assenza di soglia, esaustive appaiono in realtà le
argomentazioni del Tribunale che ancora una volta si è rifatto al complesso
delle evidenze probatorie al riguardo, richiamando le testimonianze dei vari
esperti. E da tutte, concordemente, emerge che comunque, a prescindere
dall’assioma scientifico che per un cancerogeno assume il principio di assenza
di soglie (spiegandosi che la ragione fondamentale della assenza di soglia per
i cancerogeni genotossici deriva dall'osservazione che la relazione tra
formazioni di addotti e dose di regola
è lineare con la dose e la probabilità che una molecola attiva incontri il
punto critico del DNA è proporzionale al numero di molecole presenti), una
soglia di fatto esiste per come può ricavarsi da tutti gli studi che mai hanno
osservato casi di angiosarcoma a dosi medio-basse (il caso ad esposizione più
bassa riguarda un lavoratore della coorte europea con esposizione cumulativa di
288 ppm), e come può ricavarsi dagli stessi dati del consulente del P.M.
Martines dai quali, nello studio caso-controllo sui lavoratori della coorte di
Porto Marghera affetti da angiosarcoma epatico, epatocarcinoma, cirrosi epatica
e epatopatia cronica, si evidenzia che per tutte le malattie considerate il
rischio non cresce gradualmente dalla esposizione minore a quella maggiore,
bensì si innalza bruscamente solo nella categoria con esposizione alta. Inoltre
il consulente sottolinea che tutti i casi di angiosarcoma si sono manifestati
in quei lavoratori che subirono la prima esposizione in un arco di tempo molto
ristretto compreso fra il 1955 e il 1967 e ha altresì evidenziato che i tempi
di latenza media sono di 29 anni e il tempo di esposizione media dei lavoratori
che sono stati affetti da angiosarcoma era di 18 anni.
In realtà nella comunità scientifica e' messo in discussione
soprattutto l'assioma della equivalenza alte-basse dosi, così come può
ricavarsi dai dati forniti questa volta dagli esperti della difesa che, oltre
ai risultati degli esperimenti sugli animali, dai quali risulta che nessun
angiosarcoma si è verificato al di sotto dei 10 ppm (memoria di Corrado Galli
del 19.1.1999 e poi la relazione di Dragani del 9.12.99) hanno fatto
riferimento alle ricerche di uno studioso americano, Ames, e ai risultati delle ricerche sperimentali di un altro
studioso americano, Swenberg, le
cui conclusioni sono nel senso che gli attuali limiti occupazionali sono
sicuri, proprio per l’esistenza di una soglia. In particolare Ames, ricercatore
di biologia molecolare, afferma che "vi sono sempre più prove che la
scissione cellulare causata dall'alto dosaggio, piuttosto che dalla sostanza
chimica in se', aumenti il tasso di positività poiché ogni volta che una
cellula si divide aumenta la probabilità che si verifichi una mutazione e così
aumentando in tal modo il rischio di tumori”, affermazione che pare in concordanza
con i menzionati dati di Martines dai quali, come ripetutamente ricordato, si
evidenzia che per tutte le malattie considerate il rischio non cresce
gradualmente dalla esposizione minore a quella maggiore, bensì si innalza
bruscamente solo nella categoria con esposizione alta. Onde nella comunità
scientifica, alla luce dei risultati sperimentali negativi alle basse dosi e
altresì della osservazione epidemiologica sulla base degli aggiornamenti delle
coorti americane ed europee da cui risulta che nessun lavoratore esposto per la
prima volta c v m rispettivamente dopo 1968 e dopo il 1972 risulta essere
affetto da angiosarcoma, si propende a ritenere che le esposizioni normativamente imposte e osservate sono sufficientemente
protettive ( Storm-1997).
Condivisibili
dunque appaiono le supportate conclusioni del Tribunale sul punto. E non può
poi non osservarsi che comunque nessuna prova del contrario hanno offerto le
accuse pubbliche e private ed i loro consulenti, e soprattutto nessun concreto
evento dimostra, provato specificamente che sia stato determinato da basse
esposizioni a CVM, la rilevanza a tali fini delle basse esposizioni e la
concreta assenza di soglia.
Può
qui collegarsi anche la tematica dell’assunta natura di cancerogeno promovente
del CVM, che così, anche in forza di successive medio-basse esposizioni
esplicherebbe i suoi effetti nocivi con accelerazioni dello sviluppo delle
patologie e riduzione della aspettativa di vita. Ma anche sul punto le
doglianze degli appellanti non sono sorrette da una legge di copertura che
possa suffragare l’assunto, in quanto, certamente ormai comprovato che il CVM è
un cancerogeno iniziante ad alte esposizioni, della sua efficacia promovente
non vi è invece alcuna certezza scientifica, e valga al riguardo l’approfondita
disamina del Tribunale.
Certo non seguibile il P.M., che nel dolersi che non può
affermarsi che non c’è alcuna diminuzione di rischio per le coorti di assunti a
partire dal 1974, tenendo conto del tempo trascorso dall’assunzione, in quanto
gli assunti in anni più recenti non hanno ancora maturato la “latenza”
necessaria perché si manifesti una patologia (soprattutto in riferimento a
quelle patologie per le quali il periodo di latenza può essere molto lungo),
onde non vi è alcuna evidenza empirica che gli assunti dal 1974 in poi abbiano
sperimentato un vantaggio in termini di salute rispetto agli assunti negli anni
precedenti, porterebbe a ritenere rilevanti nella pronuncia del giudice penale
relativa a reati ad evento di danno le prognosi di eventuali danni futuri, cosa
che ovviamente è fuori dall’accertamento che ci occupa in relazione ai reati
qui in considerazione, anche ove una tale prognosi, ma così non è, fosse
legittimata dalle evidenze processuali.
Quanto alla problematica della concausalità per assunta
azione sinergica del CVM con altri riconosciuti fattori causali quali il fumo
di sigarette per i tumori al polmone e epatiti da virus b o c ed abuso di
sostanze alcoliche per i tumori al fegato diversi dall’angiosarcoma ed in
particolare per la cirrosi, non si può seguire il P.M. appellante laddove
sostiene che nessuno potrebbe dire che, nel procedimento penale in questione,
sia stata davvero fornita la prova certa che i tumori al fegato erano stati
cagionati esclusivamente dal consumo di alcool, così come che quelli al polmone
erano stati cagionati esclusivamente dal fumo di sigaretta, o che i lavoratori
deceduti avessero contratto dette malattie a causa di un consumo di alcool e di
sigarette avvenuto successivamente alla loro esposizione al CVM. Dunque,
secondo il P.M., in nessuno dei casi esaminati dal Tribunale fumo ed alcool
avrebbero potuto essere considerati, ai fini della corretta applicazione della
legge penale, concausa sopravvenuta degli eventi.
Eppure, nonostante
tale indiscutibile evidenza probatoria, il Tribunale si sarebbe ritenuto
dispensato dal dover svolgere
quell’accertamento sul tema della rilevanza concausale
dell’esposizione a CVM che l’accusa aveva prospettato, avendo postulato quell’apodittica ed erronea
affermazione di ordine generale secondo cui
la mancanza dell’idoneità causale rende, per ciò solo, il fattore
inidoneo ad essere concausa di un evento, in tal modo sono state ignorate
circostanze provate dall’accusa che avrebbero potuto e dovuto essere valutate
con attenzione in siffatta ottica di approfondimento del tema. In particolare,
evidenzia il P.M. con riferimento agli elementi che dovrebbero ritenersi
probanti ai suddetti fini, erano stati dimostrati i ritardi e le omissioni in
relazione agli spostamenti dei lavoratori, fumatori o bevitori, che, in
passato, erano stati esposti ad alte concentrazioni di CVM. In casi del genere,
l’esposizione a CVM oltre che ad essere determinante sotto il profilo
concausale avrebbe potuto e dovuto essere considerata dal Collegio anche in
relazione agli effetti di accelerazione dell’insorgenza della malattia,
così come i Consulenti tencici di parte dell’accusa (in particolare i
medici Bracci, Rodriguez, Bartolucci e
sopratutto Martinez) avevano puntualmente, ma inutilmente, evidenziato.
Ma, ritiene la Corte, il problema è sempre lo stesso.
Seppur infatti potrebbe seguirsi il P.M. laddove censura l’affermazione del
Tribunale secondo la quale se non è provato che un fattore sia da solo causa
neppure può essere concausa, resta poi da dire e da provare che eventualmente
una sostanza pur non avendo da sola capacità lesiva, diventi nociva interagendo
con altre sostanze ovvero aumenti la capacità lesiva di altre sostanze; resta
cioè da dire e da provare da dove emerge che CVM e alcol o CVM e fumo abbiano
capacità di interagire in senso deterministico per tumori al fegato –si intende
epatocarcinoma- e tumori al polmone, o per epatopatie o per cirrosi, laddove
peraltro manchi prova di idoneità astratta di tale sostanza in ordine a tali patologie
e laddove invece non può certo sostenersi che il consumo di alcol o il fumo, di
per sé soli e quindi disgiunti ed a prescindere dall’esposizione a CVM, siano
privi di efficacia causale in ordine, rispettivamente, alle patologie stesse.
Pienamente condivisibile al riguardo è l’osservazione del Tribunale secondo la
quale il nostro ordinamento (art 41 c p) non autorizza l’assunzione di un
“modello debole “di causalità e lo statuto epistemologico della concausa impone
che anch’essa trovi adeguata spiegazione in leggi di copertura.
In realtà lo stato delle conoscenze non consente di pervenire a nessuna
conclusione in ordine alla sussistenza di tali meccanismi sinergici. E certo
non può dirsi che una tale evidenza emerga dalle spiegazioni date dai consulenti
dell’accusa, ancorate in realtà a deduzioni più che a dati di osservazione, di
sperimentazione o di biologia molecolare di comune interpretazione nella
comunità scientifica.
Ma al di là
di ciò, che già tronca ogni possibilità processuale di ritenere una sinergia e
quindi un’azione concausale del CVM in patologie relativamente alle quali da
sola detta sostanza non risulta idonea ad esplicare effetti deterministici, è
poi da censurare il ragionamento degli appellanti che vorrebbero
sostanzialmente invertire i termini probatori e di accertamento proposti dalle
pluririchiamate Sezioni Unite: il probelma invero non è se nel procedimento
penale in questione, sia stata davvero fornita la prova certa che i tumori al
fegato erano stati cagionati esclusivamente dal consumo di alcool, così come
che quelli al polmone erano stati cagionati esclusivamente dal fumo di
sigaretta, o che i lavoratori deceduti avessero contratto dette malattie a
causa di un consumo di alcool e di sigarette avvenuto successivamente alla loro
esposizione al CVM, dovendo invece emergere la prova del contrario, in forza
però di elementi forniti dall’accusa o comunque in ogni caso acquisiti e chiari
in atti, e cioè che, assunta comunque una legge anche statistica con ricorrenza
frequentista medio-bassa (che nella specie, come già esposto, rispetto alle
patologie per le quali il P.M. invoca la concausalità dell’azione del CVM,
manca), positivamente si possa escludere un altro possibile fattore causale.
Sulla scorta di quanto succintamente sopra osservato,
ma con riferimento alla complessità degli elementi dai quali le suddette
sintetiche considerazioni sono tratte, e con considerazione altresì delle
contrapposte tesi delle parti, ritiene dunque la Corte da confermare il
giudizio del Tribunale secondo il quale, come sopra già ricordato, tutti i dati
di conoscenza introdotti nel presente processo, molteplici e aggiornati,
valutati complessivamente, e altresì l’esame dettagliato e la valutazione
critica, con specifico riferimento alla coorte di Porto Marghera, dei dati
epidemiologici e delle risultanze sperimentali anche di biologia molecolare con
approfondimento delle caratteristiche nosologiche e morfologiche delle
neoplasie alla luce dei contributi dei
consulenti medico-legali e anatomo patologi, non consentono di ritenere
sussistente una associazione causale tra cvm-pvc e tumori diversi
dall'angiosarcoma e patologie che non siano la sindrome di Raynaud e
l'acrosteolisi nonchè tipiche epatopatie interessanti l'endotelio, mentre
neppure può ritenersi sussistente la prova di una efficienza lesiva anche a basse dosi e in particolare a quelle
esistenti dal 1974 in poi.
Dunque sono
da tenere in considerazione le sole esposizioni eziologicamente rilevanti dal
punto di vista temporale, con le conseguenti implicazioni sia sotto il profilo
della riferibilità delle imputazioni agli imputati tutti tratti in giudizio, sia sotto il profilo della
addebitabilità per colpa degli eventi, atteso che le condotte cui riferire
causalmente gli eventi sono antecedenti al 1974. Mentre per il periodo
successivo, non sussistendo la prova di una idoneità lesiva di tale sostanza
alle basse dosi successive, immediatamente contenute nei limiti imposti dalle
norme cautelari e poco dopo ridotte anche al di sotto degli stessi (e quindi
nell'ambito di un rischio consentito nell'attività di impresa), non si
ravvisano neppure condotte cui
causalmente riferire e colpevolmente addebitare tali eventi.
Conclusivamente
ritiene dunque la Corte insussistenti i reati di omicidio colposo e lesioni
personali colpose con riferimento ai contestati casi in cui detti eventi sono
conseguenti a tumori diversi dall’angiosarcoma, a cirrosi ed ad epatopatie non
caratterizzate da tipiche lesioni da cvm, relativamente alle quali la
letteratura esaminata evidenzia associazione non già all’esposizione a cvm,
bensì a consumo alcoloico o a epatiti virali.
Né,
relativamente a questi eventi, ad una conclusione diversa sotto il profilo
causale potrebbe pervenirsi, trascurando il dato dell’assenza di legge di copertura,
sulle mere conclusioni dei consulenti dell’accusa. Davvero superfluo a questo
punto dilungarsi; pleonastico apparendo pure il ricorso agli stringenti rilievi
del clinico epistemologo Federspil, portati in processo dalla difesa Pisani,
sulle diagnosi medico-legali dei consulenti dell’accusa, da Bracci a Rodriguez
a Bartolucci, ed ai principi scientifici di ricostruzione delle catene causali
o di provata concretizzazione della legge universale o statistica di copertura
cui si debbono ispirare i medici-legali nelle diagnosi causali.
E così pleonastico è il ricorso ai concetti
filosofici che, con l’ampio respiro che ha caratterizzato la trattazione delle
problematiche in questo davvero unico processo, sempre la difesa Pisani ha
voluto far emergere con il contributo del filosofo della scienza Evandro Agazzi
in ordine proprio al problema delle concretizzazioni di leggi universali o
statistiche, cioè alle condizioni in forza delle quali si può dire che una
legge statistica è capace di spiegare un evento singolo. E’ sufficiente infatti
osservare come le diagnosi effettuate in processo siano monche proprio in
merito all’accertamento di questa concretizzazione, fermandosi sempre a dare
per scontato il nesso causale solo in conseguenza della ritenuta esposizione al
rischio.
Nello specifico, quanto alle epatopatie, si è già accennato
come l’ormai intervenuta prescrizione di tutti i reati di lesioni personali
colpose contestate deve portare, a mente dell’art. 129, 1° e 2° co., c.p.p.
alla relativa declaratoria tutte le volte che non emerga all’evidenza una causa
assolutoria, sia relativa alla sussistenza del reato che alla commissione da
parte dell’imputato, che alla imputabilità sotto l’aspetto psicologico.
Una tale pronuncia interesserà dunque, non ricorrendo
appunto all’evidenza alcune delle predette ipotesi assolutorie (si riformerà
sul punto la sentenza là dove ritiene l’assenza della colpa in merito ai reati
di cui si discute) senz’altro i reati stessi relativamente ai casi ai danni di Bartolomiello Ilario, Poppi Antonio, Salvi
Andrea, Scarpa Giuseppe, Sicchiero Giorgio, già riconosciuti dal Tribunale come
eziologicamente determinati dall’esposizione a CVM, individuandosi, sulla base
degli studi analiticamente esaminati dal Tribunale (alla cui disamina, in
effetti puntuale, si rimanda), in capo agli stessi le tipiche lesioni epatiche
indotte dalle alte esposizioni a cvm (alterazioni istologiche epatiche, alcune
precoci e reversibili, quali la iperplasia focale degli epatociti e dei
sinusoidi, altre tardive e irreversibili, quali la fibrosi perisinusoidale e la
fibrosi portale e capsulare).
Ma analoga declaratoria deve pronunciarsi almeno
relativamente alle lesioni personali colpose per le epatopatie cui furono
affetti Brussolo Sergio, Granziera Enrico, Foffano Ferdinando, Leonardi
Giannino, Pardo Giancarlo e Serena Rino.
Brussolo Sergio, addetto al laboratorio quale analista,è
stato esposto dal 1961 al 1974 a concentrazioni elevate e comunque idonee.
Fino al 1975 erano state riscontrate dei lievi incrementi enzimatici che sono ritornati
normali. Nel 1982, e quindi sette anni dopo la cessazione dell'esposizione,
subisce un ricovero ospedaliero in cui gli viene diagnosticata una epatopatia
tossica da c v m.
L'esame istologico evidenzia una steatosi con accumulo di
ferro (siderosi) e insussistenza di fibrosi e quindi l'insussistenza di lesioni
tipiche riferibili all'esposizione pure elevata.
Granziera Enrico, autoclavista dal 61 al 69 e addetto
all’essiccamento dal ‘69 al ‘73 e quindi allontanato, ha avuto una sofferenza
biliare manifestatasi nel 1971 e una epatomegalia con aumento di valori di GOT
e gGT nell'ambito di un quadro evolutivo di epatite virale b messa in evidenza
dall'esame autoptico.
E' deceduto per neoplasia gastrica ancorché mai esposto a
dicloroetano.
Foffano Ferdinando, addetto all’insaccamento, essicamento,
trasferimento resine dal 1964 al 1980; epatomegalia accertata già nel 1972; nel
1980 viene riconosciuta dall’INAIL la natura professionale della malattia.
Leonardi Giannino, autoclavista, addetto all’essiccamento
dal 1961 al 1977; danno epatico cronico con minimo grado di fibrosi evidenziato
dal 1977.
Pardo Giancarlo, autoclavista dal 1961 al 1978; epatopatia
cronica accertata dal 1974 e coesistenza di disturbi circolatori alle mani.
Serena Rino, autoclavista dal 1970 al 1981, nega da sempre
consumo di alcool, danno epatico cronico.
Ora, osserva la Corte che per i suddetti casi, le alte
esposizioni cui furono soggetti tutti fino al 1974 e la natura delle patologie
compatibile con quelle ritenute astrattamente riferibile al cvm, seppur possono
poi sussistere elementi di contrasto, non consentono di ritenere evidenza di
sussistenza d’ipotesi assolutoria, onde si impone, come sopra detto, e come per
i casi di epatopatie da CVM riconosciuti dal Tribunale, immediata declaratoria
di prescrizione.
Non così per tutte le altre ipotesi di epatopatie contestate
per le quale, come ben evidenziato dal Tribunale il cui giudizio sul punto è
pienamente condiviso e fatto proprio anche nella motivazione da questa Corte, o
non si ravvisano le classiche lesioni da CVM, ovvero sussistono fattori di
confondimento, abuso di sostanze alcoliche o epatiti da virus b o c, che
rendono del tutto non provata l’ipotesi, neppure potendosi ritenere idonee
almeno ai fini di un qualche dubbio le diagnosi dei medici legali dell’accusa,
peraltro puntualmente contraddette dagli esperti della difesa, per la non
conseguenzialità delle diagnosi stesse puramente ancorate ad assunta
esposizione a rischio.
Come già osservato dal Tribunale, i consulenti medico legali
del pubblico ministero sono infatti partiti dal presupposto che sulla base
delle indicazioni precauzionali di IARC 1987, il nesso causale fra esposizione
a cloruro di vinile e le patologie in tale pubblicazione individuate dovesse
darsi per scontato ("questa non è un indagine fatta per stabilire il nesso
causale…perché siamo partiti dal presupposto che ci sia un nesso causale tra
esposizione a c v m e una serie di patologie "- così prof. Berrino :ud
17/06/1998 pag. 102 ). Impostazione giustamente non condivisa dal Tribunale,
sia perché i fattori noti di epatopatia sono ben più numerosi di quelli
indicati dal consulente del pubblico ministero sia perché è viziata da evidente
contraddizione laddove si sostiene la associazione concausale di tale sostanza
anche in assenza di lesioni tipiche da CVM, e per contro in presenza unicamente
di lesioni agli epatociti correlate ad individuati e noti fattori eziologici.
Ed anche nelle diagnosi rinnovate, a seguito dell'intervento
del tribunale, che ha disposto la acquisizione di tutta la documentazione
medica aggiornata e l'effettuazione di una serie di accertamenti diagnostici
sulle parti offese, quando è stato
possibile, non si è abbandonata l'impostazione di partenza, omettendosi,
come ancora correttamente osservato dallo stesso Tribunale, doverose
valutazioni delle più probabili ipotesi eziologiche alternative rispetto a
quelle presupposte e non dandosi il dovuto rilievo alla durata e all'intensità
della esposizione, e quindi alla anamnesi lavorativa, che è invece una tappa
essenziale nella diagnosi di una malattia a eziologia tossica. Tanto più nel
caso di malattie con una eziologia multifattoriale, quali le epatopatie.
D’altra parte, ancora rileva correttamente il Tribunale, in
quasi tutti gli altri casi esaminati dai consulenti è stato riscontrato quale
fattore eziologico un elevato consumo di alcol risultante dall'anamnesi e non
messo in discussione dagli esperti del pubblico ministero (35 sono stati
ritenuti forti debitori), in un caso una epatite virale b e in sei casi la
positività alla anticorpo per l'epatite c ( e tre casi presentavano anche
l'associazione con un elevato consumo di alcol).
Ora, si è visto che ricorrere alla concausalità in presenza
di fattori causali diversi dal CVM non è nella specie sostenibile, onde neppure
in tali casi possono avere valenza probatoria i giudizi dei consulenti
dell’accusa.
Decisiva poi ai fini della valutazione dei casi di epatopatie insorte
successivamente al 1974, l’osservazione che le esposizioni successive a tale
periodo, come rilevate dai misuratori personali prima e dai gascromatografi poi
non erano idonee a causare malattia epatica professionale e, comunque, a quelle
dosi, via via approsimantisi a 5 ppm prima e a 3 ppm poi, non pare a maggior
ragione ipotizzabile una qualsiasi interazione che non è risultata
scientificamente provata neppure alle alte esposizioni.
Ritiene poi la Corte infondata la censura degli appellanti,
P.M. ma anche singole Parti Civili, secondo la quale il Tribunale si sarebbe
dimenticato di talune malattie e tumori, avendo in realtà il Tribunale tra i
casi per i quali non ha ritenuto oggettivamente integrato il reato per difetto
del nesso causale perso in esame posizioni che potevano sembrare più
problematiche, per il resto osservando, risolutamente ed in via assorbente per
tutti gli altri casi contestati e non ritenuti, che l’ipotesi accusatoria si
attestava un, erroneo per quanto premesso in diritto, “giudizio di mera
idoneità della sostanza a cui il soggetto è stato esposto, non si faccia cioè
solamente ricorso alla criteriologia della capacità lesiva, della contiguità
fenomenologica, della idoneità di sede”.
Se dunque per tutti i tumori e tutte le malattie non
ritenute mancava la prova del nesso di condizionamento, perché i medici legali,
come qui sì abbondantemente motivato dal Tribunale e come sopra ricordato da
questa Corte, si sono attestati sulla criteriologia della capacità lesiva, era
superfluo nelle finalità motivazionali, così come ancora è superfluo, elencare
i singoli tumori e le singole malattie per le quali basta tra l’altro fare
riferimento alle compiute ed analitiche ricostruzioni in atti. Vieppiù per i
singoli tumori e patologie per i quali si era esclusa già la sussistenza di
idonea prova in ordine all’idoneità lesiva del CVM.
Comunque, quanto alle epatopatie già si è testé detto in
ordine ai casi, tra quelli che secondo il P.M. si dovevano ammettere, che più
che completa delibazione di integrazione oggettiva del reato di lesioni
personali colpose, possono subire, nella mera delibazione imposta dall’art.
129, 1° e 2° co., c.p.p., declaratoria di prescrizione in aggiunta ai casi già
individuati dal Tribunale, riformandosi sul punto la decisione del Tribunale
che riteneva insussistente per i reati stessi l’elemento psicologico.
Per gli altri casi il quadro offerto dall’accusa e che
ancora viene portato a supporto dei motivi di appello sia da parte del P.M. che
delle singole Parti Civili è nella sostanza degli elementi fondamentali per
ritenere o per poter almeno problematicamente porsi in ordine alla sussistenza
oggettiva dei reati, è inconsistente proprio perché manca un idoneo percorso
relativo alla catena causale, se non in tutti i passaggi, almeno nella
evidenziazione della compatibilità tra il supposto punto iniziale, idoneità
lesiva in relazione a quella specifica patologia incorsa nel singolo
lavoratore, ed evento di danno lamentato, ovvero, anche ove questo possa
affermarsi, che non si versi in situazioni ove sussistano altre autonome
spiegazioni causale per le quali alcun concreto elemento in atti può consentire
l’esclusione, vieppiù ancora quando l’eventuale astratta idoneità lesiva della
sostanza incriminata nel concreto, per i tempi in cui si riferivano le
insorgenze delle patologie lamentate, risulta insussistente sulla base di
quelle che sono le conoscenze lesive (per intendersi le patologie insorte dopo
il 1974 quando in concreto, per l’abbassamento delle esposizioni in limiti
ritenuti, come abbondantemente sopra motivato, di sicurezza, non consentono in
alcun modo una spiegazione causale alla sostanza stessa riferibile.
Brussolo Sergio, Granziera Enrico, Foffano Ferdinando,
Leonardi Giannino, Pardo Giancarlo e Serena Rino.
Oltre ai
casi di steatosi, rientrano in questa categoria i casi nominativamente indicati
dal P.M.: Bertin Rino (ma è emerso: diabete in famiglia e tendenza all’obesità:
Colombo 12.1.2000), Toffanello Adolfo (ma è emerso: diabetico e sovrappeso:
Colombo, 29.02.2000), Marini Antonio (ma è emerso: sovrappeso: Colombo, ud. 8.2.2000),
Babolin Primo (obeso: Colombo e Colosio, ud. 9.2.1999), Cestaro Rino (diabetico
e obeso: Colombo, ud. 20.01.1999), Benin Arnaldo (diabetico: Colombo, ud.
12.1.2000), Scarpa Giampaolo (obesità: Tommasini, ud. 23.10.1998, e diabete:
Tommasini, ud. 11.01.2000).
E ben ha
evidenziato il tribunale che l’aumento degli enzimi epatici può essere
determinato, oltre che da consumo alcolico o da epatiti virali (fattori
considerati dai consulenti dell’accusa, pur se solo come concause), altresì da
soprappeso corporeo, diabete, steatoepatite non alcolica, accumulo epatico di
ferro e celiachia (sentenza, p. 247).
Qualche parola infine sulle patologie epatiche “tipiche” non
contestate come tali.
Né può poi
seguirsi il P.M. laddove sostiene che erano da ammettere come epatopatie i cui
casi che erano stati contestati soltanto come epatocarcinomi o cirrosi. Basti
al riguardo osservare che il fatto contestato prevedeva quel tipo di lesione
(epatocarcinoma o cirrosi) per le quali vi è già pronuncia di insussistenza del
reato: diversamente ritenere o meglio prendere in considerazione un’altra
lesione integrerebbe vera e propria immutazione non consentita del fatto
contestato, perché tra l’altro non è che il ragionamento del P.M. tende a dire
che la patologia emersa non era, ad esempio, l’epatocarcinoma o la cirrosi, ma
una semplice epatopatia, ma, escluso che le pur sussistenti patologie
contestate trovino spiegazione causale nel cvm, ritenete sussistente il reato
per una patologia non contestata che una tale spiegazione può trovare.
Trattandosi
dunque di eventi diversi non contestati in relazione alle specifiche parti
offese che vengono in considerazione.
Nessun
obbligo di pronuncia sussisteva a carico del Tribunale, non senza comunque
evidenziarsi, e tanto è pure sufficiente per ritenere infondata la relativa
doglianza del P.M. anche nel merito, che
il Tribunale, correttamente secondo questa Corte come sopra osservato,
non ha riconosciuto affatto la causalità generale per le “lesioni epatiche di
carattere generale”, ma solo per alcuni particolari tipologie delle stesse,
laddove cioè è possibile osservare una iperplasia focale in assenza di necrosi cellulare, ovvero
una iperplasia e una ipertrofia delle
cellule epatiche e delle cellule sinusoidali, con fibrosi del tutto differente da quella cirrotica che invece
procede per necrosi degli epatociti
irreversibilmente verso le complicanze cliniche più severe della
malattia e espone a un concreto rischio di sviluppo in epatocarcinoma. Infatti la fibrosi epatica che si evidenzia nei
sinusoidi - che è il prodotto di un
bilanciato susseguirsi di eventi che determina la produzione di proteine nuove
e la loro distruzione - può provocare
ipertensione per la resistenza che il tessuto fibroso contrappone al sangue
venoso in arrivo dall'intestino.
Più
frequentemente provoca ipertensione alla vena porta collegata alle vene
gastroesofagee che possono rompersi e sanguinare. Pertanto deve sempre tenersi
distinto il concetto di fibrosi epatica e di cirrosi epatica che è una
condizione clinicamente e biologicamente distinta anche se le conseguenze
possono essere assai simili e difficilmente distinguibili (rottura delle varici
esofagee) se non con un attento e accurato esame autoptico che consenta anche
di esaminare il tessuto epatico oltre a quello tumorale. (…)
Dunque, pur
a voler seguire la tesi del P.M che presuppone la legittimità di un
accertamento del reato in relazione ad evento diverso, può comunque osservarsi
che nei casi indicatoi dal P.M., 8 casi, di cui 2 cirrosi (Bernardi Narciso,
Vanin Loris) e 6 epatocarcinomi (Bonigolo Gastone, Cividale Luigi, Favaretto
Emilio, Fusaro Vittorio, Mazzucco Giovanni, Monetti Cesare), vi sono altresì
ragioni sostanziali di rigetto della tesi, in quanto non vi è prova in atti che
nei soggetti indicati nei quali era comunque insorta la cirrosi o si era
manifestato l’epatocarcinoma fossero altresì distinguibili concrete lesioni
astrattamente compatibili con l’esposizione al CVM e concretamente, sulla
scorta dei paramentri e per la mancanza di elementi di confondimento (che
invece pur vi sono, come dall’osservazione della storia clinica dei soggetti
interessati –e si rimanda alle consulenze degli esperti del P.M. ma anche della
difesa- ben emerge), effettivamente attribuibili alla sostanza in oggetto.
Quanto infine al morbo di Raynaud, parimenti da disattendere
sono le censure del P.M. che lamenta lacunosità e contraddittorietà della
sentenza e mancato riconoscimento di ulteriori tredici casi da ritenere
causalmente collegati all’esposizione a CVM.
Osserva in proposito la Corte che intanto anche in merito a
tali patologie si discute di reati ormai prescritti pur nelle nuove
prospettazioni del P.M. riguardo a precisazione dei tempi di insorgenza della
patologia e dei casi che andrebbero ulteriormente ammessi. Ma è proprio su
questo concetto di ammissione che occore nella specie, in presenza di
situazioni di prescrizione, fare chiarezza.
Ed invero, già per i
dieci casi ritenuti dal Tribunale e per i quali già il Tribunale ha pronunciato
declaratoria di prescrizione, sostanzialmente “l’ammissione” è stata effettuata
ricorrendo al concetto di probabilità logica, attesi: l’idoneità del CVM alle
alte esposizioni degli anni sessanta che interessavano i dieci lavoratori in
oggetto a causare detta patologia, la ricorrenza nella specie dei parametri
individuati di aggressione di tale morbo ingravescente finchè permanga il
contatto ma regredente una volta cessata l’esposizione, la non evidenza di
diversa, e pacificamente conosciuta, spiegazione causale, il non confondimento
in detti casi con altre diverse patologie che evidenziano simile
sintomatologia.
Ora, alla luce di tali parametri, che appaiono
corrispondenti alle spiegazioni in atti fornite dagli esperti, non si vede come
non ritenere evidente la sussistenza invece di ipotesi assolutoria per
insussistenza del fatto in relazione ai restanti casi proposti dal P.M. o
sostenuti ancora dalle singoli parti civili come, a titolo semplificativo
–anche qui non essendo necessario nella finalità motivazionale ricordare ogni
singola posizione-, Terrin Ferruccio o Zaganin Silverio o altri pure proposti
dal P.M. per i quali i predetti parametri di accertamento neppure ricorrono:
contestate già le diagnosi della sussistenza della specifica patologia e
comunque non evidenziazione di elementi, quali alte esposizioni, che
eziologicamente potrebbero giustificare la natura professionale della malattia,
vieppiù osservandosi che in diverse ipotesi addirittura, contro le spiegazioni
mediche (vedi ipotesi di Bortolozzo che si vorrebbe ammalato solo nel 1995
quando da almeno cinque anni neppure più lavorava nel petrolchimico –ma la
patologia in capo allo stesso era evidenziabile già anni prima e trovava
giustificazione nelle elevate esposizioni subite negli anni sessanta), che
vogliono il morbo regredire con l’allontanamento dall’esposizione, si sostiene
insorgenza di tale malattia pur in periodo di assenza di esposizione.
Giova comunque prendere specificamente in esame il caso di
Terrin Ferruccio, che per l’indicato periodo di insorgenza della malattia
(1995), non sarebbe neppure stato prescritto al momento della sentenza di primo
grado (ma lo sarebbe comunque ora).
In realtà, nessuna evidenza processuale può collegare
l’assunta patologia del morbo di Raynaud insorta, con primi disturbi in verità
già nel 1993 come emerge dalla sua storia clinica e lavorativa ricostruita in
atti, in capo al Terrin che solo per brevissimo periodo ai primi anni settanta
si era trovato esposto ad alte concentrazioni di CVM, mentre poi ha svolto
mansioni prevalentemente di operaio esterno, e comunque si è detto che anche
all’interno dei reparti dal 1974 le esposizioni sono da considerare basse e non
più lesive. Nel 1995 gli veniva
comunque diagnosticato dall’Istituto di Medicina del Lavoro di Padova un
“fenomeno di Raynaud nella cui genesi può aver influito la prolungata
esposizione a CVM” evidenziandosi da parte dei sanitari una “sindrome dello
stretto toracico da compressione ab estrinseco del fascio vascolo-nervoso
bilaterale (...), moderato deficit microcircolatorioarteriolo-digitale e
canestro-capillare bilaterale, prevalentemente al secondo dito della mano
destra”, e, nella formulazione della ipotesi diagnostica, i medici di Padova
sottolineavano comunque la necessità di effettuare ulteriori accertamenti. Solo
ipotetica dunque la diagnosi nell’accertamento eziologico (può aver influito),
ma in realtà neppure certa nell’individuazione della patologia per la quale si
prospettavano ulteriori acertamenti.
In ogni caso non solo non vi sono prove del rapporto causale
con il CVM, ma addirittura in questo caso emergono elementi contrari, quali un
insorgenza moltissimi anni dopo la forte esposizione, sia pure di breve durata,
quando invece tale malattia non conosce lunga latenza, e si allevia, fino a
sparire, con il cessare dell’esposizione stessa. Ma, come ben evidenziato dalla
difesa Pisani sulla scorta delle osservazioni dei propri esperti, proprio
questa circostanza, inconciliabile con un’ipotesi diagnostica che voglia
ricondurre il morbo di Raynaud da cui è affetto Terrin all’esposizione a CVM,
trova invece spiegazione nel momento in cui si considera che, sempre secondo
l’Istituto di Medicina del Lavoro di Padova, il sig. Terrin presenta una
sindrome dello stretto toracico.
Ora, osservato che
con questa definizione, “si indica un quadro sintomatico secondario alla
compressione del fascio neurovascolare nel punto di emergenza della gabbia
toracica, in sede giugulare e scapolare (...): nei pazienti compare spesso
dolore a livello brachiale e scapolare, con astenia, parestesie, claudicazione,
fenomeno di Raynaud, talora necrosi tissutale ischemica e gangrena” (citazione
della difesa Pisani da Harrison’s, Principi
di medicina interna, XIII ed. it., p. 1296), emerge definitivamente che a
livello probatorio l’assunta associazione non può sostenersi.
Per quanto riguarda il caso di Bortolozzo Gabriele si è già
velocemnte osservato che mentre la patologia già riconosciuta dal Tribunale è
evidenziabile per le manifestazioni già avute nel 1965 e compatibili con le
esposizioni che allora subiva, del tutto priva di evidenza è poi un assunta
insorgenza causalmente collegata al CVM nel 1995 quando da cinque anni aveva
addirittura cessato di lavorare all’interno del Petroilchimico e quando neppure
risultano elevate esposizioni subite dal 1974 in poi.
Quando al caso di Guerrin Pietro, unico che neppure sarebbe
prescritto essendo insorto nel 1998, al di là poi di una eventuale imputabilità
a qualcuno degli imputati posto che dal 1993 nessuno degli stessi era più in
posizione di garanzia, valgano comunque le medesime osservazioni
dell’impossibilità di una sicura attribuibilità causale all’esposizione a CVM
in anni in cui, si è detto, tale esposizione è da considerare nei limiti di
sicurezza, e permanendo, per tale patologie diverse spoiegazioni causali non
certo rare. Tanto vale anche per Silverio Zagagnin e per tutti gli altri casi
proposti dagli appellanti P.M. e Parti Civili.
La sentenza del Tribunale sul punto va dunque confermata,
solo procedendosi ad integrare la pronuncia con declaratoria di prescrizione
anche del reato ai danni di Donaggio Bruno, che ritenuto sussistente e
riconducibile alle alte esposizioni degli anni ’60, è stato affrontato dai
primi giudici nella motivazione della sentenza (sentenza, p. 259), ma poi ne è
stata omessa (per mero errore, ma interessando una specifica statuizione si
preferisce integrare la pronuncia e non ricorrere alla procedura di correzione
di errori materiali) l’indicazione nel capo del dispositivo che riguarda
declaratoria di prescrizione per i reati di lesioni personali colpose
conseguenti a morbo di Raynud ed acrosteolisi.
Infine, da rigettare per l’evidente infondatezza che non
richiede digressioni, le richieste di chi tra le appellanti Parti Civili (vedi
ad esempio Giovanni Mazzolin) invoca condanna degli imputati a risarcimento di
danni in loro favore pur nella ritenuta insussistenza del reato che li vedeva
parti offese per difetto del nesso causale con l’esposizione al CVM, ma per
altro danno, morale, per generico danno psicofisico alla salute. Ora, una tale
pronuncia non trova alcun supporto una volta assolti gli imputati dallo
specifico reato che interessa lo specifico appellante.
Ritiene ora davvero conclusivamente la Corte che, assorbite
nelle decisioni di cui sopra relative alla sussistenza dei reati in oggetto,
tutte le ulteriori doglianze di P.M. e Parti Civili connesse con la tematica
testè esaminata e dunque con le statuizioni da adottare per i reati di cui agli
artt. 589 e 590 c.p, doglianze che dunque appaiono del tutto irrilevanti
nell’economia decisionale, resta da
concretamente statuire in ordine ai soli reati di omicidio colposo per gli otto
casi di angiosarcoma già riconosciuti dal Tribunale e nei confronti degli
imputati già individuati dal Tribunale previa verifica in capo agli stessi
altresì della imputabilità delle condotte a titolo di colpa.
Va ricordato che detta riferibilità causale dei reati di
omicidio colposo per i riconosciuti casi di angiosarcoma non è gravata da
appello alcuno, onde sarebbe sufficiente richiamarsi al giudizio del Tribunale
per una sorta di giudicato interno e comunque per mancanza di specifiche
censure avanzate con impugnazioni.
Giova però rimarcare la bontà della decisione del Tribunale,
atteso che nelle loro discussioni le difese degli imputati hanno pure sostenuto
la non attribuibilità agli stessi delle condotte incriminate. In verità dette
difese si ponevano come subordinate piuttosto in contrapposizione alle
richieste di riforma degli appellanti e quindi per le ipotesi che venissero
accolte e ritenuti reati anche per periodo successivo al 1974, tant’è che come
principale richiesta invocavano pur sempre la conferma dell’impugnata sentenza.
E’ opportuno però rimarcare, sulle generali osservazioni di
assenza di responsabilità per gli imputati che si sostiene ricoprire posizione
apicale troppo alta addetta a compiti di pura amministrazione, che gli
interventi che si pretendevano da parte degli imputati ed omessi fino a tutto
il 1973 non erano di ordinaria manutenzione, ma richiedevano modifiche strutturali
che interessavano le decisioni dei vertici aziendali tutti ben consci, come di
poi si dirà nella verifica dell’elemento psicologico, della situazione di
pericolosità che interessava gli impianti per le altissime in quel periodo
esposizioni che subivano i lavoratori.
E tra i vertici va
considerato anche il Bartalini destinatario in prima persona
dell’organizzazione del sistema sanitario già inottemperante alle specifiche
norme cautelari in materia, e che, nel compito precipuo di avere a cura che la
salute dei lavoratori, se non aveva potere di intervento sugli impianti, aveva
però potere di disporre le ulteriori cautele che nello specifico potevano
salvaguardare gli operai da prolungate esposizioni (che, si è visto, sono
causalmente collegate all’insorgenza della malattia), pretendendo ad esempio,
ma anche solo richiedendo (cosa che non risulta abbia fatto nel periodo in
considerazione) allontanamento da
specifiche lavorazioni gli operai più esposti, oltre a far rispettare e curare
l’obbligo di adeguata profilassi e visite trimestrali.
I REATI DI CUI AGLI ARTT. 589 – 590 C.P.
: la colpa.
Risolta dunque positivamente l’indagine
sull’efficienza causale del cloruro di vinile solo limitatamente agli
angiosarcoma, alle epatopatie interessanti l’endotelio ed alle sindromi di
Raynaud ed acrosteolisi, il Tribunale ha peraltro ritenuto che, a parte i reati
di lesioni personali per sindrome di Raynaud ed acrosteolisi che potevano
ritenersi integrati anche nell’elemento psicologico, ma operava la prescrizione,
per i casi invece ritenuti di lesioni personali per le individuate epatopatie e
per gli omicidi colposi conseguenti ai decessi per angiosarcoma, la
riferibilità causale non era accompagnata anche dall’imputazione a titolo di
colpa.
Sosteneva in diritto il Tribunale che:
la misura della diligenza dovuta è correlata alla
prevedibilità dell’evento e la prevedibilità dell’evento deve riguardare un
evento concretamente verificatosi e non già un evento di contenuto generico o
realizzabile in via di mera ipotesi…e quindi che il dovere di sicurezza del
datore di lavoro, derivante da norme cautelari, non potrebbe operare per
qualificare la colpa specifica in un giudizio di responsabilità che concernesse
malattie di cui non fosse sufficientemente nota, al momento in cui la norma di
igiene deve essere applicata, la correlabilità con la sostanza in questione e,
conseguentemente, non potesse essere nemmeno previsto dal datore di lavoro il
rischio derivante dall’esposizione.
Riteneva dunque il Tribunale che non si poteva eludere il
problema della conoscenza o conoscibilità della nocività, e ancor più della
cancerogenicità della sostanza (e nel caso particolare del cvm) in un
determinato momento storico sia in ambito scientifico che in quello industriale
secondo il modello del c.d. agente modello. Sostiene in sostanza che anche la
responsabilità per colpa specifica, e vieppiù ovviamente quella per colpa
generica, esige la prevedibilità di eventi tipici, tali essendo quelli la cui
possibilità di verificazione fosse nota sulla base di conoscenze scientifiche
consolidate. Diversamente si sarebbe dilatato sino alla imputabilità oggettiva
il concetto di responsabilità colposa.
E dunque analiticamente procedeva il Tribunale
all’esame delle conoscenze scientifiche degli anni ‘60 – ’70, richiamando già i
primi studi negli anni ’30 negli Stati Uniti e poi gli studi in Europa -Mastromatteo e altri 1960, Torkelson 1961,
Popow 1965, Suciu e altri 1967 - e soffermandosi sugli gli studi di VIOLA e
MALTONI, esame e valutazione che lo portava a ritenere:
1) che determinanti per la conoscenza della
cancerogenità furono i risultati sperimentali di Maltoni (e non quelli di Viola
reputati inadeguati sia per il numero ridotto degli animali sia per le elevate
esposizioni sia per i risultati che avevano individuato i tumori nella pelle e
nei polmoni e non già angiosarcomi);
2) che le alte esposizioni degli anni '50 - '60
avevano provocato, oltreché effetti tossici ( svenimenti e nausee) anche casi
di acrosteolisi tra gli addetti alla pulizia delle autoclavi e il dottor Viola
era stato incaricato di approfondire sperimentalmente le cause di tale malattia
senza mai essere ostacolato in queste ricerche neppure quando pervenne alla
scoperta delle lesioni tumorali che, anzi, furono il dato preoccupante che
sollecitò l'approfondimento affidato a Maltoni;
3) che i dati degli esperimenti di Maltoni
circolarono tra il gruppo europeo e il gruppo americano che fu altresì autorizzato a visitare il
laboratorio di Maltoni e a controllare i protocolli sperimentali;
4) che i risultati, ancorché parziali, furono
comunicati all'esterno da Maltoni non solo alla comunità scientifica al
convegno di Bologna dell' aprile del 1973, ma altresì a tutte le istituzioni
pubbliche, e che le clausole di riservatezza, poste per finalità di controllo
tra il gruppo europeo e il gruppo americano, non resistettero all'evidenza e si ridussero alla fine in una moratoria di
15 giorni richiesta dagli europei per una contemporanea comunicazione dei
risultati alle istituzioni governative e ciò ancora prima che la Goodrich
evidenziasse i primi casi di angiosarcoma accertati su propri dipendenti
deceduti;
8) che già si
poneva al centro dell'attenzione la individuazione di soglie di non effetto per
l'uomo cui le imprese dovevano adeguarsi.
E dunque per il Tribunale, solo da questo momento, con la
conclamata conoscenza della cancerogenicità del CVM, avallata scientificamente
dagli studi Maltoni e dagli accertati casi Goodrich, si ponevano gli obblighi
di prevenibilità che prima del 1974 invece non si potevano pretendere per la mancata previdibilità di quegli
specifici eventi (prevedibilità e obbligo di prevenibilità invece c’era,
secondo il Tribunale, come ricordato, per gli eventi dannosi conseguenti a sindrome
di Raynaud e acrosteolisi).
Queste conclusioni, come analiticamente sopra esposto, sono
contestate in diritto e in fatto dagli appellanti che ritengono invece le
conoscenze, almeno relative alla tossicità della sostanza, risalenti, su
indicazioni normative e studi già degli anni trenta-quaranta, almeno agli anni
cinquanta, onde andavano rispettate già le norme prevenzionali specifiche di
cui ai DD.P.R. n. 547 del 1955 (artt. 236 co. 1 e 4, 244 lettera A, 246, 354
co. 1 e 2, 374, 375, 377, 383, 387, 389, 391) e n. 303 del 1956 (artt. 3, 4,
17, 19, 20, 21, 25, 58, 59) oltre che la generale cogente disposizione di cui
all’art 2087 c.c..
Ma anche la
conoscenza della cancerogenicità doveva farsi risalire almeno al 1969, con gli
studi Viola ben conosciuti in Montedison (Bartalini aveva partecipato ai
convegni in cui tali studi erano stati divulgati ed aveva poi presentato Viola
a Maltoni). Si evidenziavano dunque profili di colpa specifica e generica.
Di contrario avviso ovviamente la difesa degli imputati che
difende la sentenza proprio sul piano delle conoscenze relative non solo alla
cancerogenicità del CVM ma anche sulla tossicità, sostenendo che le precedenti
conoscenze si riferivano, oltre che all’esplosività della sostanza che non
rileverebbe nella specie, solo ad effetti tossici acuti, mentre neppure erano
conosciuti in occidente gli studi degli autori dell’est europeo valorizzati dal
P.M. relativi appunto alle indagini e conclusioni in merito alla tossicità di
detta sostanza (una serie di studi a partire dal 1949 fino a tutti gli anni sessanta),
studi che venivano recepiti solo negli anni settanta quando drasticamente, con
Maltoni ed i casi Goodrich si poneva l’attenzione anche degli organismi
internazionali a tali problematiche.
Pur dove poi, secondo la difesa degli imputati (così in discussione
in particolare la difesa Grandi-Trapasso-Belloni Gaiba), il legislatore degli
anni cinquanta classificando come tossiche le sostanze di cui alla famiglia dei
derivati degli idrocarburi alifatici, a cui appartiene il cloruro di vinile, e
dettando gli obblighi comportamentali correlati, avrebbe in realtà inteso
riferirsi solo a quelle (quali ad esempio il cloroformio) tra queste sostanze,
relativamente alle quali erano pienamente noti gli effetti tossici.
Ritiene la Corte sul punto fondati i motivi di censura
proposti dagli appellanti contro il pronunciato del Tribunale, errato in punto
di diritto, non pienamente rispondente alle evidenze processuali in punto di
fatto.
E così infondate appaiono le argomentazioni della difesa
degli imputati che ripiegano, con un distinguo tra effetti cronici ed acuti,
verso una assunta non conoscenza fino agli anni settanta della tossicità,
intesa come effetti cronici (facendo coincidere conoscenze relative alla
cancerogenicità e tossicità), e interpretano l’intenzione del legislatore,
nella classificazione delle sostanze ritenute tossiche e nell’imposizione dei
correlati obblighi prevenzionali, con limitazioni che le norme non consentono.
Ed invero, in diritto, se deve senz’altro condividersi la
preoccupazione di evitare che la colpa regredisca verso forme di responsabilità
oggettiva, neppure, come ben ha osservato il difensore della Parte Civile
Legambiente-Associazione di Protezione Ambientale Comitato Regionale Veneto, si
può soggettivizzarla sino al punto di renderla in concreto inapplicabile, di
svuotarla di contenuto.
Ma ciò che subito bisogna affermare con chiarezza è che il
criterio di accertamento del nesso causale -la sussistenza di una legge
scientifica di copertura- non può valere in tema di accertamento della colpa,
né specifica né generica. Una volta accertato in forza del modello causale
sopra ricordato che una determinata condotta sia condizione necessaria di un
determinato evento, ed una volta stabilito che quella condotta o viola
specifiche norme prevenzionali o è comunque imprudente, negligente o imperita,
si risponderà dell’evento di danno in qualsiasi modo, anche nella sua
peculiarità non prevedibile, concretizzatosi. Resta ovviamente da riempire il
concetto di colpa specifica o generica nei requisiti di prevedibilità
dell’evento, una volta per tutte operata dal legislatore con la previsione
della norma cautelare ovvero volta per volta da verificare nei casi di specie,
e di prevenibilità con l’adeguamento della condotta alla norma cautelare
ovvero, ove norma specifica imponente una determinata condotta non vi sia, alle
regole di prudenza, diligenza, perizia recepite dalla generalità.
Ma certo è che
nell’ordinamento penale e nello specifico nei reati con evento di danno alla
persona, quali l’omicidio colposo o le lesioni personali colpose, la
prevedibilità di evento dannoso che spinge il legislatore a dettare la condotta
da tenere o l’agente ad uniformarsi ad un comportamento da agente modello, non
può essere ritenuta prevedibilità di un evento tipico conosciuto o conoscibile
in forza di specifica e conosciuta o conoscibile norma scientifica di copertura
generalmente accettata nella comunità scientifica. Intanto ben può il
legislatore antinfortunistico avere in considerazione una pura ipotesi di
rischio, non dovendo certo aspettare una legge scientifica di copertura pur
nella generica previsione di dannosità di un determinato comportamento, e certo
la cogenza della norma cautelare imposta
non può essere poi condizionata a leggi scientifiche di copertura:
l’agente deve uniformarsi a prescindere da una specifica prevedibilità di un
evento tipico non ancora spiegato nella sua correlazione dalla scienza, e
risponderà pur se la sua azione ha cagionato una malattia ancora ignota
piuttosto che una nota che aveva già spinto il legislatore a dettare la norma
cautelare: vi sarebbe il nesso, questo sì spiegato scientificamente con la
corroborazione delle evidenze disponibili, vi è la colpa consistita nella
violazione di un obbligo comportamentale già mirante ad evitare genericamente
danni e non un determinato specifico danno.
Ma poi, laddove è in capo all’agente che si impone la
ricerca della prevedibilità dell’evento, ciò che occorre cercare è la mera
rappresentabilità di un evento generico di danno alla vita o alla salute; nella
specie la rappresentazione della potenziale idoneità della sostanza, senza
idonee schermature prevenzionali, a dar vita ad una situazione di danno per la
salute.
Altrimenti anche in un banale incidente stradale sicuramente
determinato magari da mera imprudenza o imperizia, se in conseguenza dell’urto
dal quale può normalmente derivare alla vittima la frattura di un osso, ne
deriva invece una patologia più grave o la morte per un meccanismo raro (ma
ovviamente, pur nella scolastica ipotesi, certo nel suo collegamento causale
con l’urto, anche se tale meccanismo viene solo successivamente e magari in
occasione proprio del processo acclarato dalla scienza), dovrebbe escludersi la
colpa.
Nello specifico delle conseguenze causate dall’azione nociva
del CVM, dunque non può ritenersi ai fini della sussistenza del requisito della
prevedibilità, la necessità, né nella colpa generica né tantomeno nella colpa
specifica, della conoscenza da parte dell’agente dei meccanismi causali della
sostanza in oggetto spiegati da una legge scientifica di copertura. In ambito
di colpa il parametro è il rischio.
Pienamente condivisibile sul punto dunque il P.M. laddove
appunto rimarca che se è vero, come affermato dal Tribunale che la colpa, a
differenza del nesso causale per il quale si ha riguardo anche a leggi
scientifiche scoperte successivamente, va accertata con riferimento alle
nozioni conosciute all’epoca in cui è stata posta in essere la violazione della
norma cautelare antinfortunistica, questo non significa che non si possa far
riferimento a tutte le conoscenze che concorrono a qualificare il rischio
conseguente ad una determinata condotta, anche mere, se serie ovviamente (come
nella specie certo seri erano gli studi Viola comunicati alla comunità
scientifica internazionale) prospettazioni di un rischio da affrontare con
l’urgenza del caso. E si ricordi fin d’ora di come certo risultarono allertati
ed allarmati i dirigenti Montedison che subito si premurarono di commissionare
a Maltoni specifici approfondimenti.
Peccato che intanto non si è operato all’interno degli
stabilimenti e verso i lavoratori esposti a quel rischio più che paventato,
adempiendo tra l’altro allo specifico, certo generico ma cogente, obbligo
imposto al datore di lavoro dall’art. 2087 c.c di curare la sicurezza, dovere
che imponeva agli imputati (quelli sopra individuati che in quel periodo, dal
1969 al 1973, si trovavano, pur nella specificità di ruolo e funzioni, in
posizione di garanzia in quanto da ognuno si potevano pretendere interventi) di
adottare precisi comportamenti e di apprestare tutti i mezzi (quelli, per non
peccare di genericità ed apoditticità, poi adottati ed apprestati a partire dal
1974) necessari per la concreta tutela della sicurezza e della salute dei
lavoratori.
E’ già, il suddetto, un sussistente profilo di colpa, se si
vuole, generica (ma il collegamento alla violazione di cui all’art. 2087 c.c.
per alcuni interpreti la rende specifica) in capo agli imputati, i quali
appunto, a prescindere dai profili di colpa (questi sì, unanimamente) specifica
correttamente individuati dagli appellanti e dei quali subito di poi si dirà,
con la divulgazione degli studi Viola (e, si badi, con le specifiche
raccomandazioni da questi date in relazione agli urgenti interventi negli ambienti
di lavoro pur in situazione non ancora comprovata scientificamente di
cancerogenicità della sostanza) dovevano valutare e gestire il rischio che si
prospettava ancora maggiore rispetto a quello che già conoscevano, ed anche di
questo di poi si dirà, in merito alla nocività del CVM.
E per farlo dovevano ricorrere immediatamente, senza
aspettare la validazione di Maltoni alle ipotesi Viola, alle cosidette “default
opinion”, cioè a dire quell’opzione, come definita dal consulente Lotti, scelta
sulla base di una politica di valutazione del rischio che sembra essere la
migliore in assenza di dati che dimostrino il contrario. Ipotesi di default che
già il Tribunale ha ritenuto non pertinenti all’accertamento del nesso causale,
ma qui, ai fini della colpa, come ancora ben colto dal difensore della Parte
Civile Legambiente-Associazione di Protezione Ambientale Comitato Regionale
Veneto, il rapporto di accertamento è invertito, e bisognava muoversi sulle
default opinion, il che vuol dire che sino a quando non si aveva la prova che
il cloruro di vinile non è cancerogeno, il datore di lavoro doveva comportarsi
esattamente come se lo fosse, cioè doveva agire sull’ipotesi di rischio.
D’altra parte della valenza scientifica degli studi Viola
non può seriamente discutersi. Viola, giova ricordarlo anche se questi dati
sono ben illustrati nella sentenza del Tribunale, non è un medico che
estemporaneamente fa una ricerca senza seguito o ascolti. E’ il medico di
fabbrica della Solvay di Rosignano che opera in ambito industriale e che da
anni studia sperimentalmente gli effetti nocivi del CVM. I dati della sua
ricerca vengono presentati a Tokio nel 1969 ad un congresso di medici del
lavoro, e poi, nel 1970 all’importante congresso di Houston dove comunica i
risultati di uno studio in cui vengono osservati tumori in topi e ratti esposti
per via inalatoria a CVM.
Detti dati vengono poi pubblicati, sempre nel 1970, a
consacrazione della recezione dello studio da parte della comunità scientifica
internazionale, su una rivista scientifica, Cancer and Research. Ma, per noi
ancora più rilevante, Viola è conosciuto personalmente dal direttore del
servizio centrale del servizio sanitario Montedison, cioè l’imputato Bartalini,
che conosce altresì i suoi studi e lo presenterà a Maltoni, incaricato appunto
da Montedison di portare avanti la ricerca sulla cancerogenicità del CVM.
In tale situazione, coincidente temporalmente proprio con il
momento iniziale della contastazione dell’imputazione, le precedenti inerzie,
fuori contestazione ma rilevanti per la valutazione dell’elemento psicologico
che sorreggeva le condotte degli imputati nel quinquennio (1969-1973) che qui
interessa, perdurarono come se nulla fosse.
Inerzie già colpevoli, per la conoscenza che comunque, e si
vedrà, si aveva della tossicità della sostanza, e dunque per la prevedibilità,
a parte le specifiche violazioni di norme antinfortunistiche che venivano in
rilievo già per la natura tossica, e tossica anche per legge, della sostanza,
di eventi di danno alla salute dei lavoratori. Inerzia già colpevole per lo
stesso Tribunale che ha comunque riconosciuto che effetti acuti, quali nausee e
svenimenti erano conosciuti, così come erano conosciute patologie che
derivavano dall’esposizione, quali il fenomeno di Raynaud e l’acrosteolisi,
peraltro ritenendo la colpa correlabile solo a tali conseguenze e non ad altre
ritenute non conosciute.
Ma tutti i vertici aziendali, da quelli operativi a quelli
medici ed a quelli di politica industriale, ben si erano resi conto che c’era
qualcosa di nuovo che poteva non più lasciar passare quell’andazzo. Allora si
attivarono, ma non nel senso dovuto; non ricorrendo ad ipotesi di default; non
intervenendo nell’ambiente di lavoro (secondo le varie direttrici poi seguite
dal 1974 in poi: abbattere i livelli di esposizione, collocare gli strumenti
prevenzionali che di poi si specificheranno nell’esame della fattispecie di cui
all’art. 437 c.p., investire in nuove tecnologie, intensificare la sorveglianza
sanitaria); non investendo cioè nella sicurezza; ma investendo nella ricerca,
così intanto procrastinando i certamente più onerosi interventi in azienda (da
rivoltare nelle concezioni lavorative e da rinnovare nelle tecnologie), e poi
con la speranza che magari tutto si risolvesse in un fuoco di paglia così da
non essere neppure tenuti a modificare nulla, cercando di non diffondere
intanto notizie che potevano allarmare il mercato (non nel senso della
segretezza sostenuta dall’accusa in quanto comunque nessun vincolo di
segretezza era dato a Maltoni, ma solo nel senso di stare zitti fino a dati
sicuri, se ne discuterà meglio trattando del reato ex art. 437 c.p.).
Intanto i lavoratori continuavano a rimanere esposti alle
alte concentrazioni di CVM che, si è accertato, ed a spada tratta lo sostiene
la stessa difesa degli imputati ed in particolare la difesa di Smai, Pisani,
Patron che più si è occupata della problematica della causalità, proprio nel
perdurare di esposizioni ad elevate dosi quali quelle di quel periodo ravvisa
quella che chiama causalità generale e cioè potenzialità, conclamata
scientificamente, di causare l’angiosarcoma epatico. Un investimento nella
sicurezza avrebbe potuto salvare i lavoratori che poi si sono ammalati di
angiosarcoma e deceduti (la richiesta prevenibilità).
Ma evidente è altresì la prevedibilità (non di una malattia
che si chiama angiosarcoma, ma di un grave danno alla salute, ed a quel punto
anche di un rischio, seppur ancora non certezza, di tumori nei lavoratori
dovuti a quelle condizioni di lavoro vigenti.
Se un tale rischio non fosse stato percepito dai vertici di
Montedison, neppure si sarebbero attivati per dare impulso alle ricerche di
Maltoni proprio sulla natura cancerogena del CVM. Il fatto è stato giudicato
positivamente dal Tribunale, ma processualmente ha solo la valenza di prova
della consapevolezza dei potenziali effetti cancerogeni del CVM, che è comunque
un grado di conoscenza sufficiente a fondare la colpa, soprattutto se ancorata
alla sicura conoscenza sulla tossicità e nocività per la salute dei lavoratori
per gli effetti già conosciuti che da soli avrebbero dovuto imporre quegli
interventi poi posti in essere a partire dal 1974.
E vediamo dunque queste conoscenze sulla tossicità della
sostanza che già avrebbero imposto, nel rispetto delle norme antinfortunistiche
invocate dal P.M. e vigenti fin dagli anni cinquanta (colpa specifica), ed
altresì nella concreta rappresentazione che già se ne poteva ricavare di un
generico danno alla salute (colpa generica), l’eliminazione delle situazioni di
rischio imperanti fino al 1974.
In merito, puntuale è la disamina degli appellanti, sia nei
dati di fatto che nell’indicazione delle correlate norme cautelari, e possono
pertanto essere integralmente recepite le conclusioni degli stessi relative sia
alla risalente conoscenza, rispetto al periodo di contestazione, della
tossicità della sostanza, sia della riferibilità alla lavorazione di tale
sostanza delle norme cautelari specificate in imputazione.
Giovano comunque, solo per migliore comprensione delle
conclusioni sul punto di questa Corte, brevi notazioni che appaiono
maggiormente rilevanti. Intanto, bisogna partire dal dato normativo che include
il cloruro di vinile, in quanto derivato
degli idrocarburi alifatici, tra le sostanze tossiche per le quali il
legislatore del 1956 (DPR n. 303), nel dettare le norme cautelari, ha
considerato non solo effetti lesivi per l’integrità fisica (il CVM è sostanza
infiammabile ed esplosiva), ma altresì effetti dannosi per la salute: prova ne
sia l’obbligo di visite mediche trimestrali. Il rimedio correlato alla
tossicità e quindi nocività della sostanza, cioè specificamente previsto dal
legislatore per prevenire i danni alla salute dei lavoratori che l’azione
tossica della sostanza può cagionare, è quello previsto dagli artt. 20 e 21 DPR
303/56 che impongono al datore di lavoro l’abbattimento delle polveri e dei gas
della cui nocività, quanto al CVM, non può discutersi attesa la classificazione
normativa come tossica, basata ovviamente su conoscenze che risalivano a studi
ed esperienza dei due decenni precedenti.
Ma quanto alla conoscenza di tale nocività per la salute del
CVM, superata pure ogni digressione, comunque compiutamente svolta nei motivi
di appello del P.M. e controdedotta dalle difese degli imputati che non negano
gli studi citati dal P.M., da Tribuk 1949 fino a Viola, ma ne contestano la
conoscenza nel mondo occidentale fino agli anni settanta (dimenticando che tra
gli studi elencati ve ne sono pure di autori occidentali), rileva verificare
quanto poteva essere noto specificamente in Montedison.
Emerge allora che già sul finire degli anni cinquanta ed
inizio anni sessanta i documenti aziendali di Montedison contenevano specifiche
prescrizioni di sicurezza sull’utilizzo del CVM, proprio in ragione della sua
riconosciuta e specificamente menzionata “tossicità” sia pure a dosi non
modeste.
Questo dato di
conoscenza è poi confessato dall’imputato Bartalini che ha riferito che le
conoscenze dell’epatotossicità del cloruro di vinile risalivano già al periodo
in cui egli compiva gli studi universitari (pacificamente ben prima del periodo
della contestazione), ed è testimoniato dal dott. Giudice, medico di fabbrica
del Petrolchimico di Porto Marghera, che pure parla di apprendimento della
natura epatotossica del cloruro di vinile dai testi universitari (si è
laureato, come emerge in atti, nel 1956) e che nella pratica in fabbrica con
queste tematiche aveva fatto i conti.
D’altra parte emerge da un documento del marzo 1999
dell’APME (Associazione Europea dei Produttori di Materie Plastiche), quindi
documento proveniente dall’Industria e non certo da controparti, che il
problema della tossicità del cloruro di vinile, quanto alla consapevolezza,
viene differenziato in tre periodi: nel primo, tra gli anni trenta e quaranta,
“vennero rilevati gli effetti acuti sull’uomo”; nel secondo, tra gli anni
cinquanta e sessanta, si evidenziano “alterazioni non specifiche della
funzionalità epatica e del sistema digestivo e respiratorio, sindrome di
Raynaud nelle mani, lesioni sclerodermiche e alterazioni ossee osteolitiche
delle falangi distali. Tutti questi effetti entrarono a far parte di quella che
diventò conosciuta come Malattia da cloruro di vinile”; nel terzo periodo,
all’inizio degli anni settanta, “si scoprì l’effetto cancerogeno del CVM”.
Emerge dunque chiaro dalle risultanze processuali l’erroneo
apprezzamento da parte del Tribunale in ordine alla conoscenza della nocività
del CVM, attestandosi, pur ancora con riferimento al periodo che si colloca a
fine anni sessanta ed i primi anni settanta quando invece già emergeva il
rischio (se non ancora un conclamato accertamento) cancerogeno, su una assunta
consapevolezza del solo rischio di esplosività della sostanza, oltre che, ma lo
tratta come una monade senza trarne alcuna conseguenza, del rischio collegato
al fenomeno di Raynaud ed acrosteolisi.
Ritiene invece la Corte, in forza degli elementi solo nei
punti salienti qui ricordati, ma più analiticamente sopra evidenziati nella
esposizione dei motivi d’appello del P.M, che non può negarsi da parte degli
imputati la conoscenza, in tal caso piena e con copertura scientifica e
legislativa fin da prima del 1969, della natura epatotossica del CVM, della sua
idoneità quindi ad aggredire almeno l’organo del fegato provocandone gravi
malattie.
E questo è l’evento oggetto della prevedibilità sufficiente
ad integrare la colpa ove non si sia tenuto un
comportamento idoneo ad evitare tale specifico rischio. Non si richiede,
e si ritorna al punto di partenza in diritto, per ritenere la sussistenza della
colpa in capo all’agente per omicidi o lesioni personali aggravati dalla
violazione di normativa antinfortunistica, la prevedibilità dello specifico
evento morte conseguente a quella specifica malattia o la prevedibilità di
quella specifica lesione, ma unicamente la previsione di un grave danno alla
salute che nella specie è resa probatoriamente evidente dalle comprovate
conoscenze già dell’epatotossicità e poi del rischio cancerogeno del CVM nelle
alte esposizioni che interessavano gli ambienti di lavoro fino a tutto il 1973;
vieppiù poi imputabili a tale titolo agli imputati detti eventi per la
specifica violazione delle norme prevenzionali che nella lavorazione di
sostanze tossiche dettava il legislatore del 1956.
Le ha elencate il
P,M, nel suo appello ed è qui ormai davvero superfluo analiticamente ricordale
atteso che le tematiche in contrapposizione tra le parti non riguardavano tanto
i comportamenti in sé, pacificamente omessi fino al 1974, ma la riferibilità
degli obblighi alle lavorazioni del CVM sulla quale ci si è testè intrattenuti,
ritenendola.
Conclusivamente sul punto dunque la Corte, ricordato che
relativamente ai reati di lesioni personali per epatopatie per le quali non
emerge altresì all’evidenza già l’esclusione del nesso causale si è sopra detto
della necessaria immediata declaratoria di estinzione per prescrizione onde la
piena delibazione sulla sussistenza dell’elemento psicologico non rileva perché
anche per tale elemento è sufficiente, in presenza di causa estintiva, la non
evidenza dell’insussistenza della colpa, quanto invece ai reati di omicidio
colposo per i casi riconosciuti di angiosarcoma, contrariamente a quanto
ritenuto dal Tribunale, la riferibilità causale alle contestate condotte degli
individuati imputati è accompagnata anche dall’imputazione a titolo di colpa.
Ora, prima di provvedere in merito a detti reati, vanno
affrontate le problematiche , sostenute ancora dagli appellanti nei motivi di
appello relative alle contestate CONTINUAZIONE, COOPERAZIONE COLPOSA e
PRESCRIZIONE, potendo detti istituti avere ovviamente influenza sulle
statuizioni da adottare in merito ai reati ritenuti pienamente integrati.
Quanto
alla continuazione ex art. 81, comma 2, c.p., ritenuta dal P.M. configurabile
fra i delitti colposi contestati, in specie: lesioni personali, disastri e
strage colposi, nonché reati ambientali vari, osserva la Corte che già in
diritto neppure infine si attagliano al caso di specie, le, dal P.M. stesso
ricordate come “isolate”, tesi dottrinali e giurisprudenziali che sostengono la
piena compatibilità della continuazione con i delitti e i reati colposi.
Invero, le ricordate pronunce ( Cass., sez. I, 24 maggio 1985, Sicchiero, che
fa espresso riferimento alla possibilità di continuazione nei reati colposi,
allorché vi sia l'aggravante di aver
agito nonostante la previsione dell'evento; Cass., sez. I, 10 marzo 1983,
Avena, che riconosce la possibilità di ravvisare la continuazione anche quando
si abbia la cosiddetta "colpa impropria", che implica, peraltro, un
reale contenuto psicologico a base della condotta dell'agente, pur se
l'imputazione sia poi a titolo di colpa e non di dolo), ma anche la ricordata
tesi dottrinaria (per la quale, in ambiti soprattutto qual è quello in
questione, di attività economiche, sarebbe senz'altro compatibile, con il
rimprovero di colpa, tanto più se "cosciente", la presenza di un
unico "disegno criminoso", realizzato dalle diverse condotte
esecutive, attive od omissive, in sé finalistiche, anche se non tecnicamente
"dolose" rispetto ai singoli fatti tipici che poi lo intergrano,
dovendosi fare riferimento non all’intera serie di elementi che costituiscono i
reati, ma solo alle mere “azioni od omissioni”), intanto pongono dei precisi
“paletti”, quali l’agire con dolo o almeno con previsione dell’evento in
violazione di norme comportamentali nel perseguimento di uno scopo, che nella
specie o non sono pertinenti, si dica dei reati a cosiddetta colpa impropria
che implicano una condotta intenzionale in cui la colpa è considerata solo agli
effetti sanzionatori, o si sono infine rivelate non sostenibili, si dica
dell’aggravante della colpa cosciente già sopra esclusa, ovvero comunque non
rinvenibili nell’intera nostra fattispecie per come strutturato l’editto di
accusa.
Dovendosi invero fare riferimento pur sempre
all’agire dell’imputato e non a teoriche di impresa, il finalistico
orientamento delle azioni od omissioni integranti i vari delitti colposi
andrebbe comunque ricercato in capo allo stesso. E cioè, l’unicità del disegno
criminoso nella perpetrazione delle condotte che realizzano più reati, andrebbe
provata, sia nella originaria progettazione (ideazione) che nella deliberazione
(volizione) che nello scopo prefisso da realizzare attraverso quei
comportamenti pur genericamente preordinati, in capo al soggetto agente che i
diversi reati infine ha commesso.
Già
è evidente come un simile ragionamento non sia sovrapponibile alle realtà del
caso di specie per come costruito nell’editto di accusa, ove i diversi
comportamenti, pur ad ammettere realizzati in ossequio a medesima politica
aziendale ed addirittura di aziende diverse per le quali neppure è coglibile
una comune condivisa progettualità ove non si voglia ritenere sufficiente
affermare che lo scopo del profitto è proprio di ogni impresa, sono posti in
essere in lungo arco temporale da diversi soggetti su piani ed in tempi
diversi. Venuta meno la possibilità di cementare ogni singola violazione di
ogni singolo imputato a quelle degli altri attraverso l’istituto della
cooperazione colposa, esclusa per quanto sopra già osservato, non si vede,
neppure seguendo le minoritarie tesi avvalorate dal P.M., come ravvisare la
continuazione tra reati colposi commessi da soggetti diversi anche nel caso di
corresponsabilità per il concorso di fattori causali colposi indipendenti.
Né,
nella specie, la continuazione potrebbe ritenersi sussistente, sempre in forza
delle suddette tesi, in capo al singolo imputato eventualmente responsabile di
più violazioni integranti reato, facendo perno sul finalistico perseguimento degli
scopi aziendali. Ed invero, non potrebbe, anche nel caso di concettuale
compatibilità tra continuazione e reati colposi, non valere in questi casi
quanto deve ritenersi necessario per la configurabilità stessa del reato
continuato: un medesimo disegno criminoso orientato al raggiungimento di un
determinato scopo (i sopra ricordati fattori intellettivo, volitivo e
finalistico per i quali occorre pure che vi sia prova) che è cosa diversa
dell’abitualità a delinquere sia pure nel perseguimento di finalità (ossequio a
determinata politica aziendale) che si perpetuano all’infinito e che
evidenziano, proprio perché non può formularsi prognosi di cessazione di
attività illecita, una pericolosità incompatibile con l’istituto.
Esclusa
dunque la configurabilità della continuazione tra i reati in oggetto, nessuna
influenza ne può derivare nell’analisi delle vicende giuridiche dei singoli
reati stessi (tempo del commesso reato, prescrizione e quant’altro).
Quanto alla
cooperazione colposa ex art. 113 c.p., contestata nell'imputazione, non paiono
condivisibili già in diritto le argomentazioni dell’accusa appellante avverso
l’esclusione della configurabilità della stessa nell’ipotesi di specie
sostenuta dal Tribunale, che rimarca appunto che mancherebbero i supposti requisiti
della "reciprocità" e "contestualità" della
rappresentazione dell'altrui condotta colposa, nei partecipi di questa
"anomala" forma di partecipazione al reato, esclusione “logicamente”
ricavabile proprio dalla dimensione diacronica enorme, che connota questa
vicenda, nonché dalla autonomia dei due "centri decisionali
organizzati" che hanno determinato le decisioni di politica d'impresa sub
iudice.
Si è sopra
ricordato come, in contrario, sostengono gli appellanti ed in specie il P.M.
che, né nella lettera né nella ratio di disciplina dell'istituto, si rinviene
una siffatta restrizione o possibilità di esclusione del suo ambito di
operatività, essendo anzi vero il contrario, in quanto il legame di
"cooperazione" su cui si fonda l’estensione di punibilità operata
dall’art. 113 c.p., non implicherebbe affatto un atteggiamento psicologico
reale e contestuale di "consapevolezza reciproca" delle rispettive
azioni, essendo sufficiente, in conformità con i requisiti della colpa, la «prevedibilità
della condotta altrui, concorrente con la propria», e realizzatrice (o
"concretizzatrice") proprio del tipo di rischio che la norma
precauzionale violata mirava ad evitare.
Ritiene la
Corte che, in conformità a costante e condivisa giurisprudenza di legittimità,
la cooperazione colposa nella ricostruzione dell’oggettiva e psicologica consumazione di un
determinato reato, non possa concettualmente prescindere dall’elemento
della consapevolezza, da parte di ciascun partecipe, dell’esistenza dell’azione
altrui in concomitanza con la propria. E se per concomitanza non deve
ovviamente intendersi contestualità, dovendosi ovviamente tenere in
considerazione tutto il tempo nel corso del quale si sviluppano le azioni e/o
le omissioni che portano all’unico risultato delittuoso, il collegamento
psicologico che unisce appunto dette varie azioni e/o omissioni nei delitti
colposi relativamente ai quali il legislatore ha così ovviato all’impossibilità
di ricorrere all’art. 110 c.p., non può non cogliersi, parimenti a quanto
avviene nel concorso ex art. 110 c.p. nei reati dolosi che in più richiede solo
l’elemento volitivo in ordine all’evento reato, nella reciproca consapevolezza
dei rispettivi comportamenti, così come nel concorso ex art. 110 c.p. è
necessario che ogni partecipe con consapevolezza e volontà dia il proprio
contributo causale all’azione dei partecipi.
Chiara in
tal senso la Suprema Corte (vedi SS.UU. 25/11/1998, Loparco, citata anche dalle
parti) che rimarca, senza possibilità, come si vorrebbe da parte degli
appellanti, di dare alla pronuncia stessa significati che infine annullerebbero
quanto con chiarezza enunciato non solo in massima ma anche in motivazione con
collegamento al caso di specie in quel processo esaminato, come “la
cooperazione nel delitto colposo di cui all’art. 113 c.p. si verifica quando
più persone pongono in essere una data autonoma condotta nella reciproca
consapevolezza di contribuire all’azione od omissione altrui che sfocia nella
produzione dell’evento non voluto”.
Qualora
detto requisito manchi, e nella specie in alcun modo emerge, neppure se ridotto
a mera conoscibilità dei comportamenti precedenti o prevedibilità dei
comportamenti futuri che presupporrebbe peraltro pur sempre un dovere di
previsione e conseguente impedimento della ipotetica violazione futura altrui
in alcun modo sostenibile nella vicenda in esame, e tuttavia si osserverà che
l’evento dipende da diversi contributi causali sviluppatisi nel tempo, non vi
sarà più “cooperazione”, ma “concorso di fatti colposi indipendenti”.
Tanto, e
per i suddetti motivi, si ritiene per le ipotesi di reato ritenute da questa
Corte, e nello specifico per il reato per il quale vi è affermazione di
responsabilità degli imputati in posizione di garanzia nel periodo in cui il
perpetuarsi delle alte esposizioni a CVM cui veniva sottoposto il lavoratore
Faggian Tullio, e quindi il concorso dei rispettivi autonomi fatti colposi, le
sopra esaminate colpose violazioni, hanno determinato l’insorgere della
malattia (angiosarcoma) e quindi l’evento letale pur intervenuto dopo
tantissimi anni, nella ormai pacifica dinamica di una tale patologia che ha
tempi di latenza anche trentennali. Non occorre, si apra una parentesi,
spendere parole per spiegare che non si condannano persone che hanno operato
negli anni 60/70 per fatti a loro estranei verificatesi trenta anni dopo, ma
per eventi collegati proprio alle loro plurime ed autonome azioni od omissioni
temporalmente collegate al periodo in cui operavano. E che le patologie di cui
si tratta nella specie abbiano tempi di latenza, rispetto alla causa
generatrice, lunghissimi, è nel presente processo dato acquisito da tutti,
anche da chi non è medico (e tra gli imputati condannati vi è pure un medico).
Quanto in particolare alle tematiche relative alla prescrizione,
le stesse risultano superate dalla decisione di merito in ordine alla
sussistenza o meno dei reati di cui si discute, alla loro autonomia e precisa
collocazione temporale sopra evidenziata.
Così, superate debbono considerarsi le argomentazioni degli
appellanti (in particolare P.M. e avv. Zaffalon per le parti civili
rappresentate) che ricollegano l’insussistenza della prescrizione per tutti i
reati contestati alla tesi che il disastro di cui al primo capo d’imputazione
sarebbe un reato eventualmente progressivo nel quale gli eventi si susseguono
l’uno a l’altro e ciascuno e tutti ne costituiscono la consumazione, onde il
tempo del commesso reato coinciderebbe con l’ultimo evento, collocabile nella
specie, per tutti gli imputati, nel 2000, ovvero che la ricollegano alla
sostenuta natura di ipotesi autonoma di reato per quanto riguarda quella
prevista dal secondo comma dell’art. 437 cp, ed infine al collegamento sotto il
vincolo della continuazione di tutti reati contestati.
Tutto ciò non ha ormai rilevanza ai fini della decisione,
posto invece che, come infra si dirà, il reato di disastro innominato colposo
per il periodo successivo al 1973 non è stato ritenuto oggettivamente
sussistente, posto ancora che per l’ipotesi ritenuta sussistente di omessa
collocazione di dispositivi antinfortunistici dai quali sono derivati infortuni
ex art. 437, 1° e 2° co., c.p. per condotte tenute fino a tutto il 1973 dagli
imputati Bartalini, Calvi, Grandi, Gatti e D’Arminio Monforte, che si
estenderebbe fino al 1999 (decesso di Faggian Tullio per angiosarcoma contratto
in conseguenza delle alte esposizioni senza gli opportuni strumenti e impianti
antinfortunistici fino al 1973) si è esclusa la sussistenza dell’elemento
psicologico del reato (dolo), e posto che il reato di cui all’art. 437, 1° co.,
c.p., in relazione all’omessa collocazione di impianti di aspirazione,
ascrivibile alle condotte omissive degli imputati Bartalini, Calvi, Grandi,
Gatti, D’Arminio Monforte, Lupo, Trapasso, Diaz, Morrione, Reichenbach, Gaiba,
Fabbri, Presotto, Belloni e Gritti Bottacco, si è ritenuto realizzato fino agli
inizi degli anni ottanta quando poi si ovviava all’omissione adeguatamente
completando l’installazione di idonei impianti di aspirazione in ogni ambiente
lavorativo a rischio, mentre insussistenti sono stati ritenute le ipotesi
stesse di reato al di là di tali limiti; e posto infine che, come sopra
osservato, la continuazione tra i reati in oggetto ed anche tra i singoli
delitti di lesioni o omicidio colposi non è configurabile.
CONCLUSIONI IN MERITO AI RITENUTI REATI DI OMICIDIO COLPOSO
Quanto dunque ai reati di omicidio colposo ai danni dei
lavoratori Simonetto Ennio, Agnoletto Augusto, Zecchinato Gianfranco, Pistolato
Primo, Battaggia Giorgio, Suffogrosso Guido, Fiorin Fiorenzo e Faggian Tullio,
deceduti appunto per angiosarcoma epatico contratto in conseguenza delle alte
esposizioni a CVM cui venivano esposti dall’epoca dell’assunzione
(rispettivamente avvenuta negli anni: 1961, 1955, 1960, 1956, 1956, 1961, 1953,
1967) fino a tutto il 1973, e dunque, per come già ritenuto dal Tribunale e non
fatto oggetto di gravame da parte di alcuno in processo, causalmente collegati
alle azioni ed omissioni degli imputati sopra individuati, azioni ed omissioni
che, come sopra, questa Corte ha ritenuto, così riformando sul punto il
giudizio del Tribunale, colpevoli (onde resterebbero integrati i reati stessi
sia nell’elemento oggettivo che in quello soggettivo), va peraltro subito
rilevato:esclusa come sopra pure già osservato la continuazione, e dovendosi
altresì considerare i singoli eventi fattispecie concrete autonome per i
contesti di tempo e di luogo in cui nello specifico si consumavano le singole
vicende sia pure in conseguenza di azioni ed omissioni che, sempre le stesse,
si reiteravano e perpetuavano in quel periodo, con esclusione quindi
dell’ipotesi di cui all’art. 589, 3° comma, c.p. che, particolare figura di
concorso formale di reati unificati quoad poenam, è incompatibile con la
pluralità, autonomia e diversa collocazione temporale delle condotte e degli
eventi di cui sopra, gli omicidi
colposi ai danni di Simonetto (deceduto nel 1972) e di Agnoletto (deceduto nel
1973) sono ormai prescritti pur nei termini della contestazione, essendo
decorsi oltre ventidue anni e mezzo dal dì della consumazione.
Quanto ai restanti casi, ritiene intanto la Corte debbano
essere escluse, oltre, come sopra osservato, la continuazione e la
configurazione dell’ipotesi di cui al terzo comma dell’art. 589 c.p., le
contestate aggravanti di cui all’art. 61, nn 1, 3, 5, 7, 8 e 11 c.p.. Ed
invero, all’evidenza insussistente nella specie, con specifico riferimento ai
reati di omicidio colposo, l’aggravante della colpa cosciente, atteso che i
termini stessi in cui è stata riconosciuta la colpa, alle cui considerazioni sopra
svolte si rimanda, non consentono poi di ritenere altresì in capo agli (rectius
a ciascuno degli) imputati la previsione dell’evento morte (che è qualcosa in
più della prevedibilità dell’evento dannoso, seppur non specificamente
individuabile, che è sufficiente, in uno con gli altri elementi richiesti, per
la configurabilità della colpa) per la possibile contrazione da parte di
qualche lavoratore di una patologia letale, l’angiosarcoma epatico, che neppure
scientificamente in quell’epoca si sapeva sicuramente riferibile
all’esposizione a CVM.
Ma insussistenti
altresì nella specie le ulteriori aggravanti citate, o perché nella intrinseca
loro natura richiedono (e sempre da provare in capo a ciascun imputato che ha
posto in essere un antecedente causale) una sostanziale intenzionalità
finalizzata o strumentalità cosciente (l’agire per motivi abietti o futili,
l’approfittare di circostanze di tempo di luogo o di persone tali da ostacolare
la pubblica o privata difesa, l’abusare, usare cioè con finalità distorte,
della propria autorità e delle condizioni di prestazione d’opera) che mal si
conciliano con la natura colposa dei reati che ci occupano, e che comunque non
si colgono nelle specifiche condotte dei singoli imputati; o perché
razionalmente non collegabili al delitto di omicidio (l’avere cagionato alla
persona offesa un danno patrimoniale di rilevante entità, laddove per persona
offesa deve intendersi la vittima, per il quale non può discutersi di danno
patrimoniale, e non gli altri possibili danneggiati); o perché di fatto neppure
determinate nella loro concretezza le specifiche azioni poste in essere da
ciascun imputato dopo la consumazione di ogni singolo fatto-reato che ne avrebbero aggravato le conseguenze.
A tal punto, escluse anche le suddette aggravanti e
residuando dunque singoli reati di omicidio colposo con la sola aggravante di
cui all’art. 589, 2° comma, c.p., per la violazione di norme per la prevenzione
di infortuni sul lavoro, ne deriva altresì la prescrizione, per il decorso del
termine massimo di quindici anni, dei reati ai danni di Zecchinato Gianfranco
(deceduto nel 1986) e Pistolato Primo (deceduto nel 1988), e ne va senz’altro
pronunciata la relativa declaratoria.
Residuano i casi ai danni di Battaggia Giorgio, Fiorin
Fiorenzo, Suffogrosso Guido e Faggian Tullio per i quali sono responsabili,
secondo i criteri sopra esposti che hanno fatto riferimento alle loro
specifiche azioni ed omissioni causalmente e colpevolmente collegate ai delitti
stessi, gli imputati Bartalini, Calvi, Grandi, Gatti e D’Arminio Monforte.
Possono peraltro concedersi ai predetti imputati attenuanti
generiche. In tal senso depongono le condizioni soggettive (soggetti immuni da
precedenti che possano evidenziare capacità a delinquere) e, soprattutto, il
fatto che in un contesto di rilevante attività d’impresa in epoca
immediatamente susseguente al grande sforzo economico di ripresa nel secondo
dopoguerra, e nel quale tutte le componenti sia politiche che sociali che di
categoria, non solo dunque l’industria grande o piccola, avevano a cuore e
privilegiavano problematiche occupazionali e di sviluppo piuttosto che la
sicurezza ambientale o dei luoghi di lavoro, gli imputati non agivano in
disarmonia con tale scarsa sensibilità: il condizionamento dei tempi può dunque
essere considerato elemento che sminuisce le personali responsabilità
consentendo appunto la concessione di attenuanti generiche alle persone fisiche
che dei reati debbono rispondere. Attenuanti che in forza delle stesse
considerazioni possono ritenersi prevalenti sulla sussistente aggravante di cui
al secondo comma dell’art. 589 c.p. contestata.
Ora, la concessione delle predette attenuanti con giudizio
di prevalenza, comporta immediata declaratoria di estinzione per prescrizione
anche per i reati ai danni di Battaggia Giorgio (deceduto nel 1990), Fiorin
Fiorenzo (deceduto nel gennaio 1997) e Suffogrosso Guido (deceduto nel 1990),
riducendosi il termine prescrizionale massimo ad anni sette e mesi sei, ormai
decorso.
Gli imputati Bartalini, Calvi, Grandi, Gatti e D’Arminio
Monforte, già individuati dal Tribunale (e sul punto, non oggetto peraltro di
impugnazione alcuna, si richiama e fa propria la motivazione della sentenza di
primo grado) come responsabili (incolpevoli secondo il Tribunale, ma
colpevolmente a giudizio di questa Corte come sopra motivato), nelle rispettive
posizioni di garanzia, delle violazioni ed omissioni causalmente collegate
all’insorgenza, per le alte esposizioni cumulative cui venivano sottoposti i
lavoratori dal 1969 a tutto il 1973, dei riconosciuti casi di angiosarcoma,
vanno dunque dichiarati colpevoli, esclusa come sopra osservato la cooperazione
colposa ex art. 113 c.p. ed applicato l’art. 41 c.p., e condannati per il
residuo caso di omicidio colposo ex art. 589, 1° e 2° co., c.p., ai danni di
Faggian Tullio, deceduto appunto nel 1999 (reato quindi ancora non prescritto)
per angiosarcoma epatico contratto, tenuto conto del periodo di latenza che per
tale patologia, si è ricordato e ben lo ha esposto il Tribunale nella disamina
delle conoscenze scientifiche in materia, può anche superare i trent’anni, per
le alte esposizioni cui veniva sottoposto nei primi cinque sei anni
dall’assunzione (1967), e per quello che interessa in relazione
all’imputazione, dal 1969 a tutto il 1973.
Pertanto, tenuto conto delle concesse attenuanti generiche,
ritenute, come sopra già esposto, prevalenti sull’aggravante di cui all’art.
589, 2° co., c.p. mentre le ulteriori aggravanti contestate sono state escluse,
e valutati tutti gli elementi di cui all’art. 133 c.p. (da un lato la sicura
estrema gravità del fatto: per il contesto in cui avveniva in ambiente
lavorativo che dovrebbe essere vocato a soddisfare esigenze di vita dei
lavoratori al riparo da rischi non consentiti, per le irreparabili conseguenze
dannose che ne sono derivate, e per la colpa certo non lieve degli autori del
reato; ma da altro lato la scarsa capacità a delinquere degli imputati stessi
desumibile dai buoni precedenti penali e dai successivi comportamenti non
improntati a spregio delle regole del vivere civile), si stima equa per gli
imputati di pena di anni uno e mesi sei di reclusione ciascuno (pena base anni
due e mesi tre di reclusione, ridotta di un terzo per le generiche), oltre al
pagamento delle spese processuali dei due gradi di giudizio.
Ritenuto che gli imputati, considerate le loro condizioni di
vita e l’assenza di indici rivelatori di capacità a delinquere, si asterranno
nel futuro dal commettere altri reati, si concedono loro i benefici della
sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna.
I medesimi predetti imputati, nonché il responsabile civile
Edison S.p.A. in persona del legale rappresentante pro tempore, vanno
conseguentemente condannati al risarcimento, in solido, dei danni subiti dalle
costituite parti civili prossimi congiunti di Faggian Tullio, da liquidarsi in
separata sede, ove potranno con precisione puntualizzarsi e quantificarsi le
singole voci di danno, la cui sussistenza non può comunque essere posta in
dubbio.
Emergono peraltro in atti con evidenza prove in ordine alla
gravità dei danni, morali e materiali, subiti dai due figli di Faggian Tullio,
Stefano, che era ancora convivente al momento del decesso del genitore, e
Alessandro, pur non più convivente, solo a considerare che entrambi sono
portatori di handicap (sordomuti) e quindi vieppiù possono avere subito sia a
livello di sostegno morale che materiale la perdita del padre; onde si
giustifica nei loro confronti l’assegnazione della complessiva somma di euro
50.000,00 (cinquantamila) ciascuno, a titolo di provvisionale immediatamente
esecutiva ex lege; mentre già la sola considerazione del danno morale consente
di assegnare ad analogo titolo ai fratelli e sorelle costituiti (Faggian Guido,
Faggian Guerrino, Faggian Liliano, Faggian Luciano, Faggian Maria e Faggian
Elisa) la somma di euro 8.000,00 (ottomila) ciascuno.
I predetti imputati ed il responsabile civile Edison S.p.A.
vanno condannati altresì in solido alla rifusione delle spese di costituzione
ed assistenza nel presente giudizio delle parti civili medesime, che si
liquidano in complessivi euro 19.718,30 comprensivi di onorari, diritti, spese,
accessori e IVA, come da relativa parcella.
STRAGE COLPOSA EX ARTT. 449-422 C.P.
Quanto allo specifico motivo di gravame avanzato dall’Avvocato
dello Stato (sul punto il P.M. non ha proposto gravame, acquietandosi alla
decisione del Tribunale) sulla esclusione della configurabilità nel nostro
ordinamento del contestato delitto di strage colposa secondo appunto
l’originaria impostazione accusatoria da ritenersi punita "dall'articolo
449 in riferimento all' articolo 422 c p", osserva la Corte che del tutto
infondate appaiono le proposte doglianze sopra analiticamente ricordate,
laddove invece insuperabile, e la lamentata sinteticità sul punto costituisce
al contrario motivo di pregio del passo di sentenza, appare l’argomentazione del Tribunale secondo la
quale il dato testuale dell'articolo 449 c p, nell'incriminare la causazione
colposa di un incendio (articolo 423 c p) o di altro disastro preveduto dal
capo primo del titolo sesto, ha operato un richiamo selettivo ad alcune, e non
a tutte le figure di cui al capo primo, individuandone una specificamente
(l'incendio) e le altre con la denominazione di genere " disastro".
Ha individuato nominativamente l'incendio perché la norma
regolatrice di tale fattispecie è la prima nella successione delle norme
relative ai "disastri" e costituisce anche il limite iniziale della
serie delle disposizioni richiamate.
Ribadisce dunque ancora questa Corte che
nessuna rilevanza, ai fini della configurabilità giuridica di un tale delitto,
possono avere le osservazioni dell’appellante che ritiene ancorabile
l’interpretazione proposta al dato testuale che fa riferimento a tutti
“disastri” di cui al capo primo, titolo VI, libro II c.p. senza alcuna
limitazione laddove il legislatore se ha voluto escludere una qualche
previsione lo ha detto espressamente come per la ipotesi di cui al secondo
comma dell’art. 423bis c.p.; e che sostiene in astratto la conciliabilità del
reato colposo con la previsione di dolo specifico nel corrispondente delitto
doloso; ovvero che sostiene la non rilevanza ai fini di diversa interpretazione
di incongruità nel regime sanzionatorio che sarebbero frutto non già
dell’originale disegno codicistico, quanto, piuttosto, delle modifiche
settoriali di volta in volta apportate, richiamando d’altra parte l’appellante
anche un’ulteriore sviluppo interpretativo, e cioè la tesi, in dottrina, in
ordine alla possibile qualificazione degli eventi mortali di cui al delitto ex
artt. 449 – 422 c.p. come “condizioni di maggiore punibilità”, che porterebbe a
concludere per un concorso tra l’omicidio colposo plurimo e la realizzazione
colposa di una “strage” sviluppatasi in più eventi, che sarebbe idoneo in quanto
tale a risolvere ogni argomentazione in ordine al trattamento sanzionatorio; e
che ancora si richiama allo sviluppo non solo
interpretativo ma anche normativo che il bene incolumità pubblica ha
conosciuto nel corso del tempo, potendosi oggi ritenere che tale nozione sia
idonea ad abbracciare interessi rilevanti e strettamente connessi quali la
salubrità ambientale e la salute pubblica, soprattutto laddove, come nel caso
di specie, “atti tali da porre in pericolo” (ex art. 422) gli interessi
suddetti si accumulino nel corso del tempo in un progressivo acutizzarsi dei
profili offensivi ed in un conclusivo materializzarsi, accanto ad un evento di
pericolo ed al corrispondente disvalore, di un evento di danno (morte di una o
più persone, più eventi di morte, nonché ancora alla definizione
giurisprudenziale del “disastro”, la cui ampiezza si rivela del tutto
conciliabile con le caratteristiche della nuova fattispecie colposa generata
dalla combinazione delle suddette norme (art. 449 e 422 cp).
Ritiene invero la Corte che il tutto
resta superato dalla assorbente considerazione che la previsione di cui
all’art. 449 cp non riguarda ogni delitto di cui al capo primo, titolo VI,
libro II c.p. bensì solo i delitti di danno nello stesso capo considerati, e
nello specifico appunto le ipotesi, e solo, di “disastro”.
Ecco perché nell’indicazione si cita
l’incendio (che segue immediatamente la previsione del delitto di strage), che
ben può essere considerato sistematicamente in tale capo capofila degli altri
disastri previsti. Il delitto di strage non è reato di danno, bensì reato di
attentato che si consuma, una volta
realizzata la condotta tipica (compimento di atti aventi obiettivamente
l’idoneità a creare pericolo alla vita e alla integrità fisica della
collettività) indipendentemente dal cagionamento effettivo della morte o
lesione di alcuno -ed ecco perché neppure è configurabile il tentativo in
quanto già la costruzione del delitto consumato risponde ad esigenza di tutela
anticipata dell’interesse protetto-, indipendentemente cioè dal concretizzarsi
di un effettivo danno del quale, nel concetto stesso di disastro oltre che
ovviamente nelle, del tutto coerenti con tale concetto, ipotesi di disastri
tipici enumerati dal legislatore, non si può prescindere.
La stessa sentenza citata dall’appellante
(la sentenza del 16/07/1965, n.949, della Sezione IV della Corte di
Cassazione), ricorda come la nozione di disastro, in relazione ai delitti
contro l’incolumità pubblica, implica un evento grave e complesso, che colpisca
le persone e le cose. E’ questo, in effetti, l’elemento fattuale
imprescindibile, sul quale poi innescare la valutazione della suscettibilità a
mettere in pericolo la pubblica incolumità. Ora è chiaro che la strage può
realizzarsi anche attraverso una condotta che di per sé costituirebbe disastro
(il crollo di un palazzo minato che si sa essere abitato da svariate persone
–ed è il dolo specifico l’elemento in più specializzante) ma non
necessariamente (già la mera condotta di minare il palazzo che si sa abitato e
con il fine di uccidere gli occupanti, integra il delitto di cui all’art. 422
cp). Nella strage il macroevento di danno è eventuale, nel disastro essenziale.
E dunque nulla centra la strage con il reato colposo costruito dall’art. 449
c.p. che nell’elemento oggettivo richiede imprescindibilmente il danno proprio
del “disastro”. Sul punto va dunque confermata l’impugnata sentenza.
IL REATO
DI CUI ALL’ART. 437, 1° e 2° co., C.P..
Largo
spazio nei motivi di appello hanno dato sia il P.M. che le Parti Civili
all’esame della fattispecie di reato prevista dall’art. 437, 1° e 2° co., c.p.,
lamentando erronea interpretazione giuridica della norma da parte del
Tribunale, ed evidenziando censure sia in ordine all’asserita insussistenza del
reato sul piano oggettivo che in ordine all’asserita insussistenza del reato
sul piano soggettivo. I motivi sono comuni pressoché a tutti gli appellanti, ma
il P.M. li sviluppa ulteriormente in discussione richiamando a sostegno delle
proprie tesi e conclusioni copiosa giurisprudenza.
Osserva
preliminarmente la Corte che, per quanto di poca pregnanza in ordine alla
problematica su tale figura criminosa, che di poi si affronterà sia nella sua
ricostruzione astratta sia nella verifica di integrazione nella specie, frutto
di mera svista nella lettura del dispositivo di primo grado è la doglianza del
P.M., seguita anche da altre Parti Civili, relativa a presunta omessa
statuizione in ordine al reato in oggetto per il periodo precedente al 1974
pure compreso nell’imputazione, asserendosi appunto che il Tribunale dichiarava
insussistente il reato di cui all'articolo 437 (omissione dolosa di misure
cautelari), limitandosi a precisare "per condotte tenute in un'epoca
successiva al 1973 ".
In realtà il Tribunale non si è dimenticato di tale periodo,
ma ha dichiarato insussistente detto reato senza limitazioni o precisazioni
temporali (assolve tutti gli imputati di cui al capo primo dai reati di
"lesioni personali colpose" e di "omicidio colposo"
riferiti alle ulteriori persone offese, nonché dai reati di "omissione
dolosa di cautele", di "strage colposa" e di "disastro
innominato colposo" per condotte
tenute in epoca successiva all'anno 1973 perché il fatto non sussiste),
cogliendosi chiaramente che, nel contesto del capo del dispositivo in cui si
assolve per insussistenza del fatto dai diversi reati specificati, la
precisazione "per condotte tenute in un'epoca successiva al 1973” si
riferisce al solo reato di “disastro innominato colposo”, ed essendo vieppiù
chiaro questo se si pone mente che in un capo precedente del dispositivo il
Tribunale aveva adottato diversa formula assolutoria proprio per il reato di
"disastro innominato colposo" per periodo fino al 1973.
Tutto ciò, già chiaro dal dispositivo, è poi avvalorato
dalla motivazione dalla quale non può sorgere possibilità di equivoco alcuno
sul fatto che il reato in oggetto sia stato ritenuto insussistente per tutto il
periodo in contestazione; così come d’altra parte anche il reato di
"strage colposa", sia pure questo per motivazioni che attengono alla
non configurabilità di una simile figura nell’ordinamento positivo, che se si
seguisse invece la lettura degli appellanti dovrebbe pure essere stato escluso
solo per il periodo successivo al 1973: chiaro che non è così e che la lettura
è quella sopra precisata.
Parimenti, frutto di svista deve ritenersi la doglianza del
P.M per la quale il Tribunale avrebbe immotivatamente assolto dalle
contravvenzioni che si dice contestate nel primo capo d’imputazione e riferite
alla normativa antinfortunistica (DD.P.R. 547/55 e 303/56). In realtà non vi è
alcuna statuizione in merito a dette contravvenzioni, né vi doveva essere in
quanto nel primo capo d’imputazione non formano oggetto di autonoma
contestazione ma fungono da concretizzazione delle condotte prevenzionali
omesse che si ritengono oggettivamente integrare la fattispecie di cui all’art.
437 c.p. e da parametro di colpa per i reati di omicidio colposo e lesioni
personali colpose.
Ancora preliminarmente giova pure precisare che neppure può
ritenersi meramente conseguenziale la sussistenza del reato di "omissione
dolosa di cautele" al fatto che siano stati ritenuti sussistenti dei reati
di lesioni colpose per i quali il Tribunale aveva applicato la prescrizione; la
verifica dev’essere sempre quella consueta, scolastica: è stato integrato nella
sua materialità il reato? Sussiste il richiesto elemento psicologico in capo
agli imputati eventualmente responsabili della materiale violazione? E se
proprio si vuole partire dai reati di lesioni personali ritenuti sussistenti,
ma a tal punto, per quanto ritenuto da questa Corte, anche dai reati di
omicidio colposo per i decessi dovuti ad angiosarcoma epatico oggettivamente e
psicologicamente imputabili agli imputati in posizione di garanzia fino al
1973, ci si deve poi domandare se detti eventi lesivi siano causalmente
collegabili ad una violazione inquadrabile nella previsione di cui al primo
comma dell’art. 437 c.p., ed ancora se detta eventuale violazione sia stata
posta in essere dolosamente.
Fin d’ora si rimarca
infatti che una eventuale violazione pur inquadrabile nella fattispecie di cui
all’art. 437, 1° co., c.p., se posta in essere per mera colpa generica o
specifica, potrà portare, ove si collochi nella catena causale che ha portato
all’infortunio, a mera affermazione di responsabilità per il reato colposo che
ne è conseguito (ad esempio, lesione o omicidio colposo), ma non ad
affermazione di penale responsabilità per il concorrente reato di
"omissione dolosa di cautele"
che richiede appunto il dolo nei termini che di seguito si preciseranno.
Ora, attese le doglianze relative già alla ricostruzione
astratta della fattispecie di reato che ci interessa, sia nella statuizione del
primo comma che nella statuizione del secondo comma, è bene previamente
delineare i contorni astratti della fattispecie. Brevemente, ovviamente, tanto
per far intendere e consentire il controllo (si rammentino i proponimenti di
argomentare solo ai fini di far conoscere il procedimento logico decisionale
del giudicante) sull’interpretazione della norma che dà questa Corte in
relazione a quelli che sono i punti interpretativi e ricostruttivi della
fattispecie proposti dagli appellanti e, in termini diversi, dalle difese degli
imputati.
Già nell’esposizione dei motivi di appello e delle
controdeduzioni difensive si sono richiamate le tesi delle parti e specifiche
ricostruzioni della fattispecie proposte. Giova ora sinteticamente ricordare
che gli appellanti sostanzialmente lamentano, e lo hanno ribadito anche in
discussione, che il Tribunale, sul piano oggettivo, nella ricostruzione della
fattispecie ignora la norma di cui all’art. 2087 c.c. e le fondamentali norme
speciali in materia di sicurezza ed igiene dei luoghi di lavoro che sono state
contestate agli imputati, saltando a piè pari il loro indispensabile
collegamento logico e giuridico con l’art. 437 c.p., finendo così con lo
svuotare ingiustificatamente la norma penale dell’essenziale suo fondamento
precettivo e sanzionatorio, e giungendo arbitrariamente a restringerne l’operatività
interpretando riduttivamente, contro le prevalenti dottrina e giurisprudenza, i
concetti di “impianti” e “apparecchi”, oltre ad operare ancora ingiustificata
selezione delle violazioni ritenendo rilevanti solo quelle “aventi particolare
serietà”.
Sul piano soggettivo avrebbe invece ignorato il Tribunale i
molteplici elementi probatori dimostrativi della consapevolezza da parte degli
imputati non solo dell’esistenza delle norme antinfortunistiche, ma delle
stesse conoscenze scientifiche acquisite sugli effetti tossici e cancerogeni
del CVM-PVC e delle conoscenze tecnologiche destinate a prevenire gli effetti
lesivi della sostanza chimica.
Nel richiamarsi al
capo d’imputazione nel quale tutte le disposizioni normative in esso previste
sarebbero riferite all’art. 437 c.p., costituendone, le singole violazioni di
dette norme, l’oggetto dell’imputazione penale, gli appellanti, partendo dal
generale dovere di sicurezza che incombe ex art. 2087 c.c. ed in forza dei
DD.P.R. 547/55 e 303/56 sul datore di lavoro, propongono in definitiva, come
rimarcato ovviamente contestandola da parte della difesa degli imputati,
un’interpretazione dell’art. 437 come fattispecie omnicomprensiva, che sanziona
come delitto qualsiasi violazione dolosa del dovere di sicurezza, sotto
qualsiasi aspetto.
Una tale interpretazione, che prescinde dalla specificazione
delle violazioni incriminate operata dalla norma in esame, pur esse ovviamente
razionalmente aventi origine nel generale dovere di sicurezza scaturente dalla
cogente disposizione di cui all’art. 2087 c.c., non appare corretta.
Ritiene infatti la Corte che se può ritenersi che una
qualsivoglia violazione al dovere di sicurezza, tipizzata o genericamente
ancorabile ai doveri di diligenza e prudenza, può, oltre che eventualmente
integrare una specifica contravvenzione, costituire parametro di valutazione
della colpa ove si verifichi nell’ambiente di lavoro un evento lesivo
eziologicamente attribuibile ad azioni od omissioni del datore di lavoro, con
chiarezza va pure affermato che non tutte le violazioni del dovere di sicurezza
rientrano nel tipo di delitto specificamente profilato dall’art. 437 CP; vi
rientrano solo quelle concernenti specificamente la collocazione di
apparecchiature prevenzionali, così come emerge dalla stessa copiosa
giurisprudenza citata dal P.M. e dall’Avvocato dello Stato (della quale ci si
esime da analitico esame al riguardo essendo sufficiente evidenziare come
l’omissione di efficienti impianti o apparecchiature prevezionali sia sempre il
presupposto degli ulteriori concetti sviluppati), e così come correttamente
sostenuto dalla difesa degli imputati, che condivisibilmente osserva come la
selezione operata dalla norma penale corrisponde a criteri di tassatività e di
sussidiarietà, e che è stata operata dal legislatore in modo esplicito, in
quanto l'art. 437 cp è l'unica figura di delitto doloso appartenente al sistema
di tutela della sicurezza del lavoro, e quella che comporta le pene più gravi.
Alla norma è dunque assegnata una funzione di più severa
repressione di violazioni del dovere di sicurezza particolarmente gravi,
selezionate mediante una duplice caratterizzazione del fatto punibile. Sul
piano soggettivo, la responsabilità è ancorata al dolo (la colpa non basta);
sul piano obiettivo vengono in rilievo violazioni del dovere di sicurezza
specificamente tipizzate in ragione di una loro particolare gravità”.
La particolare gravità è quindi il criterio che avrebbe
orientato il legislatore nell’individuare le specifiche violazioni così
sanzionate, non certo il criterio che deve soggettivamente seguire l’interprete
nella valutazione delle violazioni eventualmente ravvisabili.
L’interprete deve solo verificare che trattasi delle
violazioni tipizzate dal legislatore nella fattispecie di cui all’art. 437
c.p., e cioè l’omessa collocazione, che dev’essere dolosa, di impianti,
apparecchi o segnali (e per capire di che cosa si tratta non può prescindersi
dal significato letterale dei termini stessi) prevenzionali, cioè che abbiano,
anche se non esclusiva, finalità (destinati a) di prevenire disastri o
infortuni; laddove poi per disastro deve intendersi la figura delittuosa,
tipica o innominata, individuata dallo stesso legislatore nel medesimo capo I,
titolo VI, libro II del Codice Penale ove è pure inserito l’art. 437, e quindi
un macroevento di danno con pericolo per la pubblica incolumità; e per
infortunio deve intendersi, così come sul punto condivisibilmente sostenuto dal
P.M. sulla scorta di ormai consolidato orientamento giurisprudenziale che dà
corpo alla nozione di infortunio dettata dall’art. 2 T.U. delle disposizioni
per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie
professionali approvato con il DPR n. 1124 del 30/6/1965, un qualsiasi fatto
lesivo dovuto a causa violenta in occasione di lavoro; non solo quindi i fatti
traumatici dovuti all’azione immediata di agenti meccanico-fisici, in quanto
“il concetto di causa violenta” deve intendersi “comprensivo di tutte le
possibili forme di lesività tali da produrre un danno al lavoratore, e quindi
quelle, ad esempio, bariche, elettriche, radioattive, chimiche, eccetera”, onde
“rientrano tra gli infortuni le ‘malattie-infortunio’, così intendendosi le
sindromi morbose imputabili alla azione lesiva di agenti diversi da quelli meccanico-fisici,
purchè insorte in occasione di lavoro”. Vedi Cass., 9/7/1990, Chili, che per
prima ha così approfondito il concetto di infortunio, seguita poi da ulteriori
pronunce della Suprema Corte in tal senso – vedi Sez. 1^ del 20.11.98 nr. 350 imp. Mantovani, nonchè la recente
sentenza del 6.2.2002 Sez. 1^, imp.
Capogrosso con la quale ancora viene spiegato in maniera molto chiara il
percorso logico per cui si arriva a dire che le malattie-infortunio coincidono,
ai fini del 437, con il concetto di infortunio rammentando che la
“giurisprudenza di legittimità ha ripetutamente chiarito che il concetto di
infortunio va identificato con riferimento alle cause e modalità di
determinazione di sindromi morbose e
non anche alle caratteristiche di tali sindromi, istantanee, permanenti o a
insorgenza graduale e differita, elaborando la categoria di
“malattia-infortunio” distinta da quella di malattia professionale “tout
court”- mentre non risulta una successiva contrastante interpretazione.
La stessa difesa tecnica
dell’imputato Smai, pur analiticamente commentando la detta sentenza Chili del
9/7/1990, evidenzia contrasti dottrinari, mentre a livello giurisprudenziali
ricorda contrasti precedenti alla sentenza Chili, ma nessuna contrastante
pronuncia successiva.
Tanto precisato in diritto, resta ovviamente da individuare
se nella specie risultino omessi nell’ambito dei reparti lavorativi del
Petrolchimico di Porto Marghera impianti, apparecchi o segnali prevenzionali, o
meglio, dovendosi ovviamente avere a riferimento l’imputazione, quelli così
qualificabili tra le contestazioni; poi se tali eventuali omissioni abbiano
determinato disastri o infortuni nel senso sopra specificato; infine se le
stesse omissioni, non l’evento lesivo eventualmente derivatone, siano dolose.
Al riguardo si osserva intanto che, se non condivisibile in
quanto eccessivamente restrittiva è la posizione del Tribunale che ritiene che
la condotta di omessa collocazione possa essere correlata soltanto a quei
sistemi o quegli apparecchi la cui collocazione sia obbligatoria sulla base di
una specifica norma di prevenzione di disastri o d’infortuni, ritenendosi al
contrario sufficiente, e lo riconosce la stessa difesa Smai, per porre i
presupposti dell’obbligo di attivarsi, il dovere generale di sicurezza, nella
parte, si intende, in cui tale dovere si specifichi come dovere di collocazione
di impianti, apparecchi, segnali, ritenendosi quindi rilevante qualsiasi
omissione di apparecchiature prevenzionali, quindi necessarie (pur se non
individuata la condotta in specifica norma antinfortunistica che già sanziona a
titolo contravvenzionale la violazione) per evitare infortuni sul lavoro, anche
se individuali, non occorrendo che l’omissione concerna apparecchi, impianti e
segnali di importanza fondamentale per la sicurezza nell’ambiente di lavoro,
può comunque seguirsi il Tribunale relativamente al punto di partenza
interpretativo là dove afferma che sotto il profilo oggettivo, la definizione
di “impianti” individua delle installazioni caratterizzate da stabilità, così
come il concetto di “apparecchi” qualifica delle attrezzature aventi una certa
complessità tecnica, diretta specificamente alla prevenzione summenzionata; del
resto, correlativamente, il termine “collocazione” corrisponde ad un’attività avente
ad oggetto una cosa dotata di stabilità strutturale.
Non coseguenziale appare però il
Tribunale nella specifica individuazione, rispetto al caso di specie ed alle
concrete violazioni contestate dal P.M. come omissioni di cautele
prevenzionali, di cosa possa essere considerato apparecchio o impianto ai fini
di cui sopra. Se infatti è vero che nel variegato elenco degli addebiti
contestati la quasi totalità sono irrilevanti ai fini dell’art. 437 (si
condividono in particolare le conclusioni del Tribunale per quanto attiene agli
addebiti di omessa sorveglianza sanitaria, di omessa trasmissione delle
informazioni ai dipendenti, di omessa adozione di particolari sistemi di
organizzazione del lavoro o di differenti procedure, di omesso controllo
dell’uso dei mezzi di sicurezza personale, di omessa separazione delle
lavorazioni insalubri, trattandosi di addebiti relativi a modalità operative e
non già invece integranti strumenti da collocare, destinati specificamente alla
funzione di prevenzione ed antinfortunistica), errata appare peraltro la
conclusione del Tribunale là dove esclude possano essere considerati apparecchi
o impianti prevenzionali i dispositivi di protezione individuale e le parti
d’impianto (valvole, rubinetti) che si dice funzionali al ciclo produttivo
laddove la fattispecie di cui all’art. 437 c.p. si riferirebbe a strumenti
aventi specificamente ed unicamente la destinazione alla sicurezza”.
Ed invero, al riguardo basti
ricordare quanto già osservato e reiteratamente affermato
anche dalla Suprema Corte (vedi le copiose produzioni di massime effettuate dal
P.M.), e cioè che è rilevante qualsiasi omissione di apparecchiature
prevenzionali, quindi necessarie per evitare infortuni sul lavoro, anche se
individuali, non occorrendo che l’omissione concerna apparecchi, impianti e
segnali di importanza fondamentale per la sicurezza nell’ambiente di lavoro.
Non si vede dunque come possano escludersi in via generale gli strumenti di
protezione individuale, senza badare alla natura dello strumento e cioè se
possa magari costituire proprio un apparecchio, quale può anche essere una
maschera di protezione dai gas.
E non si vede come possano
escludersi installazioni impiantistiche, dotate dunque di stabilità, solo
perché facenti parte di più complessi impianti produttivi, quando comunque
assolvano a finalità prevenzionali. Nello sforzo riduttivo della fattispecie di
cui all’art. 437 cp il Tribunale pretende infatti un requisito, l’esclusiva
destinazione dello strumento alla sicurezza, che in alcun modo può ricavarsi
dalla norma, che anzi, se si pone mente alla ratio e finalità, non può subire
una tale limitazione. Quello che è necessario accertare è che comunque
l’impianto o parte di impianto, pur se funzionale anche ad altre esigenze, sia
altresì di fatto rilevante nella prevenzione di infortuni sul lavoro. Ed allora
non si vede come possano escludersi le parti di impianto, valvole, rubinetti e
tenute, che avevano anche la funzione di (e quindi possono anche ritenersi
destinati a) impedire fuoriuscite di gas, laddove il rischio specifico era
proprio quello di diffusione nell’ambiente di lavoro del gas (si voglia parlare
di esplosività, intossicazione cronica o acuta o di quant’altro di nocivo ne
poteva derivare).
Non è ben comprensibile
poi il perché il Tribunale escluda anche gli strumenti di monitoraggio dal
novero di strumenti prevenzionali (dice che l’omessa collocazione di tali
strumenti “non appare” rientrarvi, abbandonando comunque la questione perché
“in ogni caso, anche a ritenere che i gascromatografi possano essere ricompresi
tra le apparecchiature summenzionate, … i medesimi sono stati effettivamente
collocati nel contesto dei singoli reparti, in termini di certa tempestività e
con efficacia sicuramente appropriata a controllare le singole zone di
lavoro”). In realtà, ritiene questa Corte, una volta chiaro che nella tipizzazione dei presupposti
dell’integrazione della fattispecie oggettiva di cui all’art. 437 c.p. si ha
riguardo a dispositivi ‘di sicurezza’, nel senso che, si cita ancora la difesa
Smai, l’obbligo di collocarli è legato a specifiche situazioni di rischio,
nelle quali l’apprestamento di un dato dispositivo costituisca l’adempimento di
un preciso ‘dovere di sicurezza’, da adempiere hic et nunc, in vista della prevenzione di dati eventi
incidentali, evidente che assolvono a tale funzione, e quindi vanno considerati
ricompresi nel novero degli strumenti considerati dalla norma in esame, gli
strumenti di monitoraggio, costituiti appunto da specifiche apparecchiature in
più stabilmente collegati in un vero e proprio impianto dotato di stabilità.
D’altra parte basti
ricordare che nessuno dubita della finalità prevenzionale di tali impianti una
volta conclamata la pericolosità della diffusione nell’ambiente di lavoro del
gas oggetto di causa e quindi la necessità di monitorare l’ambiente stesso per
prendere alla bisogna le iniziative del caso, tanto che ampiamente si
controverte in processo se gli impianti poi installati dopo il 1973 siano
idonei o meno allo scopo.
Dunque, ben separato il
concetto se piena consapevolezza di tali finalità prevenzionali soddisfabili
con detti impianti sussistesse, e magari da quando può ritenersi dovesse
sussistere con piena coscienza, concetto che attiene alla sussistenza
dell’elemento psicologico richiesto, l’oggettiva riferibilità, in relazione
alla specificità dei rischi di cui all’ambiente di lavoro di cui trattasi,
dell’omessa collocazione di tali strumenti alla previsione di cui alla norma
sanzionatrice in oggetto è da affermare con certezza. Non chiara ancora è la
mancata considerazione da parte del Tribunale degli impianti di aspirazione,
che pacificamente debbono ricomprendersi nella previsione di cui all’art. 437
c.p.: sembra in realtà che l’esclusione in questo caso sia in fatto,
ritenendosi da parte del primo giudice che detti impianti in realtà
sussistessero.
Ma una tale conclusione
è in contrasto con le risultanze processuali, sia testimoniali (quasi tutti i
testi escussi sul punto –e vedi le corrette citazioni operate dal P.M. nei
motivi di appello- hanno affermato che almeno per quanto riguarda il periodo
fino a tutti gli anni settanta gli ambienti di lavoro erano interessati da un
inferno di polvere per la lavorazione del PVC), sia documentali (le stesse
commesse pur analizzate dal Tribunale evidenziano che interventi concernenti la
collocazione di cappe di aspirazione venivano posti in essere a partire da metà
degli anni settanta –vedi la relativa documentazione e la stessa analitica
disamina fatta dalla difesa Diaz).
Ora, precisato quanto
sopra, è agevole concludere relativamente al caso di specie, che tra le
violazioni contestate dal P.M. come integranti l’oggettivo precetto di cui
all’art. 437 c.p., vengono in rilievo senz’altro le eventuali omesse, ed
ovviamente poi da determinare fino a quando omesse, collocazioni di
apparecchiature di protezione individuale quali le maschere da utilizzare da
parte degli esposti in situazioni di allarme o in lavorazioni di per sé
rischiose (quali l’ingresso in autoclave), l’omessa collocazione di idonei parti
di impianto produttivo (valvole, rubinetti e tenute) aventi altresì
destinazione prevenzionale per la loro
funzione di impedire dispersioni di gas nell’ambiente, l’omessa collocazione di
idoneo impianto di monitoraggio della concentrazione del gas nell’ambiente di
lavoro, l’omessa collocazione di impianti di aspirazione. Per le ulteriori
violazioni contestate valgano le considerazioni sopra svolte che le escludono,
sul punto condividendosi il giudizio del Tribunale, dalle condotte tipizzate
dall’art. 437 c.p.
Ora, emerge con evidenza
in atti, ed al riguardo si richiama la ricostruzione operata dal Tribunale non
contestata dalla difesa degli imputati e comunque rispondente alle evidenze
processuali ed avvalorata da tutta la serie di commesse ed interventi specifici
su tali problematiche, analiticamente ricordate dal Tribunale ma anche dalla
stessa difesa di parte Montedison (vedi in particolare memorie della difesa
dell’imputato Diaz), che solo a partire dal 1974 con una certa efficacia hanno
ovviato alle carenze del periodo precedente, che almeno fino a tutto il 1973 i
suddetti strumenti prevenzionali non risultano predisposti in modo assoluto o
almeno in modo idoneo allo scopo.
Il fatto integra
oggettivamente la fattispecie di cui all’art. 437, 1° co., c.p., ma riveste
altresì efficienza causale in merito agli infortuni, decessi per angiosarcoma e
lesioni personali per epatopatie, sindromi di Raynaud ed acrosteolisi già sopra
ritenute causalmente collegate alle alte esposizioni a CVM perduranti fino a tutto
il 1973, alte esposizioni favorite appunto
nell’azione dannosa nei confronti dei singoli specifici lavoratori
interessati, dalla mancanza dei suddetti impianti o apparecchi prevenzionali.
E dunque il fatto integra altresì, sempre
negli elementi materiali, la previsione di cui al secondo comma della norma
incriminatrice medesima, in via concorrente, come da consolidato orientamento
giurisprudenziale e come la diversità del bene protetto legittima, con i reati
di omicidio colposo e di lesione personale colposa ritenuti.
Ma se per i detti reati
di cui agli art. 589 e 590 c.p. l’indagine sull’elemento psicologico si è
fermata alla verifica della sussistenza, ritenuta, della colpa, il reato che
ora ci occupa richiede necessariamente in capo agli imputati il dolo. Come
infatti già osservato, diverso il concetto se piena consapevolezza di tali
finalità prevenzionali soddisfabili con detti impianti sussistesse, e magari da
quando può ritenersi dovesse sussistere con piena coscienza, rispetto invece
alla sufficienza, ai fini dei reati meramente colposi, di un comportamento che
si ritiene imprudente, negligente o non rispettoso di specifiche prescrizioni
cautelari di fronte ad un rischio che si pretende il datore di lavoro deve
cogliere e considerare atteggiandosi di conseguenza.
Al
riguardo, quanto appunto al dolo richiesto dalla fattispecie di cui all’art.
437 c.p., basti ricordare come la costante giurisprudenza della Suprema Corte
(si vedano per tutte le sentenze Tartaglione, Martini ed altre ancora citate e
fornite in atti dal P.M.) in modo chiaro affermi, principio non contestato da
alcuna parte processuale, che: “per la sussistenza del dolo non è affatto
necessaria, la provata intenzione di arrecare danno ai dipendenti, ma è
sufficiente la coscienza e volontà di
omettere le cautele, accompagnata dalla conoscenza della destinazione alla
prevenzione dei dispositivi e attività omesse”.
Occorre dunque, ai fini della verifica della sussistenza
dello stato psicologico richiesto dal reato (il dolo), che in capo all’imputato
possa ravvisarsi, come ben sintetizzato dalla stessa difesa Smai, a) la consapevolezza dei presupposti fattuali
dell’obbligo, cioè d’una specifica situazione di rischio non schermata; b) la
conseguente consapevole volontà di astenersi dal collocare impianti o
apparecchi o segnali, positivamente rappresentati come necessari a
neutralizzare la conosciuta situazione di rischio.
Ora, pur considerando tutte le difficoltà che
probatoriamente possono incontrarsi da parte dell’accusa nel fornire in relazione
alla condotta di ciascun imputato gli indici rivelatori esterni necessari per
valutare lo stato psicologico vieppiù nei reati omissivi, nella specie si vede
come già lo sforzo argomentativo degli appellanti, sia P.M. che Parti Civili, è fermo alla indicazione degli elementi,
conoscenza della tossicità della sostanza e poi della cancerogenicità del CVM
fin dal 1969 ed esistenza di specifica normativa che imponeva determinati
comportamenti prevenzionali ancorabili a tali rischi, desumendone poi semplicemente
la doverosità dell’intervento.
Afferma infatti il P.M.: “Il processo di primo grado ha
provato che gli imputati erano consapevoli della situazione di grave pericolo
in cui versava lo stabilimento Petrolchimico di Porto Marghera, una situazione
dunque affatto rispondente alle esigenze di tutela della sicurezza e della
salute dei lavoratori, in ragione della ormai acclarata e dimostrata
pericolosità del CVM-PVC. A fronte di questa conoscenza avrebbero dovuto
attivarsi usando le tecnologie esistenti al fine di predisporre i mezzi di
tutela e di prevenzione che la legge loro imponeva; eliminando tutte le
situazioni lesive determinate da impianti irrecuperabili o bisognosi di
manutenzione, fonti di rischio continuo per chi vi lavorava; predisponendo mezzi
e sistemi di protezione, prevenzione e controllo come quelli di cui dà ampia
descrizione l’imputazione ad essi ascritta.
Tutto questo non è stato fatto”. Ma, osserva la Corte,
mentre le omissioni in relazione ad un dovere di intervento e specificamente di collocazione di impianti
apparecchi o segnali prevenzionali attengono alla condotta oggettivamente
integrante il reato che ci occupa e magari causalmente collegabile anche ad
ulteriori eventi delittuosi che ne possano derivare, e mentre anche la sola conoscenza
di una situazione di pericolo che imporrebbe una tale attivazione ancora non
disvela il dolo (potendo l’inerzia attribuirsi a mera negligenza, a concreta,
anche se colpevole, non percezione di quanto occorre fare per ovviare al
pericolo), ciò che occorre ben individuare in capo a ciascun imputato è la
rappresentazione del dovere di attivarsi collocando i mezzi di protezione che
specificamente si impongono e di converso la volontà di astenersi da tale
condotta.
Nella specie in realtà l’accusa pubblica e privata largo
spazio e significato danno, ai fini proprio della dimostrazione della
volontarietà delle omissioni, al c.d. “patto di segretezza” che avrebbe
vincolato le industrie chimiche a livello internazionale, e la Montedison in
prima fila, per occultare le conoscenze sugli effetti cancerogeni
dell’esposizione a CVM. In realtà, se non può ritenersi come ha fatto il
Tribunale che tale “patto” non avrebbe in realtà avuto la finalità di occultare
i dati della ricerca, ma era piuttosto finalizzato ad un reciproco controllo
tra le imprese interessate in ordine alla pubblicizzazione dei dati per evitare
il rischio di essere posti fuori mercato o comunque di ritrovarsi in gravi
difficoltà operative a seguito di iniziative unilaterali e non concordate, va
peraltro osservato che eccessiva importanza probatoria, ai fini della
valutazione dei comportamenti degli imputati e dei loro stati psicologici, è
stata data alla circostanza dagli appellanti che hanno forzato, travisandolo,
il significato stesso di tale “patto”.
Intanto, emerge chiaro dalla documentazione fornita dal
P.M. al riguardo, non di un vero
“patto” si può parlare, inteso nel senso di accordo per tenere segrete
conoscenze note solo all’interno dell’industria, bensì sollecitazioni e
risoluzioni, certo determinate da preoccupazioni produttive e di mercato, di
non allarmare, o pur se si vuole benevolmente, di non allarmismo, dopo le
ricerche ed esperimenti Viola ed i primi dati Maltoni sui possibili effetti
cancerogeni dell’esposizione a CVM. Ma i dati Viola, già esposti in pubblici
congressi, non erano certo di dominio esclusivo dell’industria chimica, mentre
gli ulteriori studi specifici, commissionati proprio da Montedison a Maltoni,
nel periodo interessato dalla documentazione che fa riferimento a segretezza
sulla questione, non erano definitivi.
L’obiettivo finale
non era certo dunque quello di tenere segrete le conoscenze che si andavano
approfondendo, essendo d’altra parte comprovato in atti dalla testimonianza di
Maltoni che nessun vincolo di segretezza la committente aveva imposto allo
studioso che poi, difatti, puntualmente rendeva pubblici i suoi studi pur prima
di definitiva conclusione. Bisogna allora dare il giusto significato e valore
al c.d. patto di segretezza che era quello, nell’allarme insorto nell’industria
chimica in conseguenza dei primi dati Viola circa gli effetti cancerogeni del
CVM e dello svilupparsi degli studi Maltoni che avvaloravano tali conclusioni
con riferimento all’uomo, di non creare, fintanto che il dato non fosse definitivamente
acclarato dal punto di vista scientifico (ed in verità la falsificazione di
ipotesi non sufficientemente sperimentate ed approfondite è circostanza non
rara nel mondo scientifico), allarmismo, certo avendosi a cuore le esigenze
della produzione e del mercato e la necessità a tali fini di sfruttare il tempo
che gli esperimenti ancora in corso lasciavano per prepararsi ad ormai, ove
appunto confermate le ipotesi, ineludibili interventi di sicurezza senza
vantaggi concorrenziali per l’una o l’altra impresa.
Tutto ciò vale ai fini della valutazione della colpevolezza
o meno del comportamento tenuto (e lo si è fatto, nell’analisi dell’elemento
psicologico dei reati colposi), ma non se ne può dedurre consapevole volontà di
omettere gli specifici interventi prevenzionali sopra individuati come
integranti oggettivamente la fattispecie incriminatrice in esame. Difettano
dunque idonei indici rivelatori esterni dai quali dedurre che, non solo
conosciuta una situazione di pericolo, e non solo rappresentata la necessità di
specifico intervento precauzionale consistente in collocazione di impianti,
apparecchi o segnali, vi sia stata poi cosciente volontà da parte di ciascun
imputato di omettere un tale intervento. Omissioni che appaiono invece frutto
del colpevole atteggiarsi dei vertici industriali in quei tempi laddove rischi
che pur si paventavano, anche se non delineabili ancora con precisione, non
venivano precauzionalmente schermati per l’incuria (ma l’incuria è negligenza,
è colpa) verso tali tematiche: la sicurezza non era primario obbiettivo e
neppure veniva rivendicata con decisione dalle stesse organizzazioni sindacali
dei lavoratori.
Ritiene dunque la Corte che, non sufficiente affermare, per
ritenere il dolo, che le misure cautelative necessarie non sono state adottate
“intenzionalmente”, “perché non è stato voluto”, se non si indicano poi idonei
elementi anche solo indizianti, in base ai quali svolgere una qualsivoglia
argomentazione probatoria riferita agli specifici imputati che ricoprivano posizioni
di garanzia nel periodo interessato dalle suddette omissioni (dal 1969 a tutto
il 1973), e cioè, come sopra già precisato, gli imputati Bartalini, Calvi,
Grandi, Gatti e D’Arminio Monforte che dunque, parzialmente riformandosi sul
punto l’impugnata sentenza, vanno assolti dal reato di omissione dolosa di
cautele da cui sono derivati infortuni ex art. 437, 1° e 2° co., c.p. per
condotte tenute fino a tutto il 1973, perché il fatto non costituisce reato.
Quanto al periodo successivo pure in contestazione, va
intanto osservato che fin dai primi interventi posti in essere a partire dal
1974, quando era ormai conclamata la cancerogenicità del CVM e quindi il
presupposto fattuale (in realtà già prima sussistente e conosciuto almeno per
quanto concerneva gli effetti nocivi dovuti alla tossicità della sostanza) che
rendeva impellenti, non procrastinabili specifici interventi prevenzionali con
piena consapevolezza non più schermata a livello decisorio da andazzi e
negligenze frutto di scarsa coscienza dei doveri di sicurezza, si provvide
intanto con tempestività a munire gli ambienti di lavoro di impianti di
monitoraggio delle concentrazioni di CVM nell’aria.
Subito, nel 1974, il sistema a pipettoni, poi e
definitivamente dal 1975, il sistema di monitoraggio sequenziale mediante
gascromatografi relativamente al quale il Tribunale, con giudizio che
integralmente questa Corte fa proprio per essere fondato su esatta
ricostruzione delle relative evidenze processuali e che non appare scalfito
dalle doglianze sul punto proposte dagli appellanti, ha riconosciuto:
- che il sistema di monitoraggio sequenziale mediante gascromatografo, con sistema pluricampanelle, installato nei reparti CV
del Petrolchimico di Porto Marghera, era
del tutto coerente con la disciplina di cui al DPR 962/1982, la quale
prevedeva espressamente un monitoraggio mediante gascromatografo, di zona, che analizza
sequenzialmente i campioni provenienti dalle varie linee nel tempo massimo di
20' (p. 425s.); in particolare,
l’opzione per il sistema pluricampanelle è
del tutto coerente con la norma legislativa per un monitoraggio d’area;
- che il sistema installato era del tutto rispondente a
quanto prescritto dalla normativa anche
in termini di copertura sia spaziale (le sonde coprivano l’intero reparto
produttivo) sia temporale (l’effettuazione di analisi ogni 20 minuti è in
accordo con quanto previsto dalla normativa per il metodo permanente
sequenziale);
- che Il sistema era senz’altro idoneo ad assicurare gli
obiettivi posti dalla normativa, cioè: a) stimare il livello di esposizione al
CVM degli operai attraverso il monitoraggio della concentrazione di CVM in
ambiente di lavoro; b) evidenziare eventuali aumenti anormali di
concentrazione di CVM al fine di mettere in atto le idonee misure di protezione degli operatori e
procedere all’identificazione delle cause ed alla rimozione della perdita.
- che le direttive tecniche specificate dallo stesso DPR
962/19882 (numero di linee asservite al gascromatografo, durata dell’analisi,
sensibilità analitica, frequenza di campionamento) appaiono ben soddisfatte
dall’impianto di monitoraggio presente presso il petrolchimico di Porto
Marghera;
- che l’impianto è stato complessivamente mantenuto in buono
stato di efficienza (p. 438);
-
che le linee di campionamento “hanno un comportamento passivo sul campione, non
alterandone significativamente la qualità: ciò che viene campionato dalle
campanelle, viene misurato correttamente” (p. 438);
- che, pertanto, il sistema è stato in grado di “evidenziare
i dati espositivi realmente sussistenti negli impianti di Porto Marghera”.
Un tale quadro, ritiene la Corte, non
appare scalfito in ordine alla sua effettività dalle doglianze degli
appellanti.
Sostiene in particolare il P.M.
che la struttura del sistema di
monitoraggio in funzione nei reparti CV sarebbe non conforme alla legge e
comunque inadeguata sia nella determinazione della concentrazione di CVM in
ambiente di lavoro, sia nella rilevazione di eventuali fughe, per l’adozione
appunto di un sistema multiterminale che
avrebbe deliberatamente portato a “tagliare i picchi di concentrazione”
abbassando quindi notevolmente i livelli di concentrazione registrati, e che
inoltre sarebbe stato usato fraudolentemente con l’utilizzo di dispositivi
appositamente introdotti per alterare i dati escludendo la rilevazione di
quelli più sgraditi.
Ora, relativamente a tali censure, osserva la Corte che
intanto la conformità del sistema adottato alla previsione di legge (DPR
n°962/82), non consente di addebitare presunte, e peraltro tecnicamente non
convincenti, manchevolezze del sistema stesso rispetto ad altri che si
ritengono migliori (al riguardo non ci si dilunga ritenendo non rilevante la
questione ai fini della sussistenza del reato che ci occupa, cioè quello di cui
all’art. 437 c.p., ma si rimanda comunque alle puntuali controdeduzioni
contenute nelle memorie della difesa Smai e della difesa Diaz che smentiscono,
convincentemente, gli assunti di sostanziale inidoneità del sistema, laddove
l’affidabilità è peraltro, all’evidenza, confermata dal confronto con il
sistema di monitoraggio monoterminale e con spettrometro di massa, sempre
puntualmente e correttamente riproposto dalle difese citate alle cui memorie si
rimanda).
E così non rilevanti, ai fini del reato di omessa collocazione
di impianti o apparecchiature prevenzionali, sono le argomentazioni degli
appellanti (P.M. e Avvocato dello Stato in particolare) che attengono alla
regolarità o meno del sistema monitoraggio, di per sé considerata (ma anche sul
punto in fatto le accuse non paiono suffragate da convincenti dati tecnici
muovendo o da sospetti non comprovati –l’asserito utilizzo di un dispositivo
per eliminare rilevazioni non gradite-, o da erronea interpretazione di dati
–quale quella operata dall’avvocato dello Stato su una presunta considerazione
nella elaborazione dei dati di valori 0 che si riferivano a giornate in cui il
sistema non aveva funzionato, laddove è da osservare invece che per le stesse
giornate il numero di prelievi era pure 0 onde, atteso che i valori rilevati
venivano nell’elaborazione della media divisi non per il numero di giorni ma
per il numero di prelievi non si vede quale alterazione può esserne derivata,
tra l’altro in quei pochi casi in cui nell’arco di cinque lustri questo sarebbe
avvenuto-, o ancora da peculiari situazioni che, in numero minimale
rintracciate dagli appellanti ed in particolare ancora dall’Avvocato dello
Stato, potevano verificarsi nel funzionamento del sistema).
Per concludere sul punto giova poi
ricordare le osservazioni del Tribunale che correttamente basa il suo giudizio
di idoneità del sistema altresì nella conferma, come chiede la normativa, con i
dati ottenuti con campionatori personali che si riferivano al periodo temporale
marzo 1976 – luglio 1980 e provenivano da un campionatore indossato da vari
operatori, aventi incarichi differenti ed appartenenti a vari reparti, cioè dei
reparti CV24, CV6, CV14 e CV16. I risultati erano pressoché, e generalmente,
sovrapponibili a quelli ottenuti con il sistema automatico, giacché pure i dati
conseguenti ai prelievi con campionatori personali, come quelli ricavabili
dalla media delle misurazioni con gascromatografi, si attestavano a valori
intorno ad 1 ppm (corrispondente -ma questo non rileva ai fini dell’efficienza
dell’impianto e quindi ai fini di cui al reato di cui all’art. 437 c.p., bensì
per le tematiche di salubrità dell’ambiente di lavoro in relazione alle sopra
svolte tematiche sulla causalità- al valore raccomandato dall’OSHA ad inizio
dell’anno 1976, raggiunto già in quell’anno, pure nella zona autoclavi).
Né possono valere a minare
l’efficienza del sistema nella normalità gli sporadici casi evidenziati dal
P.M. con supporto documentale (documento del 14/7/80 e documento del 16/2/81,
rispettivamente allegato 32 e allegato 33 della relazione dei CC.TT del P.M.
dell’agosto 1999) nei quali emergerebbe discrasia, laddove poi numerosissimi
rilievi (vedi allegato 4.52 alla Relazione 5.2.00 Foraboschi) effettuati
tramite campionatore personale nei reparti CV6 e CV24, quindi nei reparti di
maggiore rischio, indicano valori di esposizione molto bassi, mediamente sotto
1 ppm in accordo con i dati di monitoraggio automatico. Né ancora a livello
probatorio a diversa conclusione possono portare gli ulteriori documenti
indicati dal P.M. (documenti del 28/5/76 e del 31/8/77 allegato 34 della
medesima relazione dei CC.TT. del P.M.) non emergendo, ai fini del necessario
confronto, dati rilevati con il diverso sistema automatico nelle medesime
circostanze. Ma ancora si tratta di sporadici casi. E così infondate sono le
ulteriori censure circa l’idoneità del sistema. In particolare va osservato che
rispondente a logica di maggiore prudenza è l’abbassamento della soglia di
allarme, che imponeva specifiche procedure di salvaguardia, a 25 ppm, e conforme
alla normativa è la mancata considerazione nel calcolo della concentrazione
media annua dei valori eccedenti la soglia di allarme, atteso appunto che
quando si raggiungeva tale soglia venivano poste in essere le specifiche
procedure a tutela della salute dei lavoratori interessati.
Conclusivamente può dunque
ritenersi che a partire dal 1974 la violazione di omessa collocazione di
apparecchiature prevenzionali con riferimento all’impianto di monitoraggio è
insussistente, e così è insussistente la violazione stessa con riferimento alle
omesse collocazioni di apparecchiature di protezione individuale quali le
maschere da utilizzare da parte degli esposti in situazioni di allarme o in
lavorazioni di per sé rischiose (quali l’ingresso in autoclave), ed all’omessa
collocazione di idonei parti di impianto produttivo (valvole, rubinetti e
tenute) aventi altresì destinazione prevenzionale per la loro funzione di impedire dispersioni di gas nell’ambiente.
Quanto agli strumenti di protezione individuale, e specificamente,
per quanto sopra precisato in relazione alle violazioni rientranti nella
fattispecie di cui all’art. 437 c.p., alle maschere di protezione dal gas e
vapori nocivi, si osserva che già con la modifica delle procedure intervenute
nel 1974, così come emerge documentalmente dalle stesse schede lavoro indicate
dal P.M. e comunque testimonialmente, erano state fornite maschere per la
protezione dai gas da utilizzare per gli ingressi in autoclave, finchè, ma non
per molti anni ancora, la pratica continuava, e da utilizzare nei casi di fughe
di gas. In particolare erano a disposizione degli operatori (il dato è
documentale emergendo dalle schede lavoro) l’autorespiratore, Dac 70, oltre
alle mascherine con filtro.
Altra cosa se poi in concreto i lavoratori facessero
corretto uso di tali strumenti (in effetti è emersa trascuratezza al riguardo),
non potendo integrare una tale violazione (il controllo dell’uso da parte dei
lavoratori cui pure erano forniti degli strumenti antinfortunistici di
protezione individuale, peraltro certamente neppure addebitabile a consapevole
volontà degli imputati che ricoprivano posizioni apicali nell’azienda) il fatto
(omessa collocazione) previsto dalla norma incriminatrice in esame.
Quanto poi alle parti di impianto produttivo (valvole,
rubinetti e tenute) aventi altresì destinazione prevenzionale per la loro funzione di impedire dispersioni di
gas nell’ambiente, va intanto ricordato il fondamentale dato di fatto, documentato in atti dai rilevamenti con i
gascromatografi della cui affidabilità si è sopra detto, per il quale la
concentrazione di CVM nei luoghi di lavoro è sempre, almeno dal 1975 in poi,
risultata inferiore al valore soglia (3 ppm) stabilito nel 1978 dalla
direttiva 78/610/CE, recepita in Italia col DPR 962/1982.
Un tale dato avvalora l’efficienza delle valvole, rubinetti
e tenute dell’impianto produttivo che impedivano dispersioni di gas
nell’ambiente, contribuendo quelli nuovi installati appunto a partire dal 1974
a ridurre drasticamente appunto le concentrazioni di CVM nell’ambiente di
lavoro. Nell’insieme dunque queste parti d’impianto hanno svolto idonea
funzione prevenzionale, ed a nulla potrebbe rilevare la circostanza che magari
qualche singola valvola fosse ancora di concezione e tecnologia più remota, come
le valvole con tenuta a baderna, non particolarmente efficaci nell’evitare
perdite ma “ancora installate negli
anni ’90, sulle autoclavi del reparto CV24” come segnalato dal P.M. e ribadito
anche dalla difesa di alcune Parti Civili.
Quello che rileva è che tutta una serie di commesse ha
portato all’adeguamento dell’impianto con installazione, a parte qualche
singola valvola che poi bisognerebbe in concreto avere la prova della sua
inefficenza, di quelle parti che appunto rilevano ai fini della violazione di
omessa collocazione prevenzionale. Già il Tribunale, la cui sentenza
integralmente si è detto deve intendersi recepita nella presente e fatta
propria dalla Corte nelle parti che portano ad analogo giudizio, ha
analiticamente ricordato le singole commesse ed i tempi di realizzazione delle
installazioni in questione, ed analitica e documentata disamina in relazione
proprio agli interventi dal 1973 al 1978 è svolta dal consulente della difesa
Foraboschi alla quale pure si rimanda, non senza osservare che l’entità di tali
interventi è altresì comprovata testimonialmente anche in merito alle qualità
caratteristiche tecniche ed efficienza delle parti di impianto che qui
interessano (vedi dichiarazioni sul punto del teste Ferro, che ha lavorato
proprio a partire dai primi anni ’70 nel reparto CV24, ma anche del teste
Paolini che riferisce degli studi ed impegno aziendale che portò alle
numerosissime sostituzioni).
Giova comunque a titolo esemplificativo solo ricordare, come
punti salienti, che nel reparto CV24, tale intervento è stato realizzato con la
commessa, già segnalata appunto dal Tribunale, 1102.09 del 1.9.1975, relativa
a:
-
installazione
di rubinetti sul circuito del CVM e dello slurry;
-
installazione
di soffietti per le valvole di regolazione sul circuito del CVM e dello slurry;
-
sostituzione
delle tenute delle pompe per CVM e slurry;
-
sostituzione
delle tenute dei compressori Bosco.
Mentre nel
reparto CV6 gli interventi sono stati posti in essere con la commessa 1099
(autorizzazione 28/5/75, fine lavori ottobre 1976) che, come ancora ricordato
dal Tribunale, ha riguardato “sostituzione della rubinetteria esistente con
altra idonea a contenere le perdite a valori minimi e installazione di
soffietti sugli steli delle valvole di regolazione sulle linee di CVM liquido a
pressione”, ed ha consentito, si cita ancora il Tribunale “di ridurre
notevolmente la fuoriuscita accidentale di CVM. Infatti, dopo l’esecuzione di
tale commessa solo lo 0,1% dei rilievi
effettuati negli ambienti di lavoro superava 25 ppm, mentre prima nel 2% dei
rilievi vi erano concentrazioni superiori a 50 ppm. In sostanza, l’operazione integrò l’acquisto e l’installazione di
circa n. 380 rubinetti stagni in sostituzione del valvolame esistente, nonché
di 20 soffietti per le valvole di regolazione ; vennero altresì sostituite le
tenute delle 8 pompe del lattice, delle 5 del germe, degli 8 agitatori delle
autoclavi e di quelle dei 2 compressori del CVM di recupero, con tenute
meccaniche idonee a garantire la totale segregazione all’interno delle
apparecchiature del CVM liquido o gassoso”.
Ed ancora giova ricordare che, in via generale e come emerge
ancora da quanto analiticamente descritto dal consulente Foraboschi sulla
scorta di specifica documentazione ed accertamenti, nel periodo
1973 – 1978 si sostituirono:
nella zona dei serbatoi della torbida:
–
le
tenute a baderna degli agitatori dei serbatoi dello slurry con tenute
idrauliche con acqua a perdere nelle torbide,
–
le
tenute delle pompe del CVM e dello slurry e dei compressori del CVM/R e le
valvole, eliminando così ogni possibile fonte di inquinamento;
nella sezione autoclavi:
–
tutte le guarnizioni sulle autoclavi e sulle tubazioni di
collegamento,
–
le tenute a premistoppa con soffietti sulle valvole di
regolazione,
–
le valvole a baderna con rubinetti,
–
le tenute a baderna con tenute meccaniche su compressori a
pompe.
In un tale contesto, appare
correttamente adempiuto da parte dei destinatari l’obbligo di collocazione di
impianti prevenzionali a partire dal 1974 relativamente appunto agli strumenti
di cui sopra, risolvendosi, le ulteriori segnalazioni di perdite o rotture
ancora segnalati dagli appellanti, come episodi normali nella vita
impiantistica attinenti a meri interventi manutentivi.
Insussistente dunque la violazione
contestata per il periodo successivo al 1973, con riferimento, tra gli impianti
o apparecchi che nello specifico si sono individuati, tra le violazioni
contestate, rientranti negli strumenti prevenzionali considerati dalla norma
incriminatrice in esame, all’impianto di monitoraggio, ai considerati strumenti
di protezione individuale ed alle parti di impianto aventi finalità
prevenzionali, resta da dire degli impianti di aspirazione di polveri, gas e
vapori nocivi, e verificare relativamente agli stessi se violazioni vi siano
state per detto periodo successivo al 1973 quando, come sopra già osservato, la
consapevolezza della necessità della collocazione di tali strumenti era ormai
patrimonio di tutti i soggetti destinatari dell’obbligo di garanzia che non
potrebbero trincerarsi dunque dietro una mera negligenza e imprudenza.
In proposito va subito, osservato, funzionalmente alla
concretezza e sviluppo stesso delle argomentazioni che seguiranno strettamente
connesse con la necessità di motivare il giudizio, che in relazione all’accusa
contestata qui viene in rilievo solo la mera ipotesi di omessa collocazione
dolosa di cautele prevenzionali di cui al primo comma dell’art. 437 c.p.,
atteso che già si è detto sopra che nessun infortunio (tra quelli ovviamente
contestati), ed infra si preciserà pure nessun disastro, si è poi verificato
causalmente collegato ad omissioni di cautele poste in essere dopo il 1973, e
nello specifico all’omessa collocazione di impianti di aspirazione.
Tanto ricordato, va pure subito precisato che nemmeno
l’accusa seriamente e specificamente sostiene che una tale violazione sia stata
posta in essere negli ultimi quindici anni, palesemente infondata per la sua
irrilevanza essendo la notazione del P.M. secondo la quale il problema delle
cappe d’aspirazione sarebbe rimasto tra i problemi irrisolti ancora negli anni
’90, traendo spunto dalla relazione del suo consulente Scatto circa un
accertamento effettuato sull’impianto di condizionamento del reparto CV24 il
26.6.1998, quando si verificava una fuga di gas per asserita inidoneità
dell’impianto risalente al 1974, atteso appunto che in primis questo problema
attiene non alla collocazione di uno strumento di aspirazione di polveri, gas o
vapori da apprestare nei luoghi di lavoro, bensì un impianto di condizionamento
che è cosa diversa, e poi la problematica evidenziata dal consulente attiene
alla ormai intervenuta obsolescenza di detto impianto (che comunque giova
ricordare era stato installato sempre nel 1974, a riprova che in quest’anno vi
era stata una generale presa di coscienza delle problematiche non solo di
sicurezza ma anche di benessere sul luogo di lavoro) evidenziata dall’episodio
verificatosi in periodo non più di competenza, e da tempo, di alcun imputato.
Onde, se negli ultimi quindi anni non si ravvisa alcuna
violazione in proposito, si imporrebbe comunque una declaratoria di
prescrizione, chiaro essendo che anche nel presente processo vale la norma di
cui all’art. 129 c.p.p. che impone una tale immediata pronuncia in mancanza di
evidenza di ipotesi assolutoria.
Ora, ritiene la Corte che, pur a sostenere che in realtà
secondo l’ipotesi accusatoria specifiche violazioni di tale obbligo sarebbero
rinvenibili anche negli anni ’90, dovendosi però correttamente considerare il
solo periodo per il quale può ritenersi estesa la contestazione, cioè fino
all’ultimo momento in cui qualcuno tra gli attuali imputati ricopriva posizione
di garanzia ed era dunque destinatario dell’obbligo in questione, vi è in
realtà in atti evidenza che con adeguata completezza almeno dai primi anni ’80
gli impianti di aspirazione erano stati collocati in tutti gli ambienti a
rischio di polveri ed esalazioni nocivi.
Ed invero, in tal senso depongono con chiarezza non solo le
commesse ed i relativi lavori di installazione eseguiti in forza delle commesse
del novembre e del dicembre del 1980 ed infine del dicembre del 1981 (vedi le
specifiche elencazioni già operate dal Tribunale) che seguivano i lavori
effettuati già negli anni ’70 quando vennero installate, nell’anno 1976, cappe
di aspirazione per ciascuna delle sale pesatura degli additivi utilizzati nella
polimerizzazione (commessa n. 84046, fine lavori nel dicembre 1976), ma anche
le dichiarazioni dei testi evocati dall’accusa (in particolare Biasiolo, ma
anche De Stefani, e lo stesso Zoccarato) che se da un lato evidenziano che
ancora negli anni settanta l’ambiente di lavoro era un inferno di polveri,
riconoscono poi che la situazione era completamente diversa a partire dagli
anni ottanta, testimonianze che ben si integrano, portando alla richiesta
evidenza per una pronuncia assolutoria piena nel merito, con le richiamate
commesse in materia. Va quindi confermata l’assoluzione pronuncita dal
Tribunale per insussistenza del fatto anche per mancata collocazione di
impianti di aspirazione per periodo successivo al 1980.
Non altrettanto può dirsi per tutti gli anni ’70 e
specificamente, attesa la presa già in considerazione con relativa pronuncia
del periodo fino a tutto il 1973, per il periodo dal 1974 al 1980 compreso (si
ricordi che le commesse specifiche richiamate che modificavano la situazione
sono del novembre e dicembre 1980 seguite poi da commessa del dicembre 1981).
Gli stessi elementi sopra considerati, svilupparsi dei lavori di posa in opera
degli impianti che qui rilevano e testimonianze non solo dei testi sopra
ricordati ma della quasi totalità dei testi sentiti sul punto specifico,
dimostrano che di evidenza di insussistenza del fatto per detto periodo non si
può parlare, non essendo ovviamente sufficiente ad escludere la violazione nel
complesso degli ambienti di lavoro la commessa del 1976.
Né, per quanto sopra
osservato quando si è discusso del dolo nel reato in considerazione, può ormai
seriamente parlarsi di eventuale evidenza di assenza del necessario elemento
psicologico in capo agli imputati che in questi anni, dal 1974 al 1980 si sono
succeduti o hanno concomitantemente ricoperto posizioni di garanzia, e
cioè gli imputati Bartalini, Calvi,
Grandi, Gatti, D’Arminio Monforte, Lupo, Trapasso, Diaz, Morrione, Reichenbach,
Gaiba, Fabbri, Presotto, Belloni e Gritti Bottacco, nei cui confronti va
dichiarato non doversi procedere in ordine al reato di cui all’art. 437, 1°
co., c.p., in relazione appunto all’omessa collocazione di impianti di
aspirazione dal 1974 al 1980, perché estinto per prescrizione.
IL REATO DI DISASTRO NELL’IMPUTAZIONE DI CUI AL PRIMO CAPO
D’IMPUTAZIONE.
Le conclusioni di cui sopra in merito al reato di cui
all’art. 437 c.p., con assoluzione per carenza dell’elemento psicologico in
merito all’omissione, fino a tutto il 1973, delle individuate cautele
prevenzionali integrante dal punto di vista oggettivo la previsione di cui al
secondo comma dell’art. 437 c.p. in quanto causalmente collegate alle
malattie-infortunio ritenute appunto determinate dalle alte esposizioni al CVM
non schermate da detti strumenti prevenzionali, e con esclusione poi
dell’ipotesi stessa di cui all’art. 437, 2° co., c.p. per il periodo successivo
al 1973, svuotano ed assorbono ogni motivo d’appello relativamente all’ipotesi
di disastro formulata dal P.M. con la modifica delle imputazioni: un unico
disastro che avrebbe interessato, assorbito il reato di cui agli artt. 449-434,
2° co., c.p. nella previsione di cui al capoverso dell’art. 437 c.p., l’interno
dello stabilimento con le centinaia di infortuni verificatisi ai danni dei
lavoratori, ed avrebbe interessato (e qui, se il disastro è unico. il passaggio
dall’ipotesi di cui agli artt. 449-434, 2° co., c.p. a quella del capoverso
dell’art. 437 c.p. non è neppure astrattamente ben chiara) l’ambiente esterno
lagunare e della circostante terraferma per le immissioni in atmosfera,
discariche e scarichi inquinanti che avrebbero causato, inquinamento,
avvelenamenti delle acque di falde ed adulterazione del biota lagunare con
conseguente pericolo per la pubblica incolumità.
Ora, tanto già osservato, e se di
un unico disastro interno ed esterno causato dall’omessa collocazione
all’interno dell’ambiente di lavoro di apparecchi, impianti o segnali
prevenzionali non può parlarsi, ritiene comunque la Corte (tornando
praticamente all’ipotesi originaria della formulazione di accusa che, anche ad
essere rigorosi in tema di correlazione tra sentenza ed imputazione, può
trovare spazio essendo l’ipotesi di disastro, comunque la si voglia rubricare, tema
delle imputazioni e potendone il giudice, rispetto alla più ampia estensione
del fenomeno in imputazione, delimitarne diversamente, se nell’ambito dei fatti
contestati, i contorni se ne ravvisa gli estremi) che neppure di unico disastro
può parlarsi in quanto già l’ipotesi in fatto attenente al primo capo
d’imputazione –disastro interno-, e dopo si dirà dell’ipotesi di disastro
innominato colposo di cui alle contestazioni specificamente contenute nel
secondo capo d’imputazione, è insussistente.
Rimanendo dunque per ora alle
contestazioni di cui al primo capo, pur rubricabili, come originariamente in
imputazione, sotto gli artt. 449- 434, 2° co., c.p., si osserva che a fronte
delle statuizioni ed argomentazioni del Tribunale che, come sopra già citato, ha
ritenuto che elementi costitutivi del disastro sono la gravità e la diffusività
degli eventi nell'ambito di una comunità estesa, così da essere idonei a
concretamente porre in pericolo la pubblica incolumità, eventi determinati da
condotte anche protratte nel tempo che hanno, ciascuna con efficienza causale,
realizzato con attività predisponente o aggravante la situazione di rischio che
nel caso che ci occupa il rischio costituito dall'esposizione a cvm ha causato
gli otto angiosarcomi contestati , le cinque epatopatie ad essa correlabili, le
dieci sindromi di Raynaud/acrosteolisi, in tal modo dimostrando di avere
idoneità lesiva dell'integrità fisica e di avere efficienza diffusiva
nell'ambito della comunità dei lavoratori esposti alle alte dosi di tale sostanza
e addetti alle mansioni più a rischio, onde esclude il Tribunale completamente
la configurabilità dei delitti contestati in relazione alle condotte successive
al 1973, osservandosi che, per come emerso dall’istruttoria dibattimentale,
l’accertata drastica riduzione delle esposizioni a partire appunto dal 1974,
avrebbe fatto venir meno l’idoneità lesiva della sostanza ed ogni situazione di
rischio per l’incolumità pubblica, il P.M. nei propri motivi di appello,
sostenendo peraltro ancora la sussistenza del disastro innominato colposo e i
suoi rapporti con l’art. 437 c.p. e ferme restando le critiche in fatto sulle
epoche individuate come discrimine
della lesività o meno del CVM, censura comunque la pronuncia assolutoria alla
quale il Tribunale sarebbe pervenuto sulla base di una interpretazione non
corretta della fattispecie contestata.
Sostiene infatti l’appellante,
come pure già sopra citato, che il Tribunale, secondo il quale il reato di disastro andrebbe inteso
"come evento di danno caratterizzato nel suo manifestarsi dalla gravità,
complessità, estensione e diffusività", ha operato una indebita
sovrapposizione tra l'evento di
pericolo richiesto dalla norma in discussione (artt. 449-434 c.p.) e gli
eventi di danno a quel pericolo conseguiti. assumendoli quali elementi
costitutivi della fattispecie colposa; mentre avrebbe dovuto configurarli come
condizione di punibilità dell'ipotesi aggravata di disastro considerata al
comma secondo dell' art. 434 cp.. Ovviamente sostiene poi l’appellante, e così
anche le parti civili appellanti, la permanenza anche dopo il 1974 del pericolo
di lesività per le esposizioni a CVM i cui crolli di concentrazione
nell’ambiente di lavoro contesta e comunque assumendone lesività anche a basse
dosi.
Ora, ritiene innanzitutto la Corte occorra fare chiarezza
sui concetti di cui sopra di danno e pericolo in relazione al reato di
disastro, e soprattutto va con chiarezza ricordato di quale reato qui si
discute. Mai è stato contestato il doloso delitto di cui all’art. 434 c.p., che
effettivamente anticipa la tutela penale al pericolo del disastro (quindi ad un
mero comportamento che di per sé non integra un evento di danno dal quale
derivi concreto pericolo per la pubblica incolumità e cioè la materialità del
disastro) e relativamente al quale si può poi discutere (ma qui non interessa)
se nella previsione del secondo comma l’intervenuto disastro con i connaturati eventi di danno e di
pericolo eventualmente in concreto conseguenti appunto alla mera condotta
astrattamente pericolosa considerata nel primo comma abbia natura giuridica di
condizione di punibilità piuttosto che di elemento costitutivo dell’ipotesi
aggravata.
Quello che è stato contestato, superata e lasciata ormai da
parte l’ipotesi del secondo comma dell’art. 437 c.p., è un disastro colposo ai sensi dell’art. 449 c.p. che si
collega, non essendo nella specie riferito ad alcuna delle ipotesi tipiche
previste dal legislatore e quindi essendo innominato, alla corrispondente ipotesi
dolosa di cui all’art. 434, ma secondo comma. Non è invero considerata dal
nostro ordinamento una ipotesi colposa della mera previsione di cui all’art.
434, 1° co., c.p., atteso che tale norma, come osservato anticipa la tutela
alla commissione dolosa di fatti diretti a cagionare un disastro a prescindere
che questo poi si verifichi (e se si verifica soccorre il secondo comma),
mentre la previsione colposa di cui all’art. 449 c.p. concerne la condotta di
chi, per colpa, cagioni un disastro.
Ecco allora che indiscutibilmente in tale ipotesi il
disastro è elemento costitutivo del
reato, è l’evento che deve conseguire alla condotta dell’agente. Ciò ancora non
risolve il problema, perché poi occorre chiarirsi che cosa sia un disastro,
attese le confusioni concettuali tra pericolo concreto o astratto o presunto,
danno, situazione di danno precedente al pericolo e dalla quale appunto derivi
il pericolo, concreto conseguente danno concretizzazione del pericolo per
l’effettiva lesione del bene della pubblica incolumità.
Ora, non si vuole certo qui ripercorrere teorie ed arresti
dottrinari o giurisprudenziali, ma sempre al fine di far comprendere il
percorso decisionale è bene puntualizzare i concetti ritenuti in diritto da
questa Corte, che peraltro nulla di nuovo afferma.
Invero, i reati che richiedono come evento materiale
costitutivo il disastro, e quindi anche quello colposo di cui all’art. 449 c.p.
con riferimento al disastro innominato di cui al secondo comma dell’art. 434
c.p., sono reati di danno essendo in sé il disastro nella sua materialità un
evento dannoso; un evento dannoso che però per qualificarsi come disastro deve
avere una gravità, complessità e diffusività investendo cose e persone
indeterminate tali da mettere in concreto pericolo la pubblica incolumità, e
cioè i beni della vita, dell’integrità e della salute pertinenti alla singola
persona umana ma anteriormente e comunque a prescindere dal loro
individualizzarsi in uno o più soggetti determinati. Non può prescindersi
dunque da una situazione fattuale di danno, si dice un macroevento di danno,
che deve concretamente sussistere ed individuarsi, sia un incendio che devasta
quanto incontra, sia il naufragio di una nave, la caduta di un aeromobile, il
deragliamento di un treno, il crollo di un edificio, o quant’altro abbia
appunto queste caratteristiche che i casi tipici individuati dal legislatore
fanno cogliere.
Ecco allora chiarirsi i termini della questione: se è vero
infatti che sarebbe censurabile il ragionamento del Tribunale ove avesse
operato una indebita sovrapposizione tra l'evento di pericolo richiesto dalla norma in discussione (artt. 449-434
c.p.) e gli eventi di danno a quel pericolo conseguiti assumendoli quali
elementi costitutivi della fattispecie colposa, censura che in realtà non
appare meritare il Tribunale che però ne ha dato origine soffermandosi proprio
sui concreti eventi lesivi dei beni integranti la pubblica incolumità per dare
per dimostrato il disastro e poi per escluderlo là dove concrete lesioni a tale
bene non si ravvisino, neppure può seguirsi il P.M. laddove ritiene sufficiente
il mero pericolo, una mera situazione di rischio con la concretizzazione del
disastro che fungerebbe solo da condizione di punibilità. Il disastro deve
invece sussistere nella sua materialità già per potersi dire integrato oggettivamente
il reato; e perché sussista occorre individuare un macroevento di danno con
potenzialità gravemente lesiva per la pubblica incolumità nei termini sopra
definiti.
Dall’evento di danno che innesca la situazione di pericolo
non si può quindi prescindere. Irrilevanti sono invece gli ulteriori danni che
concretizzano quello che si poteva già paventare: eventuali effettive lesioni
dei beni vita, integrità o salute di qualche, a quel punto individuata,
persona, fatti che integrerebbero diverso e concorrente reato (omicidio colposo
o lesione personale colposa).
Ora, sulla scorta di tali premesse in diritto, è agevole
rilevare intanto che neppure si è affannata l’accusa pubblica ma anche quella
privata, forte dell’impostazione da entrambe sostenuta che riteneva sufficiente
il mero pericolo per la pubblica incolumità per integrare il delitto in esame,
ad individuare il concreto macroevento di danno potenzialmente lesivo per la
pubblica incolumità. In realtà l’elemento fattuale, che pur può realizzarsi
progressivamente, deve essere ad un tal punto ben individuabile.
Nella specie il tutto è vago, sapendosi solo che negli anni
precedenti il 1974 gli operai nelle specifiche lavorazioni si trovavano esposti
ad alte concentrazioni di CVM. Ma il dato non fa cogliere comunque uno
specifico ben delimitabile evento dannoso, confondendosi effettivamente il
danno che dovrebbe stare a monte del pericolo con il rischio in sé derivante
dal permettere le lavorazioni in quel contesto; sicuramente poi non è coglibile
un evento di danno nella situazione degli ambienti di lavoro dopo il 1973,
attesa la riduzione di concentrazione di CVM nell’aria ai limiti di ritenuta
non pericolosità e quindi il venir meno della stessa situazione rischiosa.
Ritiene dunque la Corte che da disattendere sono le censure
degli appellanti relativamente al suddetto reato nella previsione fattuale
contestata nel primo capo d’imputazione.
In relazione al secondo capo di imputazione il P.M. ha
contestato in principalità il reato di disastro “innominato” colposo con
riferimento agli eventi di danno concernenti diversi comparti ambientali
e l’ecosistema nel suo complesso provocati nel corso degli
anni dalle condotte degli imputati ritenute inosservanti di varie norme di prevenzione.
A tale contestazione il P.M. ha affiancato anche quella di
“avvelenamento” e “adulterazione” colposa di sostanze e di acque destinate
all’alimentazione con riferimento al biota vivente nel sedimento contaminato
dei canali dell’area industriale e alle falde acquifere sottostanti alcune aree
destinate a discarica all’interno e all’esterno dell’insediamento del
Petrolchimico.
Secondo il P.M. le indagini svolte avevano permesso di
accertare che gli imputati elencati alla lettera A) del capo secondo ( Cefis,
Grandi, Gatti, Porta, D’Arminio Manforte, Calvi, Trapasso, Diaz, Morrione,
Reichenbach, Sebastiani, Marzollo, Fabbri e Zerbo) avevano realizzato, nel
periodo compreso fra il 1970 ed il 1988 una serie di discariche di rifiuti di
ogni genere, ed anche di rifiuti tossico\nocivi, alcune all’interno della zona
di insediamento del Petrolchimico ed altre anche all’esterno di tale zona.
Nella lettera B) del capo secondo venivano poi elencati gli
imputati (Porta, Morrione, Reichenbach, Marzollo, Fabbri, Smai, Pisani, Zerbo,
Trapasso, Grandi, Presotto, Palmieri, Burrai, Parillo, Patron e Necci) che,
consapevoli della attività illecita posta in essere nel periodo anteriore
all’assunzione da parte loro del potere d’impresa e del conseguente degrado
ambientale, avevano continuato a comportarsi in maniera illecita.
In particolare gli stessi si erano disinteressati dei
rifiuti tossico\nocivi contenuti nelle discariche precedentemente create,
omettendo di adottare qualsiasi iniziativa di bonifica dei siti inquinati e
continuando, al contrario, a stoccare altri rifiuti tossico\nocivi senza la
prescritta autorizzazione.
Con tali condotte gli imputati avevano così provocato la
dispersione nel suolo e nelle acque di falda sottostanti dei residui
tossico\nocivi e delle acque di rifiuto non trattate.
A ciò si doveva aggiungere che gli imputati avevano
effettuato nelle acque lagunari scarichi che superavano per alcuni parametri i
limiti di accettabilità di cui alle tabelle allegate al D.P.R. 962\1973
(“Tutela della città di Venezia e del suo territorio dagli inquinamenti delle
acque”).
Per tutte le condotte sopra descritte il P.M. contestava
agli imputati di aver così cagionato eventi di danno consistiti in una grave
contaminazione di diversi comparti ambientali con conseguente alterazione
dell’ecosistema lagunare prospiciente la zona industriale sì da configurare il
reato di disastro innominato di cui agli artt.434 e 449 c.p.
Secondo l’ipotesi accusatoria, infatti, le condotte degli
imputati avevano provocato la contaminazione, con elevante concentrazioni di
diossine e di altri composti tossici, dei sedimenti dei canali e delle acque
antistanti le zone industriali di Porto Marghera e avevano gravemente
compromesso il suolo, il sottosuolo e le acque di falda sottostanti varie aree
interne ed esterne allo stabilimento con l’accumulo incontrollato di grandi
quantità di rifiuti provenienti dalla stessa attività industriale in ben
ventisei discariche analiticamente indicate negli allegati al capo
d’imputazione.
Inoltre a tutti gli imputati veniva addebitato di aver
causato e, comunque, incrementato il progressivo avvelenamento (ex artt.439 e
452 c.p.) delle acque di falda, utilizzate anche per uso domestico ed agricolo,
sottostanti l’area del Petrolchimico ed altre aree vicine e l’adulterazione (ex
artt.440 e 452 c.p.) di risorse alimentari costituite dalla ittiofauna presente
nei sedimenti e nelle acque dei canali lagunari prossimi alle zone industriali.
Tale diffusa contaminazione si era trasmessa dagli scarichi nelle acque e dalla
percolazione delle discariche ai sedimenti dei canali e, da questi, alle specie
viventi.
Da ciò un grave pericolo attuale per l’incolumità pubblica e
la permanenza in atto.
A fronte di tali gravi contestazioni però, il giudice di
primo grado, all’esito di una lunga e laboriosa istruttoria dibattimentale,
aveva assolto tutti gli imputati da tutti gli addebiti perché il fatto non
sussiste. Anche questa parte della sentenza, concernente il secondo capo
d’imputazione, è stata impugnata dal Pubblico Ministero, dall’Avvocato dello
Stato in rappresentanza della Presidenza del Consiglio dei Ministri e del
Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio, nonché da varie altre
parti civili ( Regione Veneto, Comune di Venezia, Comune di Campagnalupia, Comune
di Mira, Comitato Regionale del Veneto di Lagambiente, Associazione nazionale
per la tutela del patrimonio storico, artistico e naturale della Nazione Italia
Nostra O.n.l.u.s., Provincia di Venezia, Associazione Italiana per il World
Wilde Fund for Nature, Medicina
Democratica e la Federazione di Venezia della Associazione Lavoratrici
Lavoratori Chimici Affini).
Dal punto di vista metodologico si ritiene opportuno
precisare in questa sede che le doglianze avanzate dagli appellanti saranno
prese in esame seguendo puntualmente lo schema dei motivi d’appello presentati
dal P.M. in quanto sono indubbiamente quelli più completi ed esaustivi, tanto
che molte altre parti appellanti non hanno potuto fare altro che riportarsi
integralmente a tali motivi nei rispettivi atti di impugnazione.
Ovviamente, per ogni singolo capo, verranno riportate anche
le argomentazioni degli altri appellanti se risulteranno diverse o più
approfondite rispetto a quelle esposte dal P.M. nei suoi motivi.
Fatta questa breve premessa, si può ora passare ad esaminare
le varie doglianze prospettate dagli
appellanti per valutare se sono fondate o meno.
CAPITOLO 3.1 APPELLO
P.M.
I motivi d’appello presentati dal P.M. prendono l’avvio
dall’affermazione che il Tribunale avrebbe deformato l’ipotesi accusatoria
giungendo alla conclusione errata che le contestazioni avevano assunto un
contenuto generico e generalizzato al punto da apparire infondate e non
provate.
Un esempio di tale deformazione è costituito dal fatto che
il Tribunale ha costantemente parlato, nella motivazione della sentenza, di
zona industriale nel suo complesso, di decenni di catabolismo industriale, di
decenni di gestione del plesso produttivo, ingenerando così l’idea di un processo
promosso nei confronti di un certo tipo di gestione industriale anziché nei
confronti di ben individuate persone in relazione a precise responsabilità
personali.
Sul punto la doglianza del P.M. appare fondata.
In vero il capo d’imputazione risulta formulato in modo
sufficientemente analitico malgrado la vastità dell’oggetto del procedimento
dal punto di vista sia temporale, sia spaziale.
Bisogna infatti dare atto che il P.M. nel suo capo
d’imputazione ha contestato ai singoli imputati, ben identificati con
l’indicazione anche dei periodi per i quali avevano assunto posizioni di
garanzia nell’ambito delle rispettive organizzazioni aziendali, fatti o
comportamenti omissivi determinati che, secondo l’ipotesi accusatoria, avevano
dato origine o, comunque, incrementato l’inquinamento con riferimento a precisi
siti di discarica, alle sottostanti acque di falda, ai sedimenti e alle acque
dei canali prospicienti Porto Marghera.
I dati di fatto sopra indicati sono analiticamente elencati
negli allegati al capo di imputazione che, ovviamente, ne fanno parte
integrante.
Indubbiamente nel corso dell’istruttoria dibattimentale di
primo grado e durante la discussione finale, sia in primo che in secondo grado,
il P.M. si è soffermato prevalentemente sugli argomenti di carattere generale
nel tentativo di dimostrare la fondatezza delle proprie tesi, lasciando in
secondo piano le posizioni dei singoli imputati, ma da ciò non può dedursi la
genericità o la indeterminatezza delle accuse.
Come si è sopra detto, i numerosi problemi affrontati nel
corso del processo, l’ampiezza del periodo temporale preso in esame, la
necessità di sintetizzare le argomentazioni per renderle adeguatamente
comprensibili e inquadrabili in schemi logici quanto più possibile chiari e
memorizzabili, hanno inevitabilmente portato il P.M. a generalizzazioni e a
sintesi che possono aver erroneamente indotto a ritenere che il processo avesse
come oggetto un certo modo di svolgere attività industriale anziché ben
individuati imputati per singole e personali responsabilità.
Tuttavia questo Collegio ritiene che le contestazioni
effettuate dal P.M. abbiano i caratteri della concretezza e della specificità
necessariamente richiesti per la validità di qualsiasi capo d’imputazione e che
consentono di esaminare e valutare la posizione dei singoli imputati in
relazione agli addebiti mossi a ciascuno.
I fatti risultano in effetti contestati in modo specifico
con l’indicazione dei luoghi in cui si sono verificati gli inquinamenti delle
acque e dei sedimenti e per ogni imputato appaiono indicati con sufficiente
precisione i relativi addebiti con riferimento ai periodi in cui ciascuno aveva
svolto il proprio incarico all’interno delle aziende.
L’appellante lamenta poi il fatto che la sentenza impugnata
abbia erroneamente ritenuto che il P.M., con la modifica dell’originario capo
d’imputazione effettuata all’udienza dibattimentale del 13\12\2000 e
consistita, per quanto ora ci interessa, nell’aggiungere quale specificazione
del tempus commissi delicti l’espressione “permanenza in atto”, abbia
contestato a tutti gli imputati un disastro innominato permanente.
Precisa ora il P.M. che in realtà si voleva contestare la
permanenza in atto degli effetti e non delle condotte degli imputati (oltre
alla permanenza dei reati contravvenzionali).
Tale precisazione appare quanto mai opportuna e
chiarificatrice dato che l’espressione “permanenza in atto” non poteva che
essere interpretata letteralmente come contestazione del reato di disastro
innominato permanente.
In questa sede si deve ora prendere atto di quanto
espressamente è stato chiarito dal P.M. e quindi tener conto del fatto che la
permanenza di cui si parla nel capo d’imputazione è riferita agli effetti del
reato contestato e non alle condotte degli imputati.
Il P.M. rileva poi come il Tribunale, dopo aver affermato
con varie ordinanze dibattimentali che il capo d’accusa era sufficientemente
determinato ed aver enunciato, per quanto riguarda l’impostazione giuridica del
“disastro innominato”, una serie di principi generali condivisibili come quello
secondo cui “ la rilevanza dell’apporto del singolo imputato (o di imputati
agenti in epoca coeva)….. può essere pensata anche in termini di efficienza
causale avuto riguardo a condizioni di aggravamento di un evento di danno
ambientale già prodottosi (aggravamento, come ovvio, adeguato alla gravità e
alla complessità del danno alle cose e al dato di pericolo per l’incolumità
pubblica che il disastro porta con sé)” (Sentenza, pag.483), era poi tornato
sui suoi passi continuando ad impostare la deformazione dell’accusa.
Infatti l’appellante evidenzia che subito dopo la sentenza
“ha assunto la rilevanza del problema di condotte determinative di condizioni
di aggravamento di un evento già verificatosi, aggravamento di un evento di
danno ambientale, è evidente, di significato adeguato alla complessità
dell’evento tipico ed adeguato alla condizione di pericolo per l’incolumità
pubblica che del disastro c.d. innominato costituisce requisito di fattispecie”
(Sentenza, pag.483).
In questo modo il Tribunale aveva accolto un concetto di
disastro unico, onnicomprensivo e di dimensioni tali che qualsiasi contributo
individuale non poteva incidere in modo efficace e penalmente rilevante.
Il P.M. aveva invece contestato specifici contributi da
parte dei singoli imputati alla causazione ed all’incremento di diversificati
inquinamenti ed avvelenamenti riferiti in particolare all’attività degli
specifici impianti del ciclo del cloro.
Si tratta di danni nuovi e diversificati rispetto a quelli
generici e generali di cui parla la Sentenza di primo grado.
Ad avviso di questo Collegio anche questa doglianza del P.M.
appare in linea astratta fondata, ma si dovrà in seguito valutare se i
contributi dei singoli imputati contestati nel capo d’imputazione siano risultati
provati alla luce delle emergenze processuali.
Identiche considerazioni devono farsi anche in relazione
all’altra “deformazione dell’accusa” lamentata dal P.M. con riferimento alle
affermazioni della Sentenza di primo grado che a pag.485 parla di “condotte…indistintamente
avvinte in un addebito di cooperazione colposa, dove ciascun cooperante assume
corresponsabilità per l’insieme delle conseguenze (asseritamene) prodotte dal
catabolismo del plesso industriale. Quello di decenni”, giungendo così alla
conclusione che “l’aggravamento preesistente non è rilevante” e che “ogni
garante risponde per come ha adempiuto alla garanzia di lui dovuta e nei limiti
dell’apporto recato.Rimane fermo che l’antecessore può essere chiamato a
rispondere degli effetti penalmente rilevanti della sua condotta, pure di
quelli successivi alla cessazione sua nella posizione di garanzia.
Ma l’imputato non potrà essere chiamato a rispondere di
fatti (anteriori, concomitanti o successivi) cagionati da altri, senza alcun
rapporto con la sua sfera di attività, senza relazione con la garanzia dovuta,
senza accertamento di un nesso di causa tra condotta (sua propria, non
dell’azienda di appartenenza) ed evento”.
Il rappresentante della Pubblica Accusa, a fronte delle
sopra citate affermazioni del giudice di primo grado, evidenzia che nel capo
d’imputazione era contestato, oltre all’art.113 c.p., anche l’art.81, commi 1°
e 2° c.p. nonché l’art.437 c.p. nel suo complesso per cui era compito del
Tribunale accertare una responsabilità dei singoli imputati sia come
cooperazione colposa, sia come concorso di cause colpose indipendenti tra loro,
sia come risultato dei comportamenti di cui all’art.437 c.p.
Anche in questo caso la doglianza del P.M. appare
astrattamente fondata, salvo accertare nel merito la sussistenza della
responsabilità degli imputati in base a quanto emerso nel corso
dell’istruttoria dibattimentale.
L’ultima deformazione dell’accusa denunciata dal P.M. riguarda il fatto che il Tribunale
non avrebbe preso in considerazione il disastro contestato ai sensi
dell’art.437 c.p. non spendendo una sola parola sull’argomento.
In effetti la sentenza di primo grado, nella parte relativa
al capo secondo dell’imputazione, non parla mai dell’art.437 c.p.
La circostanza risulta sicuramente spiegabile in
considerazione del fatto che il primo giudice, dopo aver preso in esame
l’accusa di omissione di cautele antinfortunistiche nella parte della sentenza
concernente il primo capo d’imputazione, aveva assolto tutti gli imputati da
tale accusa con formula ampia escludendo l’esistenza di omissioni di cautele
antinfortunistiche rilevanti per una condanna.
Su tale premessa era quindi una logica conseguenza che il
Tribunale non prendesse più in esame il reato di cui all’art.437 c.p. come
presupposto del disastro ambientale di cui al capo secondo dell’imputazione.
Questo Collegio ha invece ritenuto la sussistenza del reato
di cui all’art.437 c.p.(pur dichiarandolo prescritto) in relazione all’omessa
collocazione di impianti di aspirazione negli ambienti di lavoro nel periodo
compreso fra il 1974 ed il 1980.
Si può fin da ora rilevare che la mancanza di impianti di
aspirazione non appare idonea a provocare l’evento di disastro “ambientale”
comunque qualificato e sicuramente non risulta acquisita alcuna prova che tale
omissione abbia avuto conseguenze penalmente rilevanti al di fuori
dell’ambiente di lavoro coinvolgendo persone esterne ai singoli reparti presi
in considerazione con conseguente pericolo per la pubblica incolumità.
Ora è possibile passare all’esame dei motivi d’appello
concernenti i vari punti della sentenza impugnata.
CAPITOLO 3.2 APPELLO P.M.
In primo luogo il P.M. prende in esame il capo della
sentenza in cui si respinge l’accusa rivolta agli imputati di cui alla lettera
A) dell’imputazione di aver concorso a provocare l’inquinamento e, di
conseguenza, il progressivo avvelenamento delle acque di falda e delle acque
dei canali lagunari prospicienti il Petrolchimico, mediante condotte poste in
essere in epoca precedente all’entrata in vigore del D.P.R. 10\9\1982 n.915 e
consistite nella realizzazione e gestione di discariche abusive in assenza di
opportune cautele.
Il primo giudice aveva infatti ritenuto che l’attività di
gestione dei rifiuti da parte degli imputati prima dell’entrata in vigore del
D.P.R. 915\82 non fosse disciplinata da alcuna norma specifica e che, di
conseguenza, non era individuabile una “norma agendi” da valutare come
parametro al quale la condotta degli imputati avrebbe dovuto attenersi per
risultare esente da colpa.
Secondo il Tribunale gli imputati avevano gestito i rifiuti
industriali con modalità non dissimili da quelle utilizzate da coloro che in
quel periodo svolgevano le stesse attività; a conferma di ciò vi era la
circostanza che la pubblica amministrazione aveva, di fatto, consentito che
varie aree situate all’interno e all’esterno dell’insediamento del
Petrolchimico fossero dedicate al deposito e alla gestione dei rifiuti industriali,
non intervenendo in alcun modo.
Sul punto il P.M. evidenzia che già prima dell’entrata in
vigore della disciplina generale sui rifiuti di cui al D.P.R. 915\82 il
deposito di rifiuti sul suolo e, quindi, la realizzazione di discariche era
soggetta a divieti e limitazioni normativi.
L’appellante ricorda:
1) la legge regionale del Veneto del 6\6\1980 n.85 il cui
art.38 vietava “…di abbandonare e depositare rifiuti di qualsiasi genere su
aree pubbliche o private, nonché scaricare o gettare rifiuti nei corsi d’acqua,
canali, laghi, lagune o in mare”;
2) la legge 5\3\1963 n.366 il cui art.10 stabiliva che “ è
vietato di scaricare o disperdere in qualsiasi modo rifiuti o sostanze che
possono inquinare le acque della laguna…”. “Entro l’attività lagunare non possono
esercitarsi industrie che refluiscano in laguna rifiuti atti ad inquinare o
intossicare le acque”;
3) l’art.17 della legge 20\3\1941 n366 che vietava in modo
assoluto “il gettito dei rifiuti ed il temporaneo deposito di essi nelle
pubbliche vie e piazze…,nei terreni pubblici e privati”;
4) gli artt. 9 e 36 del R.D. 8\10\1931 n.1604 che
prevedevano la necessità per gli stabilimenti industriali, prima di versare
rifiuti nelle acque pubbliche, di ottenere il permesso dal Presidente della
Giunta Provinciale il quale doveva anche prescrivere gli eventuali
provvedimenti atti ad impedire danni all’industria della pesca.
Il P.M. ricorda poi anche i Regolamenti d’Igiene dei Comuni
di Mira (pubblicato in data 30\7\1954) e Venezia ( approvato con determinazioni
Podestarili 16\2\1928 e 8\6\1929), nei cui territori si trovavano buona parte
delle discariche elencate in imputazione, che vietavano esplicitamente il getto
e l’accumulo di rifiuti e immondizie su qualsiasi area scoperta, sia pubblica
che privata sancendo che gli stessi dovevano essere portati fuori dall’abitato
nei luoghi e depositi stabiliti dall’Autorità Comunale.
Di conseguenza, secondo il P.M., l’ordinamento prevedeva,
anche prima del D.P.R. 915\82, “dei precisi divieti che non consentivano la
realizzazione delle discariche oggetto di imputazione, e quindi non essendo
queste in alcun modo autorizzate, le stesse dovevano considerarsi contra legem”
.(Appello P.M., pag.1100).
Alle sopra riferite argomentazioni del Pubblico Ministero,
ribadite in sede di discussione dal Procuratore Generale nella memoria
depositata il 6\7\2004 (pagg. 8 e 9), si è associata anche la parte civile
Provincia di Venezia che, nella memoria depositata il 2\12\2004, aggiunge alle
disposizioni di legge e regolamentari indicate dal P.M. una serie di altre
leggi che, già all’epoca, si preoccupavano di salvaguardare la salubrità
dell’ambiente e di preservare l’ecosistema da ogni forma di inquinamento.
La parte civile Provincia di Venezia ricorda infatti la
Legge 2\3\1963 n.397 “Nuovo ampliamento del porto e zona industriale Venezia –
Marghera” che imponeva il rispetto delle esigenze di sicurezza, di igiene
pubblica e di incolumità degli abitanti nella attuazione del piano di
ampliamento della zona industriale di Porto Marghera; la Legge 13\7\1966 n.615
che recava Provvedimenti contro l’inquinamento atmosferico, e il successivo
D.P.R. 15\4\1971 n.322 esecutivo di tale legge limitatamente al settore
industriale; la Legge 16\4\1973 n.171 Interventi per la salvaguardia di
Venezia; il D.P.R. 20\9\1973 n.962 sulla Tutela della città di Venezia e del
suo territorio dagli inquinamenti delle acque; la Legge 10\5\1976 n.319 Norme
per la tutela delle acque dall’inquinamento.
Rileva questo Collegio che, indubbiamente, le norme indicate
dagli appellanti offrono un panorama dei più significativi tentativi fatti dal
legislatore dell’epoca per tutelare e salvaguardare la salubrità dell’ambiente
e per proteggere il territorio dalle varie forme di inquinamento.
Tuttavia nessuna delle disposizioni indicate sembra dare una
risposta adeguata al problema che oggi si deve risolvere e cioè se nel periodo
anteriore all’entrata in vigore del D.P.R. 915\82 fosse in qualche modo
individuabile una norma agendi alla quale i nostri imputati avrebbero dovuto
attenersi nell’attività di deposito e gestione dei rifiuti.
Tale norma agendi non può certo ricavarsi dalle leggi
indicate dalla sola parte civile Provincia di Venezia che prevedono
disposizioni di carattere generale tendenti a prevenire fenomeni di
inquinamento della più varia origine, ma che nulla dicono circa le modalità di
gestione dei rifiuti industriali.
Invece le norme indicate dal P.M. nei suoi motivi d’appello
contengono sicuramente delle prescrizioni relative alla gestione dei rifiuti,
ma si tratta con tutta evidenza di prescrizioni assolutamente generiche che non
forniscono alcuna regola di condotta alla quale gli imputati avrebbero potuto e
dovuto attenersi.
Troviamo infatti sempre generici divieti di getto, deposito
o dispersione di rifiuti in aree pubbliche o private o in acque pubbliche, ma
nulla si dice circa le modalità da seguire per una corretta gestione dei
rifiuti stessi da parte di privati che si trovavano nella necessità di
liberarsi di notevoli quantitativi di rifiuti industriali.
In altre parole bisogna prendere atto che all’epoca il
problema di una corretta gestione dei depositi di rifiuti non era sentito come
particolarmente pressante nella coscienza sociale non essendo ancora ben
conosciuti i pericoli insiti nella presenza sul territorio di grandi masse di
sostanze tossiche e nocive abbandonate perché non più utilizzabili.
Le Autorità Pubbliche si preoccupavano essenzialmente di
regolare il trattamento dei rifiuti al solo fine di evitare che venissero
abbandonati in modo incontrollato su aree pubbliche e private con conseguenti
problemi di natura igienica ed “estetica”; nessuno si era ancora posto il
problema di regolamentare tutte le fasi dello smaltimento dei rifiuti e, tanto
meno, di fissare disposizioni e regole per garantire che i luoghi usati come
discariche fossero individuati e organizzati in modo tale da fornire la sicurezza che nel tempo il
percolato non mettesse in pericolo le falde acquifere sottostanti o i terreni
circostanti.
Quindi, il Tribunale, dopo aver preso atto della mancanza di
norme specifiche che fornissero un parametro per valutare le condotte degli
imputati che avevano creato e gestito le discariche prima dell’entrata in
vigore del D.P.R. 915\82, è giunto alla conclusione che le uniche disposizioni
che in qualche modo, all’epoca, regolavano la materia delle discariche erano
quelle di cui al Testo Unico delle Leggi Sanitarie (R.D. 27\7\1934 n.1265) con
particolare riferimento all’art.216 che conteneva la prescrizione di isolare le
lavorazioni insalubri nelle campagne, lontano dalle abitazioni o con speciali
cautele per la incolumità del vicinato.
Nel territorio del Comune di Venezia la prescrizione
dell’art.216 T.U.LL.SS. era stata recepita con le Norme tecniche di attuazione
del Piano Regolatore Generale del 1956 che all’art.15 prevedeva che: “Nella
zona industriale troveranno posto prevalentemente quegli impianti che
diffondono nell’aria fumo, polvere o esalazioni dannose alla vita umana, che
scaricano sostanze velenose, che producono vibrazioni e rumori”.
Gli appellanti sostengono che le disposizioni di cui
all’art.216 T.U.LL.SS. e all’art.15 N.T.A. del P.R.G. di Venezia del 1965 non
possono ritenersi idonee a legittimare le condotte di realizzazione delle
discariche in imputazione in quanto la prima norma si riferiva unicamente alle
manifatture e alle fabbriche (e non alle discariche), mentre la seconda norma
aveva natura prettamente urbanistica e, comunque, non prevedeva la possibilità
di creare nell’area di Porto Marghera zone di scarico e gestione di rifiuti.
Rileva questo Collegio che effettivamente l’art.216 del
T.U.LL.SS. si riferisce esplicitamente alle “manifatture o fabbriche” e non
parla di discariche, ma esaminando l’elenco delle industrie insalubri allegato
al T.U. troviamo tra le Attività industriali indicate alla lettera C della
Parte I il riferimento agli “Inceneritori” e al “Deposito e demolizione di
autoveicoli ed altre apparecchiature elettromagnetiche e loro parti fuori uso”.
Si tratta con tutta evidenza di attività relative al trattamento di materiali destinati
alla eliminazione e, quindi, estremamente simili a quelle attività connesse
allo smaltimento dei rifiuti veri e propri.
Da ciò può desumersi la volontà del legislatore di
regolamentare tutte le attività il cui svolgimento comportasse l’emissione di
vapori, gas o altre esalazioni insalubri (come appunto il trattamento dei
rifiuti), indipendentemente dal fatto che si trattasse di “manifatture o
fabbriche” in senso tecnico, quanto meno fino al momento in cui entrò in vigore
una disciplina organica concernente i rifiuti con il D.P.R. 915\82. Fatte
queste osservazioni si deve quindi concludere che correttamente il Tribunale ha
ritenuto di escludere qualsiasi addebito di colpa per gli imputati che crearono
e gestirono le discariche di cui all’imputazione prima dell’entrata in vigore
del D.P.R. 915\82.
CAPITOLO 3.3 APPELLO
P.M.
RIFIUTI TOSSICO
NOCIVI E SCARICHI IDRICI
3.3.1 ILLECITO SCARICO DI RIFIUTI ANCHE DOPO L’ENTRATA IN
VIGORE DEL D.P.R. 915\82
La sentenza impugnata, continuando ad esaminare il problema
delle discariche interne ed esterne al Petrolchimico, afferma anche che le
prove raccolte in dibattimento non consentono di giungere alla conclusione che
anche dopo il 1983 (anno di entrata in vigore del D.P.R. 915\82) gli imputati
che all’epoca esercitavano potere d’impresa abbiano continuato a gestire le
discariche stesse in violazione delle disposizioni concernenti la materia dei
rifiuti.
In base alle testimonianze rese in dibattimento e alla
documentazione acquisita agli atti si era infatti accertato che (alla data di
entrata in vigore del D.P.R. 915\82) buona parte delle discariche indicate nel
capo d’imputazione non erano più utilizzate e che, per quelle ancora in
attività, era stata richiesta ed ottenuta l’autorizzazione allo stoccaggio
provvisorio di rifiuti tossici e nocivi.
Il Pubblico Ministero, il Procuratore Generale e la parte
civile Provincia di Venezia contestano le conclusioni sul punto del primo
giudice.
Gli appellanti sostengono che proprio le dichiarazioni
testimoniali richiamate nella sentenza e la documentazione acquisita, se
correttamente valutate ed interpretate, dimostrerebbero che anche dopo il 1982
erano continuati i conferimenti abusivi di rifiuti nelle discariche.
In particolare i testi Spoladori, Gavagnin e Pavanato, citati
dalla sentenza impugnata a riprova delle proprie conclusioni, non avevano
affatto escluso che dopo 1982 non vi fossero più stati conferimenti abusivi di
rifiuti.
Il teste Gavagnin, all’udienza del 16\3\2001, si era
limitato ad affermare che dopo il 1982 erano cessati i fenomeni più
macroscopici; il teste Pavanato, Dirigente del Settore Politiche Ambientali
della Provincia di Venezia, aveva precisato di non essere in grado di escludere
ogni possibile attività illecita dopo il 1982 in quanto il servizio di vigilanza
non poteva effettuare controlli sufficientemente efficienti per mancanza di
mezzi e di personale; il teste Spoladori, Ispettore del Corpo Forestale, non
aveva affatto fornito elementi a sostegno delle conclusioni del primo giudice,
ma, al contrario aveva confermato che almeno in due discariche l’attività
illecita era continuata dopo il 1982 (nelle isole 31 e 32 c.d. “Katanga” fino
al 1987\89 e nella discarica Moranzani fino al 1989).
In realtà un esame attento delle deposizioni testimoniali
non consente di ritenere fondate le doglianze degli appellanti.
Iniziando da quanto dichiarato dall’Ispettore Spoladori si
rileva che il teste non ha affatto affermato che nelle discariche “Katanga” e
Moranzani il conferimento dei rifiuti si era protratto oltre il 1982, al
contrario il teste ha precisato all’udienza del 7\11\2000 che per la c.d.
“Katanga” l’inizio dello scarico si poteva datare intorno al 1976 e che aveva
avuto fine attorno al 1982, mentre per la discarica Moranzani ha dichiarato che
l’area era stata utilizzata da Montedison tra 1965 ed il 1975 per scaricare
rifiuti provenienti dalla produzione dell’acetilene e dell’acido fluoridrico.
Lo stesso teste, quando ha poi parlato delle stesse discariche con riferimento
ad epoca successiva al 1982 ha fatto riferimento ad attività dirette alla messa
in sicurezza delle stesse e non certo ad attività di utilizzazione abusive.
Per quanto riguarda i testi Pavanato e Gavagnin è vero che
gli stessi non sono stati tassativi nell’affermare la cessazione di attività
abusive dopo il 1982 in quanto non avrebbero potuto farlo date le loro
rispettive possibilità di conoscenza dei fatti; tuttavia dalle loro
dichiarazioni si evince con sicurezza che dopo il 1982 non si verificarono
violazioni macroscopiche della normativa regolante lo smaltimento dei rifiuti.
Sarebbe stato compito della pubblica accusa provare il
contrario, ma ciò non è stato fatto.
Risulta quindi condivisibile l’affermazione del primo
giudice che non esiste prova certa e convincente che dopo il 1983 vi sia stata
da parte degli imputati una abusiva gestione delle discariche di cui
all’imputazione.
Gli appellanti lamentano poi il fatto che la sentenza di
primo grado, dopo aver dato atto della acquisizione delle autorizzazioni
rilasciate dall’autorità competente per lo stoccaggio provvisorio dei rifiuti,
non ha individuato per ogni singola discarica quale specifica autorizzazione
era stata rilasciata.
Si tratta di una doglianza generica e indeterminata che non
consente alcuna valutazione, mentre sarebbe stato necessario per le accuse
pubblica e privata indicare espressamente eventuali carenze o cause di
illegittimità delle singole autorizzazioni.
Astrattamente
fondata appare invece la doglianza degli appellanti relativa al tipo di
autorizzazione richiesta e rilasciata dall’Autorità competente per le
discariche in imputazione.
Risulta infatti pacificamente che nel caso in esame si
trattava di smaltimento definitivo di rifiuti nelle discariche che richiedeva
quindi l’autorizzazione indicata alla lettere d) dell’art.16 del D.P.R.915\82 e
non certo quella di cui alla lettera b) dello stesso articolo prevista per lo
stoccaggio provvisorio.
Le condizioni e le cautele richieste per i due tipi di
autorizzazione sono sostanzialmente diverse, come ha giustamente evidenziato la
parte civile Provincia di Venezia nella memoria depositata il 2\12\2004
(pag.29-32), in considerazione della diversa natura del tipo di attività che si
intende svolgere.
Ciò significa dal punto di vista astratto che gli imputati
che all’epoca svolgevano funzioni di garanzia si sarebbero resi responsabili
della violazione del disposto degli artt. 16, comma 1° lett.d) e 26 D.P.R.
915\82 avendo chiesto ed ottenuto per le discariche autorizzazioni diverse da
quelle prescritte dalla legge.
Tuttavia su tali contravvenzioni non è possibile alcuna
pronuncia, neppure di prescrizione, perché non sono mai state formalmente
contestate.
In vero, a parte il generico riferimento alle norme
incriminatici (artt.16 e 26 D.P.R. 915\82) contenuto nel capo d’imputazione, il
P.M. non ha mai formalmente contestato, neppure nel corso della fase
dibattimentale, agli imputati di aver gestito discariche con titolo
autorizzativo diverso da quello specificamente previsto dalla legge in
relazione alla effettiva natura dell’attività di smaltimento rifiuti svolta.
Si tratta infatti di un argomento sollevato per la prima
volta con la redazione dei motivi d’appello e, di conseguenza, gli imputati non
sono mai stati messi in condizione di svolgere le proprie difese su tale
addebito.
Per gli stessi motivi la condotta illecita di cui ora ci
occupiamo non può essere neppure valutata come addebito di colpa in relazione
ai delitti di disastro innominato, avvelenamento e adulterazione; si
tratterebbe comunque di una inutile argomentazione in quanto, come si vedrà in
seguito, la prospettata illecita gestione delle discariche non produsse, per
una fortunata serie di circostanze, conseguenze giuridicamente rilevanti sullo
stato delle acque di falda, dei canali industriali, dei sedimenti e del biota
lagunare.
A conclusione di questo capitolo si deve quindi affermare (a
conferma di quanto sostenuto dal Tribunale) che non esiste prova che dopo
l’entrata in vigore del D.P.R. 915\82 vi sia stata, da parte degli imputati che
all’epoca rivestivano funzioni di garanzia, conferimento di rifiuti nelle
discariche che formalmente risultavano ormai chiuse.
3.3.2 OMESSA APPLICAZIONE DELLA NORMATIVA CONCERNENTE LO
SMALTIMENTO DEI RIFIUTI IN RELAZIONE AGLI APPORTI IDRICI TALI DA QUALIFICARSI
RIFIUTI TOSSICO- NOCIVI E\O RIFIUTI PERICOLOSI, CON CONSEGUENTE DIVIETO DI LORO
SVERSAMENTO NELLE ACQUE DELLA LAGUNA DI VENEZIA.
In questo capitolo viene affrontato un problema molto
dibattuto nel corso del giudizio di primo grado e cioè quello della normativa
applicabile ai reflui liquidi scaricati dal Petrolchimico nelle acque della
laguna.
Si deve ricordare che, secondo l’ipotesi accusatoria, gli
scarichi delle acque di processo provenienti dai reparti CV 22\23 e CV 24\25
contenevano Cloruro di Vinile Monomero e confluivano nel flusso in uscita dagli
scarichi SM2 ed SM15 del Petrolchimico finendo nelle acque dei canali lagunari.
La presenza del CVM nelle acque di processo dei reparti CV
22\23 e CV 24\25 conferiva all’intero flusso in uscita dagli scarichi
principali sopra indicati il carattere di “rifiuto tossico e nocivo”.
Conseguentemente, secondo l’accusa, tutti i reflui
provenienti dal Petrolchimico avrebbero dovuto essere trattati come rifiuti
“tossico – nocivi” nel rispetto delle disposizioni di cui al D.P.R. 915\82, anziché
come semplici scarichi idrici regolati dalle disposizioni della Legge 10\5\1976
n.319 con l’osservanza dei parametri di accettabilità di cui al D.P.R.
n.962\1973, legge speciale “ratione loci”.
Il Tribunale, all’esito della approfondita istruttoria
dibattimentale, aveva invece ritenuto infondata la tesi accusatoria sul punto
in esame in quanto i flussi in uscita dagli scarichi del Petrolchimico non
potevano essere in alcun modo qualificati come rifiuti tossico-nocivi e, di
conseguenza, non avrebbero dovuto essere gestiti, trattati e smaltiti secondo
le norme del D.P.R. 915\82 in quanto in realtà assoggettabili alla disciplina
dello scarico delle acque, in fatto sicuramente rispettata dato che tutti gli
scarichi erano risultati debitamente autorizzati.
Anche tale parte della sentenza di primo grado è stata
oggetto di specifici motivi d’appello, sia da parte del P.M., sia da parte
dell’Avvocato dello Stato che, sull’argomento, si è particolarmente cimentato
anche con memorie depositate nel corso della discussione.
Alcune delle doglianze avanzate dagli appellanti sono una
mera riproposizione degli argomenti esposti nel corso del giudizio di primo
grado a sostegno della tesi accusatoria, ma ritenuti infondati dal Tribunale
con motivazione pienamente condivisibile.
In primo luogo, infatti, gli appellanti sostengono che in
base alla normativa vigente all’epoca
dei fatti qualsiasi scarico idrico, dovendo essere considerato una
“….sostanza…derivante da attività umane……destinata all’abbandono” (art.2 D.P.R.
915\82) rientrava astrattamente nella previsione del D.P.R. sopra citato, salvo
verificare caso per caso la sussistenza delle condizioni che eventualmente
legittimassero l’applicazione delle discipline normative relative agli scarichi
nelle acque (Legge 319\76 e D.P.R. 962\73).
Secondo tale tesi sarebbe la reale “tipologia del refluo” a
definire se ad uno scarico sia applicabile la legge 319\76 (e nella laguna di
Venezia il D.P.R. 962\73) o se invece sia applicabile la normativa generale sui
rifiuti di cui al D.P.R. 915\82.
Ciò premesso, risulta quindi necessario far ricorso alla
normativa tecnica e di attuazione del D.P.R. 915\82 per accertare quali
scarichi rientrino nella previsione della legge 319\76 e quali invece
nell’ambito della più severa normativa concernente i rifiuti.
La Deliberazione 27\7\1984 del Comitato Interministeriale
previsto dall’art.5 D.P.R. 915\82 sancisce che possono essere regolati dalla
Legge 319\76 tutti gli scarichi che non derivano dalle attività produttive che
figurano nell’elenco 1.3 della stessa Deliberazione, mentre per quelle attività
che figurano nel citato elenco il soggetto obbligato deve dimostrare
positivamente che i rifiuti prodotti non sono classificabili tossici e nocivi
provando che i reflui non contengono una o più sostanze indicate nella tabella
1.1 in concentrazioni superiori ai valori di concentrazione limite indicati
nella stessa tabella e\o una o più delle altre sostanze appartenenti ai gruppi
di cui all’allegato al D.P.R. 915\82 in concentrazioni superiori ai valori di
concentrazione limite.
Nel caso in esame i reflui dei reparti CV 22\23 e CV 24\25
provengono da attività riconducibili a quelle indicate nella tabella 1.3 della
Deliberazione del Comitato interministeriale 27\7\1984 trattandosi di acque
reflue di impianti di produzione dei clorurati organici; conseguentemente gli
imputati, per potersi avvalere del regime più blando previsto dalla normativa
per gli scarichi idrici, avrebbero dovuto dimostrare che i reflui non
contenevano sostanze indicate nella tabella 1.1 in concentrazione superiore
alla concentrazione limite.
Tale prova non era stata fornita dagli imputati, al
contrario era stata accertata la presenza di CVM negli scarichi anche in
concentrazioni superiori ai limiti.
Tutto ciò, secondo la tesi accusatoria, dimostrava che tutti
i reflui convogliati negli scarichi del Petrolchimico avrebbero dovuto essere
considerati come rifiuti tossico\nocivi e smaltiti tramite termodistruzione
come previsto dal D.P.R. 915\82.
Ad avviso di questo Collegio il Tribunale ha giustamente
disatteso le argomentazioni della pubblica accusa.
E’ noto il travaglio giurisprudenziale e dottrinale che per
molti anni ha caratterizzato la trattazione del problema in esame.
I criteri fondamentali da adottare per definire i campi di
intervento delle due discipline normative fondamentali in materia ambientale
(D.P.R. 915\82 in materia di rifiuti e Legge 319\76 in materia di scarichi
idrici) sono stati finalmente precisati e riassunti nella pronuncia delle
Sezioni Unite della Corte di Cassazione
del 27\10\1995 ripetutamente richiamata da tutte le parti processuali a
sostegno delle rispettive tesi.
In realtà una corretta e lineare interpretazione di tale
importante decisione della Suprema Corte consente di risolvere in modo chiaro
anche il problema che tanto si è dibattuto nel presente procedimento.
Dalla lettura di tale sentenza si rileva in primo luogo che
il D.P.R. 915\82 regola l’intera materia dei rifiuti al cui interno si
inserisce “come cerchio concentrico minore” la normativa relativa agli scarichi
e cioè la Legge 319\76 e la legge speciale “ratione loci” D.P.R. 962\73.
Dal punto di vista delle caratteristiche fisiche delle
sostanze destinate all’abbandono vi è poi la distinzione fra le sostanze
solide, per il cui smaltimento si deve far ricorso alla disciplina fissata dal
D.P.R. 915\82, e le sostanze liquide o a prevalente contenuto acquoso, comunque
convogliate o convogliabili in condotte, la cui disciplina si ricava dalle
disposizioni della Legge 319\76 e altre norme speciali ratione loci.
Inoltre, ai sensi dell’art.2, comma 6° D.P.R. 915\82, sono
soggetti alla disciplina degli scarichi anche lo smaltimento nelle acque, sul
suolo e nel sottosuolo dei liquami e dei fanghi, compresi quelli residuati da
cicli di lavorazione e da processi di depurazione, a condizione che non
appartengano alla classe dei rifiuti tossico\nocivi. Infatti se i liquami e i
fanghi di cui sopra risultano essere tossico\nocivi si deve applicare allo
smaltimento degli stessi la normativa del D.P.R. 915\82.
L’ultimo principio ricavabile dalla normativa e
accuratamente evidenziato dalla sentenza della Suprema Corte è quello per cui
il D.P.R. 915\82 disciplina tutte le singole operazioni di smaltimento dei
rifiuti prodotti da terzi con esclusione delle fasi concernenti i rifiuti
liquidi (o assimilabili come i fanghi e i liquami non appartenenti alla classe
dei rifiuti tossico\nocivi).
Alla luce di tali principi è inevitabile giungere alla
conclusione che non può essere applicata la normativa sui rifiuti ai reflui provenienti
dai reparti CV del Petrolchimico.
E’ pacifico e non contestato dalle parti che nel caso in
esame le sostanze destinate all’abbandono non sono solide e, conseguentemente,
non rientrano “per natura” nella disciplina del D.P.R. 915\82.
Si tratta, al contrario, di sostanze liquide convogliate di
fatto in condotta ed immesse direttamente, senza soluzione di continuità, nel
corpo recettore previo trattamento e abbattimento del carico inquinante;
quindi, “per natura”, la disciplina applicabile è quella degli scarichi di cui
alla Legge 319\76 e, ratione loci, al D.P.R. 962\73.
Fatta questa premessa, si tratta ora di appurare se i reflui
dei reparti CV possano rientrare nella categoria dei “fanghi e liquami” per la
quale è previsto il particolare regime di cui al comma 6° dell’art.2 D.P.R.
915\82 con la conseguente necessità di accertare se si tratta di rifiuti
tossico\nocivi per poter determinare il regime di smaltimento al quale devono
essere sottoposti.
Sembra evidente che i reflui del Petrolchimico non possono
definirsi “fanghi” stante la loro natura essenzialmente “liquida”.
Secondo gli appellanti si tratterebbe di “liquami”, ma la
tesi non appare accoglibile.
Dal complesso normativo preso in esame si ricava in modo
evidente che il legislatore, ricorrendo al termine “liquame” abbia voluto far
riferimento a quei rifiuti liquidi o semiliquidi che vengono smaltiti in forma
non canalizzata.
Significativa in tal senso risulta la terminologia usata dal
legislatore per indicare il modo con il quale il liquame viene disperso nel
corpo recettore dato che sia nell’art.2 lett.e) punto 2 della Legge 319\76, sia
nell’art.2, comma 6° D.P.R. 915\82, usa il termine “smaltimento nelle acque,
sul suolo e nel sottosuolo” e non già il termine “scarico”.
E’ noto che il termine “smaltimento” viene usato per
indicare qualsiasi modalità di sversamento di rifiuti liquidi o semiliquidi nel
corpo ricettore, mentre il termine “scarico” indica tecnicamente la specifica
modalità di sversamento effettuata mediante canalizzazione continua e stabile.
In conclusione si può quindi affermare che i liquami sono
rifiuti liquidi o semiliquidi smaltiti in modo diverso dallo scarico nel corpo
recettore tramite canalizzazione.
Sul punto gli appellanti hanno sostenuto che nel caso in
esame non si potrebbe parlare di scarico effettuato senza soluzione di
continuità, ma di scarico indiretto e, conseguentemente, i reflui dei reparti
CV dovrebbero essere considerati rifiuti liquidi per i quali sarebbe necessario
accertare se sono tossico\nocivi o meno per valutare la disciplina normativa
applicabile.
L’argomentazione degli appellanti si basa sul fatto che i
reflui provenienti dai reparti CV 22\23 e CV 24\25 del Petrolchimico
confluiscono nell’impianto di trattamento denominato SG 31 prima di essere scaricati
in laguna; risulta altresì pacificamente che l’impianto SG 31 è gestito da un
soggetto giuridico diverso dal titolare dello stabilimento Petrolchimico, di
conseguenza il rapporto diretto tra le acque dei reparti CV ed il corpo
recettore risulta interrotto dall’attività di un soggetto diverso dal
produttore dello scarico.
Ci si trova quindi in presenza di un c.d. “scarico
indiretto” che, ai sensi del D.Leg.vo 152\99, non può essere regolamentato
dalla normativa sugli scarichi idrici, ma da quella sullo smaltimento dei
rifiuti.
Rileva questo Collegio che effettivamente il D.Leg.vo
152\99, ridisegnando tutta la normativa sulla tutela delle acque
dall’inquinamento, ha fornito all’art.2, comma 1° lett. bb) una precisa
definizione del concetto di “scarico” precisando che si tratta di “.qualsiasi
immissione diretta tramite condotta di acque reflue liquide, semiliquide e
comunque convogliabili…” statuendo così che gli scarichi indiretti sono esclusi
dalla disciplina degli scarichi e assoggettati a quella dei rifiuti.
Tuttavia la distinzione fra scarico diretto e scarico
indiretto è chiaramente riferita alla conformazione naturalistica dello scarico
in esame.
Lo scarico è diretto quando non vi è soluzione di continuità
nella canalizzazione che porta il refluo dal luogo di produzione e quello di
immissione nel corpo recettore.
Lo scarico è indiretto, e quindi assoggettato alla
disciplina sui rifiuti, quando non vi è una canalizzazione continua fra luogo
di produzione e luogo di immissione del refluo; in altre parole la
trasformazione del refluo in rifiuto liquido, con conseguente applicazione
della disciplina dei rifiuti, presuppone “l’interruzione funzionale del nesso
di collegamento diretto fra la fonte di produzione del refluo ed il corpo
recettore” (Cass. Sez. III, 24\2\2003 n.8758) attraverso il trasporto
extrafognario del refluo ( un esempio classico è costituito dal trasporto dei
reflui mediante autobotte o bettoline).
Non è possibile, invece, ritenere uno scarico “indiretto”
per il semplice fatto che una persona (fisica o giuridica) diversa dal
produttore del refluo sia titolare in tutto o in parte dell’impianto di
depurazione o della canalizzazione.
L’accoglimento di simile tesi porterebbe infatti a
conseguenze assurde ed inaccettabili; basta pensare a tutti coloro che si
servono di un impianto di trattamento o depurazione consortile che si
troverebbero in aperta violazione della norma penale perché smaltiscono senza
autorizzazione rifiuti liquidi.
Riassumendo quanto fin ad ora esposto si deve quindi convenire
con quanto affermato dal Tribunale sul punto in esame e cioè che le tesi di
accusa sulla necessità di qualificare i reflui di derivazione da alcuni reparti
del Petrolchimico come rifiuti tossico\nocivi sono infondate.
Si tratta infatti di reflui che per la loro natura fisica
(liquidi) e per le modalità di smaltimento (mediante canalizzazione stabile e
continua dal luogo di produzione a quello di sversamento nel corpo recettore)
devono essere regolati dalla normativa sugli scarichi idrici (Legge 319\76 e D.P.R.
962\73 ratione loci).
Per le argomentazioni sopra esposte si deve altresì
escludere che gli stessi reflui rientrino nell’eccezione prevista dal comma 6°
dell’art.2 del D.P.R. 915\82 con la conseguente necessità di accertare se si
tratti di rifiuti tossico\nocivi o meno al fine di determinare la disciplina
applicabile per lo smaltimento degli stessi. Infatti gli scarichi idrici sono
regolati dalle disposizioni della Legge 319\76 ( e del D.P.R. 962\73)
indipendentemente dalla qualità e dalla quantità di sostanze inquinanti che
contengono purché vengano rispettati i limiti tabellari previsti per ciascuna
sostanza al momento della confluenza dello scarico nel corpo recettore.
Quest’ultima affermazione ha trovato una precisa conferma
normativa nel disposto dell’art.2, comma 1° lett. bb) del D.Leg.vo 11 maggio
1999 n.152 che ha definito “scarico”: “qualsiasi immissione diretta tramite
condotta di acque reflue liquide, semiliquide e comunque convogliabili nelle
acque superficiali, sul suolo, nel sottosuolo e in rete fognaria,
indipendentemente dalla loro natura inquinante, anche sottoposte a preventivo
trattamento di depurazione”.
Gli imputati non avevano quindi alcun onere di provare che i
reflui non contenevano le sostanze indicate nella tabella 1.1 della Deliberazione
27\7\1984 del Comitato Interministeriale in concentrazioni superiori ai valori
di concentrazione limite, né le altre sostanze di cui all’allegato al D.P.R.
915\82 proprio perché tali reflui non erano assoggettabili alla disciplina
relativa ai rifiuti, ma a quella concernente gli scarichi idrici.
Si deve a questo punto ricordare che l’Avvocato dello Stato,
con una memoria depositata all’udienza del 26\11\2004, dopo aver riproposto le
tesi e gli argomenti discussi in primo grado e dei quali si è sopra detto, ha
voluto ricordare che i reflui derivanti dagli impianti CV sono da vari anni, e
cioè dal 1997, facilmente individuabili nel Catalogo Europeo dei Rifiuti in cui
essi sono identificati in relazione alla loro provenienza e alle loro caratteristiche
con uno specifico codice (CER), senza dimenticare che in precedenza (fin dal
1994) gli stessi reflui erano identificati e qualificati come rifiuti liquidi
nel Codice Italiano Rifiuti definito dalla Legge n.70\94.
La classificazione dei reflui in questione come rifiuti
confermerebbe quindi per l’Avvocato dello Stato che gli stessi dovevano essere
smaltiti secondo le norme concernenti i rifiuti e non già in base a quelle
regolanti gli scarichi idrici.
Ad avviso di questo Collegio anche questa argomentazione
dell’accusa non risulta fondata. Risulta infatti evidente che i codici
richiamati dall’appellante hanno il compito di definire la tipologia delle
varie sostanze che in precedenza siano già state classificate come rifiuti e
non già per determinare il confine fra l’applicazione della disciplina dei
rifiuti e quella delle acque.
Lo stesso Magistrato alle Acque, autorità preposta
istituzionalmente alla vigilanza sugli scarichi e sulla tutela della laguna,
con interpretazione corretta e puntuale della normativa vigente in materia, non
ha mai posto agli imputati il problema della eventuale applicazione della
disciplina dei rifiuti agli scarichi del Petrolchimico, avendo sempre
rilasciato autorizzazioni allo scarico ai sensi della disciplina sulle acque di
cui prima alla Legge “Merli” n.319\76 e poi al D.Leg.vo 152\99.
Giunti a queste conclusioni appare logico non occuparsi in
questa sede della complessa discussione sorta tra le parti processuali nel
corso del giudizio di primo grado e riproposta nei motivi d’appello circa gli
accertamenti fatti sui reflui in questione dal dr. Cocheo, consulente
dell’accusa privata rappresentata dall’Avvocato dello Stato.
Il dr. Cocheo, nel corso del giudizio di primo grado, aveva
infatti riferito di aver accertato, utilizzando i rilievi effettuati da un
gascromatografo che controllava la concentrazione di CVM sulla vasca di
neutralizzazione posta immediatamente prima dell’impianto di depurazione SG 31,
la presenza in tale vasca di CVM in concentrazioni superiori al limite fissato
dalla Delibera 27\7\1984 del Comitato Interministeriale perché il rifiuto debba
essere considerato tossico\nocivo in almeno dieci occasioni.
Sulle affermazioni del consulente Cocheo si è svolta una
accanita battaglia processuale in quanto i consulenti delle Difese hanno
contestato i risultati degli accertamenti sostenendo che il dr. Cocheo aveva
effettuato i suoi calcoli applicando una legge della termodinamica sbagliata
(la legge di Raoult anziché la legge di Henry) e di conseguenza aveva calcolato
erroneamente le concentrazioni di CVM nelle acque di scarico giungendo a
risultati enormemente superiori a quelli che si sarebbero ottenuti applicando
la legge della termodinamica corretta.
Come si è detto, le parti si sono ripetutamente scontrate
sui risultati dei rispettivi consulenti circa la presenza o meno nelle acque di
scarico del Cloruro di Vinile Monomero e circa il superamento o meno delle
concentrazioni limite.
Ad avviso di questo Collegio la soluzione di tale
problematica appare assolutamente inutile ai fini della decisione.
Una volta appurato che i reflui dei reparti CV erano e sono
soggetti al regime degli scarichi idrici e non a quello dei rifiuti, risulta
inutile sapere se gli stessi contenevano CVM e in che quantità, tenuto conto
del fatto che comunque la presenza di CVM non avrebbe imposto una modifica del
regime normativo applicabile agli scarichi che avrebbero continuato ad essere
regolati dalle disposizioni della Legge 319\76 e del D.P.R. 962\73.
In conclusione l’eventuale presenza di CVM nei reflui dei
reparti CV non risulta aver alcuna rilevanza circa la sussistenza di violazioni
penalmente rilevanti del D.P.R. 915\82, non applicabile agli scarichi idrici,
ma risulta irrilevante anche come addebito di colpa in relazione ai contestati
delitti di disastro innominato, avvelenamento e adulterazione.
Occorre premettere sul punto che non risulta acquisito agli
atti alcun bollettino di analisi attestante la presenza di CVM nelle acque di
scarico, ma, anche se si volesse ritenere provato tale fatto, resta comunque il
dato incontroverso che il CVM non ha contaminato né le acque della laguna, né i
sedimenti dei canali, né il biota.
L’accusa pubblica e le accuse private non hanno mai
prospettato un inquinamento della laguna, dei sedimenti e del biota ad opera
del CVM e ciò per motivi scientifici precisi riferiti in dibattimento dallo
stesso dr. Cocheo, consulente dell’accusa, nel corso dell’udienza del
15\5\2001.
Il CVM è un gas che immesso in acqua evapora dopo un breve
tempo; conseguentemente non può oggettivamente accumularsi né in acqua, né nei
sedimenti, né nei pesci.
La tesi accusatoria circa la presenza di CVM negli scarichi
idrici del Petrolchimico risulta quindi irrilevante rispetto alla contestazione
di disastro o di avvelenamento e adulterazione in quanto l’asserito omesso
trattamento e smaltimento dei reflui che si pretendono contaminati da CVM nelle
forme previste dal D.P.R. 915\82 non risulta comunque correlabile ad alcun
evento rispetto al quale abbia un senso porre il problema della colpa per
violazione di regole a contenuto cautelare.
A questo punto bisogna però ricordare che il Procuratore
Generale, con memorie depositate il 6\7\2004, ha sostenuto che la scelta
operata dagli imputati di smaltire come scarichi idrici, anziché come rifiuti tossico\nocivi,
i reflui provenienti dagli impianti di CV aveva comunque provocato un
incremento della contaminazione dell’ambiente lagunare da rame e da diossine
tenuto conto del fatto che nel ciclo produttivo del CVM ottenuto presso il
reparto CV 22 dal cracking del 1,2-Dicloroetano si ha la formazione, a seguito
di reazioni parassite, di PCDD (Poli Cloro Dibenzo Diossina) e di PCDF (Poli
Cloro Dibenzo Furani) e che il cloruro di rame, supportato su matrice di
allumina, costituisce il catalizzatore utilizzato presso il reparto CV 23 nel
processo produttivo del 1,2-Dicloroetano.
Sulla base della relazione tecnica depositata il 30\3\2001
dai consulenti Roberto Carrara e Luigi Mara, nonché di uno studio effettuato da
P. Isosaari a proposito di un impianto di produzione di CVM situato in Finlandia, si era calcolato
l’incremento dell’inquinamento da Rame e da PCDD\PCDF dei diversi comparti
ambientali derivante dalla produzione di CVM presso il Petrolchimico di
Marghera.
In conclusione era stato possibile stimare che per ogni
100.000 tonnellate di CVM prodotte a Marghera si erano formate una quantità di
PCDD\F corrispondente a un valore I-TEQ di 69,48 grammi nel periodo compreso
fra il 1980 e il giugno 2003.
Le stime delle quantità di diossine e di rame prodotte e
scaricate dal Petrolchimico nel corso degli anni, così come sono state
prospettate ed esposte dal P.G., hanno subito aspre critiche da parte dei
difensori degli imputati.
In primo luogo si è evidenziato da parte della Difesa che le
stime dei Consulenti del P.M. erano state ottenute trasponendo in modo
assolutamente acritico alla realtà di Porto Marghera i dati pubblicati nello
studio di Isosaari a proposito di un impianto finlandese.
Sul punto le parti hanno molto discusso anche in sede di
esame delle istanze di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale ed è stato
possibile accertare che l’impianto di Porto Marghera e quello Finlandese
potevano essere difficilmente comparati essendo molto diverse le modalità di
gestione dei residui della produzione e del trattamento delle acque reflue che
in Finlandia venivano lasciate sedimentare in due laghetti situati presso
l’impianto, mentre a Marghera venivano sottoposte a trattamento di strippaggio
dei clorurati a piè di impianto e poi a trattamento chimico – fisico –
biologico ed i fanghi di risulta venivano inviati a incenerimento e non
abbandonati sul terreno come in Finlandia.
A parte tali considerazioni che rendono poco accettabile il
confronto fra i due impianti di produzione del CVM, bisogna anche ricordare che
la Difesa ha contestato i risultati dell’indagine prospettati dal P.G. anche
perché in palese contrasto con quanto riportato in letteratura.
L’avv. Mucciarelli, nella memoria depositata in data
1\12\2004, evidenzia che: “Dall’inventario delle emissioni annuali di PCDD\F
degli impianti di produzione di DCE e CVM per gli anni 1995-1998 si ricava per
l’intera produzione USA, Giappone e Belgio e per i vari comparti ambientali
(atmosfera, acqua, suolo) un valore di 35,05 grammi di I-TEQ anno a fronte di
un valore stimato dai consulenti dell’accusa di 69,48 grammi I-TEQ per 100.000
t di CVM prodotto….Nella pubblicazione di Caroll ed altri (“Organohalogen
Compounds 1999”) prodotta dal P.M. nel processo di primo grado si legge
testualmente che “supponendo che tutti i siti PVC degli USA emettano PCDD\F
alla concentrazione media riportata per i sei siti inclusi in questo studio, le
emissioni totali di PCDD\F sarebbero all’incirca di 0,011 grammi o 0,15 grammi
per anno. Analogamente le emissioni totali annue dalle acque di scarico
trattate dagli impianti di produzione DCE, CVM e DCE\CVM\PVC statunitensi sono
stimate a 0,032 o 0,17 grammi.”
I quantitativi di PCDD\F stimati dall’accusa come prodotti
dagli impianti del CV 11 CV22 e CV 23 del Petrolchimico sarebbero di gran lunga
superiori a quanto riportato in letteratura per impianti simili e risultano
incompatibili con le emissioni di PCDD\F a livello internazionale riportate
nella letteratura scientifica”.(pagg.21 e 22).
A fronte di questo evidente e macroscopico contrasto fra i
dati forniti dall’accusa e quelli forniti dalla difesa circa i quantitativi di
PCDD\F stimati come prodotti dagli impianti CV del Petrolchimico bisogna anche
rilevare che si parla sempre di quantitativi di diossine prodotte e non già di
quantitativi effettivamente scaricati in laguna.
Il P.G. nella memoria tecnica depositata il 13\5\2004 e
nella memoria depositata il 6\7\2004 mette in rilievo la circostanza che i
reflui dei reparti CV confluivano nell’impianto di trattamento centralizzato
chimico – fisico – biologico SG 31 pacificamente inidoneo ad effettuare una
qualche biodegradazione – depurazione dei composti organici clorurati
ecopersistenti come le PCDD\F.
Da ciò si dovrebbe dedurre che tutta la diossina prodotta
finisca nelle acque della laguna, ma ciò non è risultato vero.
Infatti se è vero che il trattamento biologico non è in
grado di abbattere direttamente le diossine è altresì vero che lo stesso
trattamento biologico favorisce l’assorbimento delle diossine nei fanghi che ne
trattengono la quasi totalità; i fanghi impregnati di diossine vengono poi
inviati all’inceneritore per la distruzione.
Ciò spiega perché lo stesso Ministero dell’Ambiente con il
Decreto del 26\5\1999 individuando e prescrivendo le migliori tecnologie
disponibili da applicare agli impianti industriali di Porto Marghera ha
inserito fra le migliori tecnologie per l’abbattimento delle diossine (PCDD
equivalenti) proprio il trattamento biologico.
Tornando ora al problema della individuazione dei
quantitativi di diossine effettivamente sversate in laguna si deve prendere
atto che l’accusa non ha fornito elementi concreti e precisi, vi sono però dei
dati ufficiali forniti da pubbliche autorità e che, dal punto di vista
processuale, assumono una rilevanza determinante.
Vi è in primo luogo il Decreto 26\5\1999 del Ministero
dell’Ambiente che, con particolare riferimento all’area di Porto Marghera,
indica l’apporto totale di diossine in laguna attraverso gli scarichi del
Petrolchimico nell’ordine di una decina di mg\anno e l’apporto complessivo di
tutte le fonti di contaminazione per l’intera area di Porto Marghera
nell’ordine delle decine di milligrammi l’anno.
Né possiamo dimenticare la “Relazione sulle caratteristiche
degli scarichi idrici dell’area di Porto Marghera – Dati relativi al 1999” del
Magistrato alle Acque che dopo aver segnalato che “i microinquinanti organici
(diossine, IPA, PCB) sono stati ricercati solo nei principali scarichi del
Petrolchimico (SM 15, SM 22, SM 2), negli scarichi della raffineria Agip Petroli
e nello scarico dell’impianto di depurazione ASPIV” conclude affermando che
“alla luce di valutazioni derivanti da campagne svolte negli anni precedenti la
stima del carico inquinante totale per l’intera area di Porto Marghera potrebbe
essere per le diossine delle decine di milligrammi, espressi come fattore di
tossicità equivalente (I-TE)”.
Si tratta di valori enormemente inferiori rispetto alle
stime dei consulenti dell’accusa e non rilevanti penalmente ai fini delle
contestazioni dei reati di disastro innominato, di avvelenamento e di
adulterazione.
Il P.G. ha anche fatto riferimento ad un incremento della
contaminazione da rame, ma si tratta di un argomento che non sembra avere alcun
rilievo processuale in quanto non è mai stato contestato agli imputati di aver
effettuato scarichi contenenti rame in quantità superiore ai limiti di
concentrazione posti dalla legge né di aver provocato l’avvelenamento o
l’adulterazione delle acque, dei sedimenti e del biota con un eccesso di rame.
Nel merito basterà ricordare che lo stesso Ministero
dell’Ambiente nel Decreto del 26\5\1999, già più volte citato, precisa che: “Il
rame è un elemento comune nell’acqua potabile e deriva in parte dall’erosione
delle rocce e in parte da fonti artificiali (industria ma soprattutto
dall’erosione dei componenti di trasporto dell’acqua e dai sali di rame usati
per il controllo delle alghe). L’indagine dell’USEPA assegna una concentrazione
media nell’acqua che viene distribuita alle utenze pari a 45 microgrammi per
litro. Il rame è un elemento chiave nella dieta con un’ingestione suggerita di
almeno 2 milligrammi al giorno. Il rame in eccesso viene normalmente espulso
ma, ad alte dosi, può determinare irritazione del tratto gastrointestinale. Il
rame non è ritenuto cancerogeno”.
Con ciò si può quindi escludere che eventuali apporti di
rame da parte del Petrolchimico alle acque della laguna abbiano una qualche
rilevanza al fine di decidere il presente procedimento.
A conclusione di questo capitolo si deve quindi confermare
la sentenza del Tribunale anche nella parte in cui ha ritenuto applicabile ai
reflui provenienti dai reparti CV del Petrolchimico la normativa concernente
gli scarichi idrici anziché quella relativa ai rifiuti.
CAPITOLO 3.4
APPELLO P.M.
OBBLIGO DI ATTIVARSI PER I SITI INQUINATI DA TERZI
ANTECESSORI
A proposito dell’argomento trattato in questo capitolo dei
motivi d’appello del P.M. bisogna ricordare che nel capo d’imputazione viene,
fra l’altro, contestato agli imputati indicati alla lett. B) (Porta, Morrione,
Reichenbach, Marzollo, Fabbri, Smai, Pisani, Zerbo, Trapasso, Grandi, Presotto,
Palmieri, Burrai, Parillo, Patron e Necci) una responsabilità penale, a titolo
di concorso nei contestati reati di disastro e avvelenamento, in relazione al
fatto che, una volta subentrati nelle rispettive cariche all’interno della
società, avevano omesso di effettuare interventi di bonifica o di messa in
sicurezza di quelle discariche realizzate e gestite in passato dai propri
predecessori ed ormai chiuse.
La contestazione, basata su una ipotesi di responsabilità
per omesso impedimento dell’evento ex art. 40 cpv. c.p., si fonda sulla
asserita sussistenza di un obbligo giuridico di attivarsi in relazione a siti
contaminati da terzi antecessori.
Il Tribunale ha ritenuto infondato l’assunto accusatorio
affermando il principio che il mero mantenere nell’area rifiuti scaricati o
fatti scaricare da altri, quando ormai la discarica sia stata chiusa non
rientra nel concetto di gestione di discarica penalmente rilevante.
Il primo Giudice è giunto a tale conclusione facendo proprie
le argomentazioni sul punto della sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni
Unite del 5\10\1994.
La Suprema Corte, chiamata a dirimere un contrasto
giurisprudenziale sulla questione se i reati di gestione e realizzazione
abusiva di discarica, nel sistema del D.P.R. 915\82, fossero reati istantanei o
permanenti e, in quest’ultima ipotesi, quale fosse la portata della permanenza,
aveva con estrema chiarezza statuito che: “ La gestione di discarica senza
autorizzazione presuppone l’apprestamento di un’area per raccogliere i rifiuti
e consiste nell’attivazione di una organizzazione, articolata o rudimentale non
importa, di persone, cose e\o macchine diretta al funzionamento della
discarica. Il reato è permanente per tutto il tempo in cui l’organizzazione è
presente e attiva.
Il fatto però che il reato di discarica sia permanente non
significa che esso comprenda anche il mero mantenere nell’area i rifiuti
scaricativi o fattivi scaricare da altri, quando ormai la discarica sia stata
chiusa o soltanto disattivata. Con la conseguenza che è estraneo al reato chi
sia subentrato e si trovi l’area con i rifiuti ammassativi da quegli che in
precedenza vi aveva gestito la discarica…All’attuale detentore non è fatto
alcun obbligo di controagire e cioè di intervenire per la rimozione dei rifiuti
dal terreno entrato nella sua disponibilità”.
Si ricorda che la sopra citata sentenza delle Sezioni Unite
si inseriva nel solco di una preesistente giurisprudenza di legittimità (Cfr.
Cass.14\2\1992; Cass.29\1\1993 e Cass. 5\11\1993).
Gli appellanti P.M. e Avvocato dello Stato contestano le
conclusioni alle quali è pervenuto il Tribunale seguendo fedelmente i principi
fissati dalla Cassazioni a Sezioni Unite.
In primo luogo, da un punto di vista testuale, si sostiene
che nei concetti di “gestione di discarica” e di “smaltimento di rifiuti
tossici” non possono includersi il solo conferimento e accumulo dei rifiuti
senza ricomprendervi il mantenimento degli stessi.
Secondo gli appellanti sarebbe sufficiente scorrere il
dettato degli artt.10 e 16 del D.P.R. 915\82 per rendersi conto che nel
concetto di “gestione della discarica” e di “smaltimento dei rifiuti tossici”
sono state sempre ricompresse non solo le fasi del conferimento e deposito dei rifiuti,
ma anche quelle successive all’esaurimento dell’impianto, necessarie per il
controllo e la messa in sicurezza del medesimo.
In particolare l’art.16 del D.P.R. 915\82 precisa che
l’autorizzazione allo stoccaggio definitivo in discarica dei rifiuti tossico\nocivi
deve contenere “le modalità e le cautele da osservare per l’esercizio della
discarica controllata anche dopo la sua chiusura”.
Dal dettato della norma si desume che anche dopo la
cessazione del conferimento dei rifiuti vi è comunque un esercizio, una
gestione della discarica e che anche tale fase della gestione risulta talmente
delicata e fondamentale da imporre puntuali prescrizioni autorizzatorie da
parte dell’autorità di controllo; alcune di tali cautele gestionali relative
alla fase “post-operativa” o “passiva” del sito sono addirittura specificamente
indicate negli artt.16 e 10 del D.P.R. 915\82 come ad esempio la ricopertura
della discarica e il riutilizzo dell’area nei modi e nei tempi stabiliti nella
stessa autorizzazione.
Si deve inoltre ricordare la Delibera Interministeriale
27\7\1984 (contenente disposizioni per la prima applicazione del D.P.R. 915\82)
che al punto n.4.2 con riferimento allo stoccaggio definitivo in discariche
stabiliva testualmente che: “ i sistemi di drenaggio e captazione del
percolato, nonché l’eventuale impianto di trattamento del medesimo dovranno
essere mantenuti in esercizio anche dopo la chiusura della discarica stessa, e
a carico del gestore di quest’ultima, per il periodo di tempo che sarà
stabilito dall’autorità competente”, ponendo così a carico del gestore della
discarica un evidente obbligo positivo di attivarsi per impedire lo sversamento
di percolato in discariche già esaurite.
Anche la successiva normativa sui rifiuti introdotta dal
D.Lgs.vo 5\2\1997 n.22 aveva confermato le prescrizioni sopra indicate nel
punto in cui, fornendo la definizione di “gestione dei rifiuti” (art.6 lett.d),
vi includeva espressamente “il controllo delle discariche e degli impianti di
smaltimento dopo la chiusura”.
Per gli appellanti la corretta interpretazione ed
applicazione della normativa evidenziava che la condotta omissiva integrante i
reati di cui agli artt.25 e 26 D.P.R. 915\82 non era tanto il semplice
mantenimento o la mancata rimozione dei rifiuti accumulati su una determinata
area, quanto la mancata attuazione di tutte quelle cautele gestionali, imposte
dalla normativa tecnica, necessarie per prevenire l’inquinamento provocato
dagli stessi rifiuti.
Secondo il P.M. tale “interpretazione della normativa
statale si impone anche alla luce della disciplina comunitaria recepita nel
nostro Paese con il D.P.R. 915\82, dapprima, e con il D.Lgs. n.22\1997,
successivamente”. In particolare l’art.4 della Direttiva 75\442\CE stabilisce
che gli Stati membri devono adottare “le misure necessarie per assicurare che i
rifiuti siano recuperati o smaltiti senza pericolo per la salute dell’uomo e
senza usare procedimenti o metodi che potrebbero recare pregiudizio
all’ambiente e in particolare senza creare rischi per l’acqua, l’aria, il
suolo..
Sulla base di tale disposizione la Corte di Giustizia C.E.,
con decisione del 9\11\99, aveva desunto l’obbligo, in capo al detentore di
un’area utilizzata in passato come discarica abusiva, di adottare le misure
necessarie per impedire la protrazione del persistente degrado ambientale.
Rileva questo Collegio che in realtà gli artt. 10 e 16 del
D.P.R. 915\82 e le disposizioni della Delibera Interministeriale 27\7\1984
stabiliscono il contenuto tassativo delle autorizzazioni prevedendo una serie
di “prescrizioni” che devono essere indicate nelle autorizzazioni stesse, ma
non fissano direttamente degli “obblighi” in capo al titolare della discarica,
ma dei meri oneri di gestione il cui mancato rispetto viene sanzionato dall’art
27 D.P.R. 915\82.
Le disposizioni di cui al D.Lgs. 22\97 non sembrano
confermare la tesi degli appellanti. Infatti l’art.17 del citato Decreto
introduce in Italia per la prima volta “gli obblighi di bonifica e ripristino
ambientale” che vengono però posti a carico di “chiunque cagiona, anche in
maniera accidentale, il superamento dei limiti” di contaminazione del sito
“ovvero determina un pericolo concreto ed attuale di superamento dei limiti
medesimi….”
Quindi neppure il D.Lgs. 22\97 prevede obblighi di bonifica
a carico del proprietario in quanto tale, al di fuori dell’ipotesi di concorso
nel fatto dell’inquinamento. In questo senso si è subito orientata la
giurisprudenza della Suprema Corte che ha puntualizzato che anche ai sensi del
decreto Ronchi non integra il reato di “realizzazione” o di “esercizio” di
discarica abusiva la condotta di chi, avendo la materiale disponibilità di
un’area sulla quale altri abbiano abbandonato in epoca pregressa rifiuti, si
limiti a non attivarsi perché vengano rimossi (Cfr. Cass. III, 2\7\1997); e
successivamente stabilendo con riferimento all’art.51 bis D.Lgs. 22\97 – che
punisce chi cagiona l’inquinamento o un pericolo concreto ed attuale di
inquinamento, previsto dall’art.17 – che tale norma non è applicabile a chi
rivesta la qualità di proprietario senza aver posto in essere alcuna condotta
incidente sul pericolo di inquinamento del sito, a questi può applicarsi
esclusivamente la responsabilità solidale in sede amministrativa e civile per
l’onere reale derivante dai commi 10 e 11 dell’art.17 (Cfr. Cass. III,
28\4\2000).
Non sembra possibile, poi, desumere un obbligo giuridico di
attivarsi in capo al detentore di un’area utilizzata in passato come discarica
abusiva dai principi fissati dall’art.4 della Direttiva 75\442\CE, così come è
stato prospettato dagli appellanti.
Si tratta, in vero,
di una normativa comunitaria che ha per destinatari esclusivamente gli Stati
membri e dalla quale non può farsi discendere direttamente la sussistenza nel
nostro ordinamento di un obbligo giuridico di attivarsi per l’attuale titolare
di un’area inquinata dai suoi predecessori; inoltre la norma citata dagli
appellanti prescrive genericamente l’adozione di misure necessarie senza
determinarne il contenuto concreto proprio in considerazione del fatto che si
tratta di una disposizione di natura meramente programmatica.
Il richiamo fatto dal P.M. alla sentenza della Corte di
Giustizia della Comunità Europea del 9\11\99 non appare idoneo a fornire
elementi per risolvere la questione della responsabilità omissiva del
proprietario subentrante dopo la cessazione dell’attività di discarica.
Infatti è vero che nella sentenza citata la Corte europea
aveva statuito che la Repubblica italiana non aveva correttamente e
integralmente attuato l’art.4 ed altri principi della Direttiva 75\442\CE in
relazione ad un’area ove vi era uno scarico di materiali biologici e chimici
provenienti da strutture ospedaliere, omettendo di adottare “le misure
necessarie per obbligare il gestore della discarica abusiva a consegnare i
rifiuti ad un raccoglitore privato o pubblico o ad un’impresa di smaltimento”,
ma è facile rilevare che nella sentenza si parla, con riguardo alla stessa
persona, di “gestore” della discarica e di “detentore” dei rifiuti e da ciò si
ricava che le due qualità erano compresenti nello stesso soggetto. Situazione,
quindi, completamente diversa da quella di cui dobbiamo occuparci.
Tutte le norme citate dagli appellanti sono dirette a
regolare un ambito ben definito e cioè il tipo e l’estensione degli oneri
inerenti la gestione di una discarica autorizzata dopo che la stessa venga a
cessare l’attività in quanto è evidente che chi smette l’esercizio di una
discarica non può disinteressarsi degli eventuali effetti nocivi provocati dai
rifiuti che vi sono contenuti.
Non appare invece legittimo vincolare a questi stessi oneri
chi, come nel caso in esame, sia subentrato nella proprietà di terreni occupati
da una discarica non sottoposta a controllo e senza averla mai gestita, dopo
che l’attività della stessa è ormai cessata.
Utilizzare le norme indicate per ricavarne obblighi
penalmente rilevanti con riferimento ad una situazione diversa (anche se
simile) da quella che vi è espressamente disciplinata e nei confronti di
soggetti (proprietari subentranti) diversi dalle persone (gestori della
discarica) cui quelle norme si rivolgono finirebbe per estendere gli estremi
del fatto tipico descritto dalla norma incriminatrice in aperta violazione del
principio di tassatività del precetto sancita dall’art.25 della Costituzione e
dall’art.1 c.p.
La questione è stata affrontata espressamente nella citata
sentenza 5\10\94 della Cassazione a Sezioni Unite che, proprio al fine di
definire e delimitare il contenuto del concetto di “gestione” di discarica,
ricorda che l’avverbio “espressamente” contenuto nell’art.1 c.p. : “lungi
dall’essere pleonastico, impone all’interprete di attenersi alla dizione della
norma, che si suppone chiara, senza indulgere a interpretazioni analogiche, e,
ove chiara non sia, gli impedisce comunque di adottare interpretazioni che si
discostino dal dettato della norma stessa. E ciò al fine di evitare che il
cittadino si trovi esposto a responsabilità di maggior ampiezza rispetto alla
responsabilità cui era espressamente chiamato”.
Il P.M. e l’Avvocato dello Stato hanno poi sostenuto che la
sentenza 5\10\94 delle Sezioni Unite non avrebbe avuto l’avvallo della
giurisprudenza successiva che, al contrario, avrebbe confermato le tesi degli
appellanti e, sul punto, sono state citate varie decisioni di merito e di
legittimità.
Anche tale assunto non è risultato fondato.
E’ stata ricordata la sentenza 31\1\95 del Pretore di Terni
nella quale il giudice, pur dichiarando di aderire ai principi di diritto
fissati dalla sentenza 5\10\94 delle Sezioni Unite, ha anche affermato la
necessità di accertare con particolare rigore, sotto il profilo soggettivo, il
comportamento del nuovo proprietario di un’area che trova in loco i rifiuti
smaltiti abusivamente, precisando che devono considerarsi quali comportamenti
attivi di gestione di una discarica ormai esaurita anche comportamenti
apparentemente passivi, ma di fatto commissivi, come ad esempio la semplice
custodia dell’area già adibita a discarica.
In realtà il Pretore si era limitato a rilevare che da un
comportamento di mero subentro passivo nella titolarità del sito (ritenuto non
sufficiente ad integrare una condotta di gestione abusiva di discarica), si
doveva tenere distinta una condotta soltanto apparentemente passiva, ma che in
realtà nascondeva una “sotterranea attività gestionale di fatto della
discarica; magari anche come semplice custodia per il futuro, dopo la iniziale
realizzazione e gestione attiva in senso stretto”.
La sentenza citata conferma quindi il principio che il reato
in esame può integrarsi solo con una condotta commissiva anche se dissimulata
dietro ad un comportamento solo apparentemente passivo. Il P.M. cita poi, a
sostegno della sua tesi, la sentenza 4\11\94 della Cassazione, Sez.III, per la
quale: “ il concetto di gestione di discarica abusiva ex art.25 D.P.R. 915\82
deve essere inteso in senso ampio, comprensivo di qualsiasi contributo, sia
attivo che passivo, diretto a realizzare od anche semplicemente a tollerare e
mantenere il grave stato del fatto reato, strutturalmente permanente”.
Appare difficile considerare la sentenza sopra citata come
una aperta presa di posizione contraria ai principi fissati dalle Sezioni Unite
in quanto si tratta di sentenza pronunciata prima del deposito di quella delle
Sezioni Unite avvenuto il 28\12\94. Comunque la sentenza della Sezione III
aveva per oggetto condotte diverse da quelle contestate agli odierni imputati e
cioè l’aver “consentito e tollerato” la gestione di rifiuti in discarica; si
trattava cioè di condotte concomitanti alla gestione della discarica e non
successive ad essa.
E’ infatti evidente
che per tutta la durata della gestione attiva della discarica possono assumere
rilievo, a titolo di concorso, anche condotte di natura omissiva che si
concretizzino, ex art.40 cpv. c.p. nella violazione di precisi obblighi di intervento
previsti dalla norma. Ma si tratta di situazione diversa rispetto a quella di
chi, subentrato nella titolarità di un sito contaminato in precedenza da altri
con attività ormai cessata, ometta di attivarsi per rimuovere i rifiuti o per
bonificare l’area.
Argomentazioni analoghe valgono in relazione al contenuto
della sentenza 17\12\96 della Cassazione citata dal P.M. a pagina 1141 dei suoi
motivi in quanto relativa al comportamento omissivo del titolare di un sito che
in tal modo agevolava la gestione “in corso” di una discarica.
Più interessante appare invece il richiamo alla sentenza
11\4\97 della Sez.III della Cassazione ove si esprime un giudizio critico sulla
pronuncia della Cassazione a Sezioni Unite del 5\10\94 in quanto avrebbe reso
“ondivago” il termine di cessazione della permanenza del reato ancorandolo alla
emissione o meno da parte del Sindaco di un provvedimento di rimozione dei
rifiuti senza includere nella nozione di gestione della discarica il
mantenimento della stessa senza alcun conferimento ovvero l’obbligo di
rimessione in pristino. La sentenza però risulta pronunciata nell’ambito di un
procedimento penale in cui l’imputato era il gestore attivo di una discarica ed
il rilievo mosso alla decisione delle Sezioni Unite appare come una obiezione
ad una soluzione formulata in forma ipotetica dalle stesse Sezioni Unite circa
un possibile rimedio ad eventuali vuoti di tutela e cioè la via di un eventuale
provvedimento di rimozione dei rifiuti nei confronti di chi succeda nella
disponibilità del sito contaminato da altri antecessori.
Per completare l’esame della giurisprudenza ritenuta dagli
appellanti in contrasto con i principi fissati dalla sentenza 5\10\94 delle
Sezioni Unite si deve ora ricordare che l’Avvocato dello Stato, nella memoria
depositata in data 2\12\2004, ha ricordato la sentenza 14\5\2004 della
Cassazione Sez.III che ha statuito : “In tema di smaltimento dei rifiuti,
integra il reato omissivo punito dall’art.50, comma 2° del D.Lgs. 22\97, la
mancata osservanza dell’ordinanza sindacale emanata ai sensi dell’art.14, comma
3° del citato decreto, con la quale si intima al proprietario (o possessore)
dell’immobile, ove risulta giacente un deposito incontrollato di rifiuti, la
rimozione degli stessi, senza che possa avere rilevanza il fatto che l’accumulo
dei rifiuti non sia ascrivibile al comportamento del destinatario
dell’intimazione o risalga a tempi antecedenti l’acquisto dell’immobile
stesso”.
Anche in questo caso si tratta di una situazione diversa da
quella che ora interessa in quanto l’obbligo giuridico di bonificare l’area
gravante in capo al proprietario incolpevole del sito trova una fonte precisa e
legittima nell’ordinanza sindacale e non nella semplice detenzione dei rifiuti.
In conclusione si può affermare che la giurisprudenza
successiva alla decisione delle Sezioni Unite non si è mai discostata in modo
sostanziale dai principi di diritto fissati in tale decisione ed è anzi
possibile ricordare anche varie sentenze perfettamente conformi agli stessi
principi (Cfr Cass.2\7\97 n.8944; App. Catanzaro 3\6\98, Caputo).
A conclusione di quanto detto fin ora si può quindi
affermare l’insussistenza di un obbligo di controagire, sulla base della
normativa vigente, in capo a chi sia subentrato nella titolarità di un sito
contaminato dai suo predecessori e ciò comporta che non lo si può ritenere
responsabile né di violazioni contravvenzionali, né di disastro innominato, né
di avvelenamento o adulterazione.
La posizione di garanzia è un elemento costitutivo della
fattispecie penale e deve trovare fondamento in specifiche norme di legge che
regolino tassativamente il caso previsto.
L’obbligo giuridico rilevante ai sensi dell’art.40, comma 2°
c.p. non può essere desunto dallo spirito di altre norme.
Giustamente il P.M. ha rilevato come possa apparire
paradossale la circostanza che non siano punibili persone consapevoli (come nel
caso in esame) di una situazione di fatto antigiuridica per la presenza di
numerose discariche abusive di rifiuti tossici e del conseguente rischio di
contaminazione del suolo, del sottosuolo e delle falde idriche e che non
abbiano posto in essere alcuna attività per porre termine o per limitare le
conseguenze negative di tale situazione.
In effetti la mancata previsione di obblighi di bonifica e
di messa in sicurezza di siti contaminati in capo a chi ne acquisisce la
proprietà rappresenta una grave lacuna legislativa che però non può essere
colmata avvalendosi di procedimenti analogici.
Un argomento nuovo a sostegno della tesi accusatoria è stato
proposto dal Procuratore Generale nella memoria depositata il 2\12\2004 ove,
parlando della questione della successione di posizione di garanzia e, quindi,
dell’obbligo gravante su chi subentra in essa di porre nel nulla le situazioni
di pericolo create dal predecessore, fa ricorso ad una diversa e nuova figura
di posizione di garanzia cui ha riguardo l’art.40 cpv. c.p. completamente
svincolata da norme, anche non scritte, di diritto privato o di diritto
pubblico, ma in una semplice situazione di fatto, per precedente condotta
illegittima e non soltanto per condotta attribuibile a quello stesso soggetto
garante, ma anche quella attribuibile ad un diverso soggetto che lo abbia
preceduto nella medesima posizione di garanzia; tutto ciò in nome dei “principi
solidaristici che impongono (oggi anche in base alle norme contenute negli
artt. 2, 32 e 41, comma 2° Cost.) una tutela rafforzata e privilegiata di
determinati beni”.
La tesi del P.G. appare estremamente interessante in quanto
effettivamente esiste una giurisprudenza di legittimità citata nella memoria in
esame (Cass. Sez.IV 8\10\2003, Corinaldesi) secondo la quale “la posizione di
garanzia può trarre origine da una situazione di fatto, da un atto di
volontaria determinazione, da una precedente condotta illegittima, che costituisca
il dovere di intervento e il corrispondente potere giuridico, o di fatto, che
consente al soggetto garante, attivandosi, di impedire l’evento”.
Si deve tuttavia rilevare che tale posizione di garanzia
svincolata dal riferimento a precise norme giuridiche trae origine da
precedenti comportamenti dello stesso soggetto tenuto all’azione impeditiva e
non da comportamenti tenuti in precedenza da altri senza nessun concorso del
soggetto asseritamene tenuto; si tratta della categoria dell’”azione propria
precedente” come risulta dalla lettura della sentenza citata concernente la
responsabilità del conducente di uno scuola-bus che, dopo aver accompagnato a
destinazione una bambina dodicenne, non aveva impedito che questa attraversasse
imprudentemente la strada, finendo investita da una vettura.
Ad avviso di questo Collegio non è possibile passare dalla
posizione di garanzia per azione propria precedente ad una posizione di
garanzia che coinvolga la responsabilità degli imputati per comportamenti
tenuti in precedenza da altri senza nessun concorso degli imputati stessi
facendo un semplice riferimento ai principi solidaristici di rilievo
costituzionale.
I principi solidaristici possono avere rilievo giuridico
solo quando si concretizzano in norme giuridiche che impongano specifici
obblighi di attivarsi, altrimenti si corre il rischio che l’ambito delle
posizioni di garanzia potrebbe essere liberamente individuato sulla base di
letture soggettive delle norme costituzionali e non sarebbe possibile
individuare in modo certo gli obblighi impeditivi specifici gravanti sui
destinatari delle norme penali chiamati a sventare i pericoli creati da altri.
A conclusione di questo capitolo devono di conseguenza
essere rigettate le doglianze degli appellanti tendenti ad ottenere il
riconoscimento della sussistenza delle contravvenzioni al D.P.R. 915\82 e
l’integrazione delle condotte tipiche dei reati di disastro, avvelenamento e
adulterazione in relazione al comportamento di quegli imputati che, subentrati
nelle rispettive cariche all’interno della società, avevano omesso di
effettuare interventi di bonifica o di messa in sicurezza di discariche
realizzate e gestite in passato dai propri predecessori.
CAPITOLO 3.5 APPELLO P.M.
ERRONEA, CONTRADDITORIA ED ILLOGICA ESCLUSIONE DEL REATO DI
AVVELENAMENTO COLPOSO
In questo capitolo il P.M. contesta, con argomenti identici
a quelli proposti dall’Avvocato dello Stato nei suoi motivi d’appello, la
sentenza di primo grado nella parte in cui ha escluso la sussistenza del reato
di avvelenamento colposo.
Gli appellanti partono dalla premessa che il delitto di
avvelenamento rientra pacificamente nella categoria dei reati di pericolo
astratto per i quali la pericolosità è generalmente insita nel fatto tipico.
In altre parole nei reati di pericolo astratto la stessa
norma indica i fatti che il legislatore ritiene – secondo l’id quod plerumque
accidit – abbiano un carattere di generale pericolosità. Tale indicazione può
aver luogo mediante riferimento a termini significativi e pregnanti come
appunto il termine avvelenamento nel reato di cui ora ci occupiamo.
Il P.M. sostiene poi che “nel caso previsto dall’art.439
c.p. non deve essere provato l’effettivo (concreto) verificarsi del pericolo
per la salute pubblica, ma pur sempre si è tenuti a fornire la prova che le acque e sostanze alimentari sono state
avvelenate, cioè che sono state contaminate da sostanze tossiche, anche non
letali, in concentrazioni tali da poter comunque danneggiare l’organismo
umano.” (pag.1148).
Nel caso in esame “il pericolo è stato contestato in ragione
dell’avvelenamento delle acque e delle sostanze alimentari, vale a dire in una
modificazione prodotta mediante immissione di veleni o di sostanze tossiche,
capace di introdurre sostanze dannose in un sistema biologico, alterandone
seriamente le funzioni” (pag.1154).
A questo punto si ricorda che una rilevanza decisiva ed
esclusiva dovrebbe essere riconosciuta alla pericolosità generalmente,
normalmente insita nel fatto tipico di avvelenamento secondo l’id quod plerumque
accidit; ciò, non certamente per negare l’utilità della scienza nella prova del
pericolo, ma solamente perché la prova scientifica non può mai essere
ontologicamente certa.
Nel rispetto di tale premessa gli appellanti sostengono di
aver provato, nel corso del giudizio di primo grado, che i mitili ed i pesci
della laguna erano contaminati e che i contaminanti avevano causato delle
mutazioni.
In base agli accertamenti svolti era stato possibile
appurare la presenza di “addotti” e di “micronuclei” (cioè alterazioni del DNA)
nei mitili e nei pesci della laguna e tale presenza era da considerarsi una
chiara manifestazione di danno genetico provocato dalle sostanze immesse nelle
acque dal Petrolchimico.
Da ciò si dovrebbe ragionevolmente dedurre che un rischio
analogo di modificazione genetica sussista anche per la collettività umana
esposta direttamente o indirettamente alle stesse sostanze tossiche che si è
dimostrato essere state immesse nell’ambiente dallo stabilimento.
Secondo gli appellanti, alla luce di tali accertamenti, il
Tribunale avrebbe dovuto chiedersi che cosa accade non solo nei molluschi e nei
pesci la cui contaminazione ed i cui effetti sul DNA sono stati appurati, ma
anche alla popolazione che di essi si nutre, con particolare attenzione agli
effetti indotti da tale consumo sulla salute umana.
Secondo le leggi della biologia si può parlare di non
impossibilità di danno genetico, di possibili risposte biologiche negative.
Non ci troveremmo di fronte, quindi, ad un “pericolo
congetturale”, ma a una condizione di fatto molto concreta che individua un
fattore di rischio (e quindi di pericolo) per la salute dell’uomo derivante
dalla contaminazione delle acque e degli alimenti (pesci e molluschi);
circostanza ignorata dalla sentenza di primo grado.
Rileva questo Collegio che in realtà il problema ora in
esame era stato affrontato e ampiamente discusso anche nel corso del giudizio
di primo grado con un approfondito confronto fra i consulenti delle parti e con
la citazione di numerosi studi scientifici.
All’esito di tale approfondimento scientifico non è stato
possibile giungere a conclusioni che confermino la tesi accusatoria.
In primo luogo la tecnica usata dalla consulente Venier per
misurare gli “addotti” non permette di identificare le sostanze responsabili
della loro formazione; la circostanza è confermata dalla stessa Venier che
nella sua relazione del 6\4\2001 precisa: “ ..la tecnica di postmarcatura con
32P rileva molecole aromatiche stericamente ingombranti e DNA-reattive andate a
bersaglio sul DNA qualunque esse siano, senza specifici standard analitici…”.
Quindi se è provata la presenza di “addotti” nei mitili della zona di Marghera,
non sappiamo quali sostanze ne abbiano provocato la formazione.
Non è stato inoltre possibile accertare in quale segmento
del DNA si sono formati gli addotti; la circostanza è particolarmente rilevante
in quanto vi sono parti del DNA che non hanno funzioni particolari per cui
viene meno qualsiasi rischio di mutazione genetica. La stessa dott.ssa Venier
all’udienza del 17\10\2000 ha ammesso che: “…quindi la presenza di addotti può
determinare mutazioni…..dipenderà dal tratto di DNA coinvolto”.
A tutto ciò si deve aggiungere che la possibilità che un
addotto possa portare ad una mutazione dipende dalla persistenza dell’addotto
stesso durante un periodo di proliferazione cellulare; in assenza di qualsiasi
informazione sul tipo di addotto rilevato nei mitili e nei pesci, sul tipo di
danno in ipotesi prodotto al DNA e sui meccanismi di riparazione del DNA, non è
stato possibile attribuire un significato qualunque alla presenza di tali
addotti in relazione ad un eventuale ipotetico danno allo stesso DNA.
L’unico dato certo ed incontestato è che gli addotti al DNA
rappresentano misure di esposizione, cioè indicano che è avvenuta una
esposizione ad agenti genotossici, ma non indicano un danno biologico vero e
proprio.
Considerazioni identiche si possono fare anche in relazione
alla presenza di micronuclei nei mitili e nei pesci della laguna. La stessa
dott.ssa Venier ha riferito che i “composti che danno micronuclei sono dei più
vari, questo è quindi aspecifico come indice” (Udienza 17\10\2000); inoltre i
micronuclei sono stati osservati anche in assenza di esposizione, in individui
e animali perfettamente sani, manca quindi la prova che i micronuclei siano
provocati dagli inquinanti della laguna.
In conclusione i dati certi sui quali si basano le doglianze
degli appellanti consistono nella constatata presenza nei mitili e nei pesci
della laguna di addotti e micronuclei in moderato eccesso rispetto ad individui
raccolti in zone diverse ma nei quali erano comunque egualmente presenti sia
gli addotti, sia i micronuclei.
Manca invece la prova che la presenza di addotti e di
micronuclei sia dovuta alle sostanze immesse in laguna dal Petrolchimico.
Mancano elementi scientificamente fondati per affermare che
addotti e micronuclei abbiano effettivamente provocato mutazioni fino al punto
di poter essere valutati come lesioni promutagene.
L’argomentare della pubblica accusa diventa ancora più
problematico e privo di certezze nel momento in cui sostiene la trasferibilità
all’uomo in termini anche solo di rischio delle osservazioni fatte per i pesci
e i mitili.
Come si è più sopra accennato, il P.M., nei suoi motivi,
sostiene che “…se nei mitili il danno genetico causato da esposizione alle
sostanze inquinanti scaricate e\o immesse dallo stabilimento del Petrolchimico
è stato accertato al di là di ogni ragionevole dubbio, allora si dovrebbe con
ragionevolezza affermare che un rischio analogo di modificazione genetica
sussista per la collettività esposta…….In questo caso, sono le leggi della
biologia che provano la non-impossibilità del danno nel caso concreto e
consentono, su tale base, la legittima configurazione di un pericolo scientificamente
supportato.” (pag.1157-1158).
Ma a questo punto si pone il problema di accertare come in
concreto gli addotti e i micronuclei presenti nei mitili e nei pesci possano
trasferirsi agli uomini.
Non certo per via alimentare in quanto le più elementari leggi
della genetica escludono tale possibilità; è infatti notorio che il materiale
genetico è qualcosa di altamente specifico, assolutamente non trasferibile per
via alimentare da un organismo all’altro. La via usuale di scambio genetico è
la riproduzione tra individui della stessa specie. Si deve quindi concordare
con il consulente della Difesa, dr. Dragani, il quale ha precisato che la
presenza di addotti al DNA non comporta alcun pericolo tossicologico perché
“essi rappresentano prodotti che hanno già reagito con il DNA del prodotto
alimentare e quindi non sono in grado di reagire con il DNA umano.”
Si potrebbe sostenere che i contaminanti che possono
provocare una alterazione genetica nei molluschi potrebbero provocare analoghe
alterazioni nell’uomo, ma non è stata acquisita alcuna prova di un qualche
aumento di danno al DNA in persone esposte ai livelli di inquinanti riscontrati
a Porto Marghera in quanto nessun operaio dello stabilimento e nessun abitante
risulta essere stato sottoposto ad analisi di danni al DNA.
Nessun elemento a sostegno dell’ipotesi accusatoria può
ricavarsi dalla pacifica diversità delle reazioni metaboliche degli
invertebrati rispetto a quelle dell’uomo; indubbiamente l’essere umano possiede
vie metaboliche più complesse ed efficienti di quelle dei mitili, ma da ciò non
può dedursi che “le nostre reazioni metaboliche producono più quantità di
intermedi reattivi capaci di formare addotti sul nostro DNA” (Motivi P.M.
pag.1167); è solamente possibile affermare che la trasformazione di una
determinata sostanza avverrà in modo diverso.
In ultima analisi si può giungere alla conclusione che non
esiste una legge scientifica sulla base della quale si possa sostenere in
termini oggettivamente validi e ripetibili che vi è nesso causale fra la
presenza di contaminanti nei pesci e nei mitili e l’insorgere negli stessi di
addotti e micronuclei; né che vi sia nesso causale fra gli addotti e
micronuclei presenti nei pesci e nei mitili e quelli ipotizzati come presenti
negli esseri umani abitanti nella zona, né che vi sia nesso causale fra i
contaminanti presenti nelle acque e nei pesci della laguna e l’eventuale
presenza di addotti e micronuclei nell’uomo.
Si tratta di semplici ipotesi formulate dagli appellanti
ispirandosi ad un criterio di “ragionevolezza” che non ha trovato alcun
riscontro o sostegno in leggi scientifiche.
A sostegno della tesi accusatoria non è possibile far
ricorso al “principio di precauzione” che non si basa su criteri scientifici,
ma è la manifestazione di decisioni di carattere precauzionale adottate da
organi politico-amministrativi con finalità di prevenzione e senza valenza
scientifica.
Il delitto di avvelenamento è pacificamente un reato che ha
lo scopo di prevenire un pericolo per la salute pubblica, ed è altresì pacifico
che il pericolo è presunto in via assoluta dalla legge perché l’art. 439 c.p.
non richiede la prova che sia sorto un effettivo pericolo per le persone.
Tuttavia il pericolo che la norma vuole prevenire deve
essere un pericolo reale, individuato o individuabile attraverso norme
scientifiche di copertura, non un pericolo supposto o immaginato come nel caso
in esame.
Conseguentemente anche questa doglianza degli appellanti
deve essere rigettata.
CAPITOLO 3.6 APPELLO
P.M.
ERRONEA, CONTRADDITORIA ED ILLOGICA ESCLUSIONE DELLA
SUSSISTENZA DEGLI ESTREMI COLPOSI DI CUI AGLI ARTT. 440 – 452 C.P.
In questa parte dei motivi d’appello il P.M. contesta la
sentenza del Tribunale nel capo in cui ha escluso la sussistenza del reato di
adulterazione colposa delle acque, in diritto e in fatto.
Vengono poste delle premesse in diritto sulla struttura del
reato nelle quali l’appellante accoglie in parte le conclusioni del Tribunale
sul punto.
In particolare si concorda con il primo giudice che il
delitto di adulterazione è un reato di pericolo concreto per la cui sussistenza
è necessario che il giudice accerti la possibilità di un danno alla salute
pubblica, mentre non è necessaria la prova di una effettiva lesione della
stessa.
Però, secondo il P.M., la prova del pericolo non può
consistere nella dimostrazione scientifica della certezza di conseguenze
dannose per la salute dell’uomo quale effetto della condotta adulterante.
Il pericolo è il risultato di un giudizio ex ante che
consenta di ritenere prevedibile che dalla situazione in esame derivi un futuro
evento dannoso.
L’appellante si pone poi il problema di individuare gli
elementi sulla base dei quali il giudice può formulare il giudizio di
pericolosità in concreto e mette in rilievo che secondo varie decisioni della Cassazione
il convincimento del giudice si può basare su qualsiasi mezzo di prova
consentito in quanto la pericolosità dell’acqua o degli alimenti non deve
necessariamente essere accertata a mezzo di analisi chimiche o di indagini
peritali.
In particolare il giudizio di pericolosità può basarsi su parametri normativi quando
esiste una disposizione che riconosce una specifica pericolosità (intesa come
attitudine generica a ledere la salute) ad alimenti che si trovino in
particolari condizioni o che presentino certe caratteristiche.
Si giunge così alla problematica del significato giuridico
da riconoscere agli standars di qualità di un prodotto o di un alimento
previsti dalle leggi speciali.
Secondo l’appellante l’orientamento ora prevalente della
giurisprudenza sarebbe nel senso che la responsabilità penale presuppone sempre
la violazione degli standards perché si tratta di limiti imposti dal
legislatore a tutela della salute umana il cui superamento comporta
necessariamente il verificarsi di una situazione che il legislatore stesso
considera – in base a dati scientifici ormai acquisiti – di rischio per la
salute.
Per quanto riguarda le acque di falda oggetto nel presente
procedimento del contestato reato di adulterazione un preciso indice normativo
di pericolo è fornito dai valori di concentrazione massima ammissibile
stabiliti dal D.P.R. 24\5\1988 n. 236 per le acque destinate al consumo umano.
Con le disposizioni sopra richiamate il legislatore
nazionale, in attuazione della direttiva CEE n.80\778, ha fissato i requisiti
di qualità delle acque destinate al consumo umano sulla base dei valori e delle
indicazioni relativi ai parametri elencati nell’allegato I ed ha ribadito che
ogni superamento del valore di concentrazione massima ammissibile fissato per
ogni parametro tra quelli indicati nell’allegato I rappresenta sempre un
fattore di rischio per la salute dell’uomo e che deroghe possono essere
consentite solo quando non comportino un rischio inaccettabile.
Il giudice ha quindi a disposizione un preciso elemento di
carattere normativo da utilizzare per valutare la significatività del rischio
per la salute pubblica conseguente alla adulterazione (in questo caso) delle
acque di falda, non essendo vincolato agli esiti di una dimostrazione
scientifica in concreto del rischio esistente e del suo livello. Ad avviso di
questo Collegio non può essere condivisa la tesi del P.M.
Seguendo tale tesi, in caso di insufficienza delle leggi
scientifiche come metro del giudizio di pericolosità si potrebbe far ricorso al
metro alternativo costituito dai parametri normativi dei limiti-soglia previsti
dalla legislazione speciale al cui superamento verrebbe attribuita una
presunzione assoluta di pericolosità.
Occorre però tener presente che i limiti-soglia sono fissati
dal legislatore in vista di misure di tutela ultracautelare del bene protetto
al fine di prevenire ed evitare qualsiasi ipotesi di rischio.
Non possiamo inoltre dimenticare che il reato di
adulterazione è, pacificamente, un delitto di pericolo concreto per la pubblica
incolumità, e che l’accertamento del pericolo concreto impone sempre una
dimostrazione reale e non ipotetica della pericolosità della condotta tipica.
La prevalente giurisprudenza di legittimità e di merito
riconosce la completa autonomia strutturale tra le fattispecie di avvelenamento
e adulterazione e le diverse ipotesi contravvenzionali o di illecito
amministrativo previsti dalla legislazione speciale degli alimenti e
dell’ambiente e conseguenti al superamento dei limiti-soglia.
Sul punto appare estremamente chiarificatrice la sentenza
della Suprema Corte che ha affermato che: “ …la nozione di pericolo per la
salute pubblica va oltre la semplice finalità di prevenzione propria delle
contravvenzioni ed implica l’accertamento di un nesso tra consumo e danno alla
salute fondato quanto meno su rilievi statistici che valgano a costituire un
rapporto tra due fatti in termini di probabilità” (Cass. 30\5\1997, Rigoni).
Anche la Corte Costituzionale, chiamata ad intervenire
proprio sul rapporto tra il delitto di adulterazione e la contravvenzione
prevista dall’art.3 del D.Lv. 27\1\1992 n.118 relativa al divieto di
somministrazione di talune sostanze ad azione ormonica e tireostatica nella
produzione di animali, ha evidenziato: “…la reciproca autonomia e la diversità
dei tipi di illecito”, sottolineando in particolare “…il diverso requisito
costitutivo del reato consistente, nella disposizione del codice penale, nel
pericolo concreto per la salute pubblica, che non si riscontra in quella
impugnata (contenuta nella legge speciale) fondata sulla generica previsione
del pericolo astratto” (Corte Cost. 21 luglio 1993 n.326).
Si deve quindi giungere alla conclusione che per la
sussistenza del reato di adulterazione è comunque necessario accertare
l’esistenza di un pericolo concreto per la pubblica incolumità; a tal fine può
essere utile, ma non sufficiente, il ricorso ai limiti-soglia fissati dalla
legislazione speciale in quanto l’eventuale superamento degli stessi configura
il reato contravvenzionale o l’illecito amministrativo, ma deve essere
affiancato da un ulteriore accertamento circa la concreta messa in pericolo del
bene protetto.
Giustamente, quindi, il Tribunale ha recluso la sussistenza
del reato di adulterazione contestato evidenziando che nel caso in esame le acque
di falda, pur risultando inquinate per la presenza di varie sostanze in misura
superiore ai limiti di concentrazione massima ammissibile previsti dal D.P.R.
236\88, non rappresentavano, in concreto, un pericolo per la pubblica
incolumità perché oggettivamente non idonee ad essere destinate al consumo
umano e quindi non utilizzabili.
Il P.M. impugna però anche quest’ultima affermazione del
Tribunale perché basata su erronei presupposti di fatto.
Prima di passare all’esame di queste ulteriori doglianze dell’appellante
appare opportuno presentare un quadro d’insieme delle circostanze di fatto di
cui ci occupiamo in questo capitolo.
Agli imputati viene contestato di aver provocato
l’adulterazione delle acque di falda non impedendo il percolamento dei rifiuti
stoccati nelle varie discariche create nel corso degli anni sia all’interno che
all’esterno dello stabilimento.
Si deve quindi distinguere fra discariche esistenti
all’interno dell’area del Petrolchimico e discariche esistenti all’esterno di
tale area.
Le prove raccolte nel corso del giudizio di primo grado
hanno permesso di definire, in modo non contestato, la posizione e la
distinzione dei corpi acquiferi presenti nelle due aree entro i primi 30 metri
di profondità.
I)
Partendo dall’alto vi è un primo strato costituito in gran
parte da materiali di riporto fino ad una profondità di circa 5 metri ove
raggiunge il livello limoso-argilloso (caranto) che fa da tetto al secondo
strato. All’interno di questo primo strato non vi è una vera e propria falda
(anche se impropriamente viene chiamata “falda superficiale”), ma sono presenti
acque di impregnazione di origine meteorica e pressoché stagnanti. Tali acque
sono risultate molto inquinate.
II)
Vi è poi il primo acquifero contenuto fra il caranto ed il
primo livello impermeabile situato a circa 15 metri di profondità. In questo
secondo strato vi è la prima vera falda acquifera risultata inquinata in modo
apprezzabile soltanto in corrispondenza ad aree ristrette corrispondenti ai
luoghi di deposito dei rifiuti.
III)
Giungiamo infine al secondo acquifero situato tra il primo
livello impermeabile ed una formazione argillosa-limosa a bassa permeabilità
individuata ad una profondità media superiore ai 22 metri. In questo strato si
trova la seconda falda acquifera che mostra localmente ed esclusivamente per
qualche sostanza concentrazioni sensibili.
Le emergenze processuali avevano indotto il Tribunale a
ritenere che nell’area all’interno del Petrolchimico non era in alcun modo
ipotizzabile l’utilizzo delle falde acquifere entro i primi trenta metri di
profondità per la loro scarsissima portata e per la elevata salinità che le
rendeva inidonee a qualsiasi uso antropico. Quindi l’assetto idrogeologico
della penisola del Petrolchimico evidenziava l’assenza di un requisito indispensabile
per la sussistenza del delitto di adulterazione e cioè quello della
attingibilità almeno potenziale delle acque di falda impedendo così il
verificarsi anche della semplice ipotesi di un pericolo per la pubblica
incolumità.
Per quanto riguarda le acque di falda sottostanti le aree
esterne al Petrolchimico bisogna ricordare che il Tribunale aveva escluso che
l’inquinamento delle acque sottostanti le discariche situate all’interno dello
stabilimento potesse essere veicolato verso i canali lagunari stante le
bassissime velocità di falda, l’ostacolo costituito dai movimenti mareali e
dall’ingressione di acqua marina che determinava una grossa diluizione degli
inquinanti. Anche l’ipotesi del trasferimento della contaminazione verso
l’entroterra era stata esclusa in quanto le falde erano orientate a scendere
verso la laguna; inoltre le analisi effettuate sull’acqua dei pozzi situati
fuori dal plesso industriale avevano evidenziato l’assenza di inquinanti di
origine industriale. Infine non era stata acquisita alcuna prova di
contaminazione delle falde acquifere sottostanti le discariche esterne al
Petrolchimico.
In primo luogo il
P.M. rileva che dalle schede di autodenuncia acquisite con ordinanza in data
8\5\2001 risulta l’esistenza di numerosi pozzi che pescano nelle prime falde
del sistema idrogeologico veneziano; il dato appare confermato da uno studio
della Provincia di Venezia – Settore Ecologia e Ambiente – Servizio
Programmazione Ambientale e cioè dall’ “Indagine idrogeologica del territorio
provinciale di Venezia” del 1998 dal quale risulta l’esistenza nel territorio
della Provincia di 463 pozzi noti.
Tutto ciò dimostrerebbe come le falde oggetto del presente
procedimento risultino normalmente sfruttate per uso umano. In verità le
conclusioni del P.M. appaiono infondate.
Si deve infatti rilevare che tutti i pozzi ad uso
industriale-alimentare risultanti dalle schede di autodenuncia acquisite con
ordinanza dell’8\5\2001 sono lontani diversi chilometri (comunque mai inferiore
ad una distanza di 2 Km.) dall’area dello stabilimento e dalle discariche
esterne o si trovano al di là dei canali industriali che circondano lo
stabilimento che costituiscono un limite invalicabile per le acque della falda
del Petrolchimico. Di conseguenza i pozzi in questione pescano in falde il cui
inquinamento ad opera dello stesso Petrolchimico non risulta provato.
Per quanto riguarda lo studio della provincia di Venezia
pubblicato nel 1998, bisogna ricordare che si tratta di uno studio parziale
confluito in quello più generale pubblicato nel 2002 con il titolo “Indagine
idrogeologica del territorio provinciale di Venezia” dal quale emerge in modo
inequivocabile che le falde della provincia diminuiscono naturalmente la loro
qualità man mano che si avvicinano alla laguna e, di conseguenza, non sono
idonee per scopi idropotabili per la presenza di ferro e ammoniaca di origine
naturale nonché, in prossimità della costa, di cloruri.
Tutto ciò conferma la non utilizzabilità delle acque di
falda sottostanti l’insediamento industriale.
Relativamente all’area del Petrolchimico risulta in modo
pacifico che non vi sono mai stati pozzi con profondità inferiore ai 30 metri
che potessero pescare nelle falde inquinate, mentre ne esistevano 16 con
profondità compresa fra i 91 e i 312 metri che però erano stati chiusi fin dal
1964 a seguito di una ordinanza del Genio Civile tendente ad evitare il
fenomeno della subsidenza.
L’appellante contesta poi l’affermazione del Tribunale che
aveva escluso un rilevante trasferimento orizzontale degli inquinanti presenti
nelle acque di falda sottostanti le discariche interne al Petrolchimico in
direzione dei canali lagunari in considerazione del basso coefficiente di
permeabilità del sottosuolo. Rileva il P.M. che il primo giudice aveva
erroneamente indicato il coefficiente di permeabilità in cm\s mentre la
dimensione normalmente usata era in m\s.
In realtà qualsiasi misura di velocità lineare può essere
espressa indifferentemente sia in m\s sia in cm\s perché la correttezza del
risultato dipende unicamente dall’uso della stessa unità di misura all’interno
dei calcoli che vengono effettuati.
Dal punto di vista sostanziale appare incontestabile che il
valore di permeabilità indicato dal primo giudice relativamente agli acquiferi
contenenti la prima falda risulta corretto; si tratta infatti di un acquifero
costituito prevalentemente da sabbie fini limose la cui granulometria comporta
una permeabilità pari al valore indicato nella sentenza di primo grado. Infatti
le diverse prove di permeabilità effettuate nell’area del Petrolchimico e lo
stesso consulente del P.M. prof. Nosengo, concordano nell’indicare bassi valori
di trasmissività e permeabilità dei materiali di riporto e degli acquiferi
superficiali in accordo con le granulometrie dei terreni dedotte dalle stratigrafie.
L’appellante
sostiene poi che non risponde a verità l’affermazione del Tribunale secondo cui
le acque di falda sottostanti l’area del Petrolchimico sarebbero
sostanzialmente stagnanti in quanto si riverserebbero in laguna in una misura
stimata in 4 litri al secondo da tutto il complesso dei terreni.
Secondo il P.M. il dato di 4 l\s riguarderebbe solamente le
acque di impregnazione e non già la prima falda, inoltre anche una tale
fuoriuscita non può considerarsi indifferente dato che corrisponde ad un
apporto annuo di 126 milioni di litri.
In primo luogo si deve escludere che il dato di 4 l\s che
definisce l’apporto stimato delle acque di falda alla laguna si riferisca alle
sole acque di impregnazione. Si deve ricordare che tale stima venne proposta in
prima battuta in una memoria della difesa Montedison depositata il 20\4\2001
nella quale si faceva esplicito riferimento alla prima falda e non già alla
falda superficiale (o acque di impregnazione) che veniva considerata come
stagnante; il consulente del P.M. prof. Nosengo ha riconosciuto l’esattezza
della stima facendo ovviamente riferimento allo stesso dato fornito dalla
difesa Montedison. Appare quindi certo che il dato di 4 l\s concerne l’apporto
in laguna delle acque della prima falda perché quelle della falda superficiale
restano sul posto essendo stagnanti, mentre quelle della seconda falda non
possono finire in laguna trovandosi ad una profondità superiore rispetto al
fondo della laguna stessa per cui, eventualmente, defluiranno in mare aperto.
Il secondo argomento dell’appellante consiste in buona
sostanza nell’affermazione che: “ il quantitativo di 4 litri al secondo,
espresso in questa unità temporale, tende ad essere percepito come molto
piccolo” (motivi P.M. pag. 1208), ma in realtà appare rilevante se il medesimo
dato viene espresso su base giornaliera o annuale.
In realtà si tratta di un artificio numerico che non sposta
i termini della questione principale e cioè l’apprezzamento e la valutazione
del contributo percentuale degli apporti delle acque provenienti dalla falda
sottostante il Petrolchimico rispetto all’apporto degli altri afflussi che si
riversano in laguna calcolati in misura pari a 50.000\55.000 litri al secondo.
Ciò che veramente rileva ai nostri fini è il raffronto tra gli apporti che si
riversano in laguna e non il valore assoluto di ciascuno di essi.
In conclusione si può ribadire che l’apporto della falda del
Petrolchimico è assolutamente insignificante e trascurabile.
Giustamente, quindi, il Tribunale ha escluso che l’inquinamento
esistente nel sottosuolo dell’area di insediamento del plesso industriale possa
aver raggiunto i sedimenti e le acque dei canali lagunari in concentrazione
tale da provocarne la contaminazione, dopo essere stato veicolato dalle acque
di falda.
Il confronto tra le portate in entrata in laguna da parte
dei più vari afflussi e la portata
massima stimata delle acque provenienti dalla falda sottostante il
Petrolchimico evidenzia che queste ultime subiscono una enorme diluizione ad
opera delle altre acque in arrivo in laguna per cui, qualunque fosse la
concentrazione delle sostanze inquinanti eventualmente presenti nelle acque
provenienti dal sottosuolo del Petrolchimico, proprio il fenomeno della
diluizione sopra descritto permette di escludere la rilevanza di un qualsiasi
contributo alla contaminazione della laguna attribuibile a questa fonte.
L’appellante esclude anche che le acque delle falde
sottostanti il Petrolchimico non siano utilizzabili perché sature di cloruri;
si rileva in proposito che non vi è prova che anche la seconda falda sia
costituita da acque salmastre e che comunque le acque salmastre possono essere
utilizzate anche per alcune coltivazioni ( “le piante tollerano sali fino a 900
mg\l, certe colture possono essere irrigate con acque contenenti fino a 3500
mg\l. All’occorrenza persino l’uomo può bere senza danno acque salate fino a
2500 mg\l.”). Anche a tali obiezioni la risposta risulta facile.
E’ pacifico in causa il fenomeno della miscelazione delle
acque salate di provenienza marina con le acque continentali delle falde
situate fino a 30 metri di profondità: Dalle cartografie esistenti emerge che
il tenore di cloruri caratteristico delle acque marine superiore a 10 g\l si
trova nei piezometri che attraversano la prima falda in tutto il Petrolchimico.
Per quanto riguarda la seconda falda la tabella 6.6\4 allegata allo studio
“Aquater Basi 96” indica concentrati di cloruri paragonabili a quelli della
prima falda.
Risulta quindi provato che tutte e due le falde sottostanti
il Petrolchimico hanno una salinità simile a quella dell’acqua marina superiore
a 10 g\l.
Si tratta di acque sicuramente non utilizzabili a fini
antropici perché i 10 g\l non consentono neppure quelle utilizzazioni indicate
dal P.M. nei motivi d’appello.
Infatti, trasformando in grammi i milligrammi che figurano
negli esempi fatti dal P.M. risulta che l’uomo può bere senza danni acque
salate fino a 2,5 g\l, le piante tollerano sali fino a 0,9 g\l e certe colture
possono essere irrigate con acque contenenti cloruri fino a 3,5 g\l, tutti
valori di molto inferiori ai 10 g\l contenuti nelle acque di falda del
Petrolchimico.
Il P.M. definisce poi “apodittica ed indimostrata” la
conclusione cui è pervenuta la sentenza di primo grado nel punto in cui ha
affermato che: “ le falde entro i primi 30 metri di profondità nell’area del
Petrolchimico (quelle considerate in tesi d’accusa) sono da ritenersi non
sfruttabili dal punto di vista idraulico, a causa del ridotto spessore degli
acquiferi che non permettono di estrarre portate utili per un uso antropico”.
La doglianza dell’appellante non appare fondata in quanto le
conclusioni del primo giudice sul punto risultano adeguatamente provate da
indagini dirette condotte nell’area. Vi è in primo luogo l’indagine Aquater del
1995 sull’intervento di messa in sicurezza delle isole 31 e 32, in cui si
precisa che durante le prove di emungimento si è notato che, con portate di
soli 0,14 l\s, il piezometro si svuota. La successiva indagine Aquater 2000 ha
confermato la insignificante produttività degli acquiferi con indagini dirette
condotte nell’area, infatti riassumendo i risultati di 9 prove di pompaggio
effettuate nel primo acquifero all’interno del Petrolchimico, aveva evidenziato
portate estraibili molto basse ( in genere non superiori a 0,1 – 0,2 l\s).
Si deve poi ricordare un altro documento elaborato per conto
del Comune di Venezia e cioè la “Analisi di rischio” – seconda fase, luglio
1999 – sulla discarica 43 ettari inserita all’interno del polo industriale
costiero di Porto Marghera, in cui testualmente si dice: “ dato lo scarso
interesse che rivestono le falde più superficiali a scala provinciale, non si
fa riferimento ai dati di bibliografia, praticamente inesistenti”.(Cap.4,
pag.12).
Anche un teste dell’accusa Chiozzotto, tecnico esperto del
Comune di Venezia, ha confermato lo scarso interesse idraulico delle acque di
falda entro 30 metri di profondità dichiarando: “ …se io le guardo dal punto di
vista idraulico esclusivamente, potrei dire è carente, ha scarsa importanza..”
(Ud. 27\3\2001).
In fine il P.M. censura la sentenza di primo grado nel punto
in cui afferma che il Petrolchimico non può rappresentare una fonte di
inquinamento rispetto alle falde dell’entroterra perché le acque di falda si
muovono da monte verso la laguna e non viceversa.
L’appellante lamenta il fatto che il primo giudice aveva
omesso di prendere in considerazione l’andamento centrifugo delle falde
sottostanti il Petrolchimico rilevato in una carta ad isofreatiche del 1995
predisposta da Aquater Basi 1996.
In realtà il consulente della difesa prof. Dal Prà ha messo
in discussione l’attendibilità di tale carta ad isofreatiche evidenziando come
fosse in aperto contrasto con una analoga carta di provenienza Aquater del 1991
dalla quale emergeva una direzione di deflusso delle acque di falda
dall’entroterra verso la laguna sempre con riferimento alla stessa zona.
Comunque anche volendo ritenere corretta la carta ad
isofreatiche del 1995 si rileva che l’andamento centrifugo della falda ivi
segnalato riguarda un’area molto ristretta dalla quale può derivare soltanto un
flusso in grado di fuoriuscire per pochi metri dai confini del Petrolchimico
per poi defluire inevitabilmente verso i canali industriali a seguito di
assorbimento da parte della direzione di flusso regionale della falda che
impedisce la risalita verso monte e l’uscita della falda dall’area.
Un riscontro in tal senso viene dalla carta isofreatica e
dalla carta piezometrica redatte dalla Regione del Veneto – Segreteria
Regionale per il Territorio, Dipartimento per l’Ecologia – sulla base dei
rilievi sperimentali del 1983 le quali mostrano che per tutte le falde (sia
freatiche, sia profonde) le direzioni di deflusso si sviluppano da nord-ovest
verso sud-est e cioè dall’entroterra verso la laguna.
In conclusione si può affermare che le falde sottostanti
l’area del Petrolchimico sono di dimensioni modeste, poverissime di acqua con
alto contenuto di cloruri e praticamente stagnanti dati i bassi valori di
permeabilità. Tali caratteristiche delle falde le rendono totalmente inadatte a
qualunque tipo di ragionevole sfruttamento.
In altre parole le acque in questione sono risultate, per
tutti i motivi sopra elencati, non attingibili (neppure in linea teorica) per
qualsiasi uso e ciò esclude la sussistenza di qualunque pericolo per la
pubblica incolumità ex art.440 c.p.
Si è altresì accertato che gli inquinanti contenuti nelle
acque di falda vengono trasferiti ai canali lagunari circostanti in misura tale
da non apportare un apprezzabile contributo alla contaminazione dei sedimenti e
del biota.
Risulta provato che gli inquinanti contenuti nelle acque di
falda e provenienti dalle discariche sovrastanti non potevano essere trasferiti
a zone esterne e a monte del Petrolchimico essendo ciò impedito dall’andamento
regionale delle falde stesse.
Per quanto riguarda le aree esterne al Petrolchimico manca
qualsiasi prova che le discariche in imputazione abbiano provocato un
inquinamento apprezzabile delle falde sottostanti e delle acque dei pozzi che
vi pescano..
Tutti questi dati di fatto confermano la conclusione del
Tribunale circa la insussistenza del reato di adulterazione contestato agli
imputati.
CAPITOLO 3.7
APPELLO P.M.
IMPIANTI VECCHI E OBSOLETI A PORTO MARGHERA
LE MIGLIORI TECNOLOGIE DISPONIBILI
3.7.1 La mancata adozione di dispositivi blow down sugli
scarichi di emergenza degli impianti.
Secondo il P.M. e l’Avvocato dello Stato (pag.217 e segg.
motivi d’appello) il tema delle emissioni in atmosfera non sarebbe stato
adeguatamente affrontato dal Tribunale malgrado avesse una importanza rilevante
rispetto alla contestazione di disastro colposo (così come integrata nel corso
dell’udienza del 13\12\2000) verificatosi all’esterno dello stabilimento non
solo con riferimento alle condotte descritte originariamente nel secondo capo
d’imputazione, ma anche in relazione alla contaminazione dell’atmosfera
provocata dalle emissioni non consentite di gas tossici nell’ambito dello
stabilimento e, di conseguenza, delle zone circostanti.
Ora la questione viene riproposta dal P.M. nei motivi
d’appello che, in primo luogo ricorda come tutti i recipienti chiusi contenenti
fluidi pericolosi devono essere dotati di dispositivi (sfiati di emergenza)
idonei ad evitare pericoli di scoppio; nel momento in cui tali dispositivi
entrano in azione il contenuto dei recipienti viene rilasciato e, ovviamente,
deve essere convogliato in un sistema di raccolta (Blow- down) per impedirne la
dispersione.
Negli impianti del Petrolchimico lo scarico diretto in
atmosfera degli sfiati di emergenza, anziché in un apposito sistema di
raccolta, era la regola almeno fino al 1993. Tale soluzione era in aperto
contrasto con i principi di buona tecnica in quanto non garantiva né il
contenimento, né l’abbattimento degli inquinanti pericolosi per la loro tossicità
e cancerogenicità e ciò con particolare riferimento agli impianti della filiera
1,2-DCE\CVM\PVC.
Evidenzia l’appellante che la tecnologia per l’installazione
di idonei sistemi di Blow-down era disponibile fin dagli anni ’60 ed era nota
al gruppo Montedison che li aveva adottati presso gli impianti micropilota e
pilota del Centro Ricerche di Castellana e presso lo stabilimento di Ferrara
negli anni ’70.
Il P.M. rileva ancora che il negativo impatto ambientale
provocato dagli impianti CV22 – 23 si sarebbe potuto ridurre notevolmente
attraverso l’adozione dell’Ossigeno puro in luogo dell’Aria nel processo
produttivo dell’1,2 DCE (Dicloroetano). Infatti il 1,2 Dicloroetano viene
prodotto presso il reparto CV23 del Petrolchimico di Marghera attraverso la reazione
di ossiclorurazione di Acido cloridrico, Etilene e Aria. Tale processo
produttivo dà luogo alla formazione di residui consistenti in sottoprodotti
clorurati, acqua di reazione e gas.
Da oltre venti anni è stata realizzata ed applicata in
U.S.A. e in Giappone una modifica del processo produttivo con la sostituzione
dell’Aria con Ossigeno puro e si è ottenuta una riduzione degli effluenti
gassosi, degli scarichi liquidi, dei residui, delle scorie e dei rifiuti di
processo con aumento della resa produttiva. Malgrado ciò nel Petrolchimico di
Marghera si era continuato e si continua a produrre con il vecchio processo ad
Aria con il suo maggiore impatto ambientale.
Rileva questo Collegio che in realtà la sentenza di primo
grado ha dato una risposta anche ai problemi sopra elencati, pure se in modo indiretto, esaminando la questione del
contributo del fall-out atmosferico alle immissioni in laguna.
La trattazione del problema non risulta particolarmente
approfondita per un motivo abbastanza evidente. Il primo giudice, giunto alla
conclusione (per i motivi esposti in altre parti della sentenza) che la
concentrazioni di sostanze inquinanti nei sedimenti e nel biota della laguna,
non superavano i limiti di qualità e i limiti soglia fissati dalle varie
organizzazioni internazionali e dalla legislazione vigente, ha ritenuto il
problema del fall-out atmosferico non particolarmente rilevante ai fini della
decisione. All’udienza del 3\10\2000 il Tribunale ha preso in esame i dati sul
fall-out forniti dal consulente tecnico dell’accusa dott. Guerzoni e derivanti
da una sperimentazione descritta nel Rapporto finale al Magistrato alle Acque
nell’ambito del Progetto 2023 in tema di “Nuovi interventi per la salvaguardia
di Venezia – Programma generale delle attività di approfondimento del quadro
conoscitivo di riferimento per gli interventi ambientali” (Consorzio Venezia
Nuova, 1999). Il consulente Guerzoni,
esaminando i dati della sperimentazione sopra indicata, aveva ipotizzato una
relazione tra deposizioni al suolo di diossine (PCDD\PCDF) ed emissioni da
impianti del Petrolchimico; tale ipotesi era stata criticata dai consulenti
della Difesa.
Si era comunque giunti alla conclusione che pur assumendo il
dato di valori massimi di ricaduta degli inquinanti riportati dal consulente
Guerzoni ed attribuendoli tutti al Petrolchimico, “le conseguenze in termini di
impatto ambientale risulterebbero essere trascurabili, in assoluto, e, per i
loro significati in termini di rilevanza causale” (Sentenza pag.715) in
relazione all’ipotizzata alterazione dei valori dei sedimenti lagunari o di
altri comparti ambientali.
Mancando quindi la prova che le emissioni di entità pari a
quelle calcolate dal dott. Guerzoni come attribuibili al Petrolchimico abbiano
avuto un qualche effetto significativo sulla contaminazione dei sedimenti e del
biota, non può logicamente considerarsi come addebito di colpa rilevante in
relazione ai contestati reati di disastro, avvelenamento e adulterazione, la
mancata o tardiva adozione di dispositivi di blow down sugli scarichi di
emergenza o di modifiche di processo che comunque non avrebbero inciso in modo
apprezzabile sul tasso di contaminazione.
Il P.M. contesta poi al Tribunale di non aver tenuto conto
dell’addebito di colpa consistito nella mancata adozione della migliore
tecnologia disponibile negli impianti di produzione di cloro-soda sostituendo
il processo con celle a catodo di mercurio prima con quelle a diaframma e, poi,
con quelle a membrana.
E’ provato in causa che i primi impianti di produzione di
cloro-soda realizzati a Marghera tra la fine degli anni quaranta e l’inizio
degli anni cinquanta (CS3 e CS4) utilizzavano celle a catodo di mercurio che
erano pacificamente molto inquinanti; il processo di produzione comportava un
pesante impatto ambientale in considerazione della emissione di rilevanti
quantità di reflui di processo fra cui anche fanghi mercuriali contenenti alti
tassi di Mercurio che venivano tumulati in varie discariche esterne al
Petrolchimico.
Nel 1971 i vecchi impianti erano stati chiusi e la
Montedison, in quello stesso anno aveva realizzato un nuovo impianto di
cloro-soda sempre a celle di mercurio.
Agli imputati di pertinenza Montedison si contesta quindi di
aver fatto tale scelta malgrado vi fosse la possibilità di adottare celle a diaframma
che avrebbero evitato il problema del catabolismo del mercurio.
Questo Collegio non ritiene di dover giudicare negativamente
la scelta fatta dagli imputati che all’epoca rivestivano posizione di garanzia
per due ordini di motivi.
In primo luogo si deve ricordare che il consulente della
difesa, dott. Pasquon, ha evidenziato che l’impianto di cloro-soda realizzato
nel 1971 aveva caratteristiche tecniche idonee a ridurre alla fonte il
catabolismo del mercurio rispetto agli impianti precedenti tanto che durante
gli anni settanta era la soluzione di più frequente realizzazione nei paesi a
tecnologia avanzata.
Sul punto le affermazioni del dott. Pasquon non risultano
essere state contestate, ma anche se non si volesse tener conto di quanto
sostenuto dal consulente della Difesa, si deve comunque considerare che nelle
celle a diaframma quest’ultimo era costituito a base di fibre di amianto e,
quindi, probabilmente più pericolose per l’ambiente e per la salute umana di
quelle a mercurio.
A questo punto però l’appellante obietta che da oltre 25
anni vi era sul mercato la disponibilità di celle a membrana nel processo
cloro-soda che non presentavano le controindicazioni delle cellule a diaframma
o di quelle a mercurio e che già a metà degli anni settanta erano state usate
in impianti di produzione di cloro-soda.
In realtà le affermazioni del P.M. risultano parzialmente
smentite dalle emergenze processuali. E’ stato infatti provato che all’inizio
degli anni sessanta la società USA Dupont annunciò la messa a punto del
“Nafion” e cioè del materiale potenzialmente idoneo ad essere impiegato per le
membrane nelle celle del processo cloro-soda; tuttavia ancora nel 1978 gli
studi sulle applicazioni industriali delle celle a membrana erano ancora in
corso di perfezionamento. Nel 1981 esistevano impianti sperimentali ed
esperienze “pilota” per studiare la resistenza delle membrane alla corrosione
chimica.
Il primo impianto industriale per la produzione di
cloro-soda con celle a membrana negli USA è del 1983, mentre nel 1989 ne
esistevano ancora solamente sette (Cfr. “Enciclopedia of Chemical Technology).
In Europa la situazione era analoga, dato che nel 1986 erano
in attività solo 10 impianti con celle a membrana su oltre 100 esistenti (75
dei quali con celle a mercurio).
Se si considera che gli impianti della Montedison di cui ora
ci occupiamo entrarono in attività nel 1971, risulta condivisibile l’opinione
del primo giudice che al momento del fatto l’evoluzione tecnologica della cella
a membrana non era tale da consentirne una tranquillizzante applicazione di
serie nella produzione industriale.
Di conseguenza non appare legittimo addebitare agli imputati
a titolo di colpa il non aver adottato tecniche di produzione che non avevano
ancora superato il limite della fase conoscitiva e sperimentale e non potevano
ancora essere ritenute idonee e mature per una immediata applicazione
industriale.
Il P.M. passa poi ad esaminare il problema dell’impianto di
depurazione dei reflui derivanti dal processo cloro-soda, il c.d. impianto di
demercurizzazione delle acque collaudato nel dicembre 1982.
L’appellante prende le mosse dalla descrizione di tale
impianto fatta dal consulente della Difesa, prof. Pasquon, nel corso
dell’udienza del 15\11\2000.
In quella occasione il Consulente aveva messo in evidenza la
circostanza che l’impianto in questione era il primo del genere a livello
mondiale e consentiva di raggiungere limiti di concentrazione di Mercurio nelle
acque dopo la depurazione inferiori a 5 parti per miliardo.
Secondo l’appellante fin dall’inizio degli anni ’60 era
disponibile la tecnologia impiantistica che consentiva la depurazione delle
acque reflue in questione fino a limiti di concentrazione finale di 5 ppb di
Mercurio e anche meno; appare quindi colpevole il ritardo con il quale è stato
attivato a Marghera un simile impianto di depurazione.
L’affermazione del P.M. appare però priva di riscontri
probatori; risulta invece dall’istruttoria dibattimentale che solo nel 1973 la
Montedison depositò il brevetto per la realizzazione di un processo di
abbattimento del mercurio per via chimica e che nel 1974 era iniziata a Porto
Marghera la realizzazione dell’impianto di “demercurizzazione” ultimato due
anni dopo e cioè nel 1976, quando era stato attivato.
E’ vero che l’impianto risulta essere stato collaudato solo
in data 15\12\1982, ma dalla lettura dell’atto di collaudo ( e cioè di un atto
redatto in epoca non sospetta) emerge che: “la costruzione dell’impianto è
stata iniziata nel 1974 e lo stesso è entrato in funzione nel marzo 1976” (pag.5
atto di collaudo).
In base a tali dati di fatto si può rilevare che fra la
messa a punto di un idoneo trattamento delle acque mercuriose (1973) e la sua
applicazione pratica (1976) non trascorse un lasso di tempo di molto superiore
a quello strettamente necessario per progettare e costruire l’impianto stesso.
Di conseguenza anche l’addebito di colpa inerente alla
tardiva realizzazione dell’impianto di trattamento delle acque mercuriose
risulta infondato.
3.7.2
La tecnologia per la realizzazione degli impianti di
trattamento chimico-fisico-biologico
delle acque reflue industriali era disponibile negli anni ’50.
Il P.M., nei motivi d’appello, e la parte civile Medina
Democratica, nella memoria depositata il 2\12\2004, ripropongono la tesi che il “depuratore biologico” (SG31) per le
acque reflue industriali avrebbe potuto essere realizzato già negli anni ’50,
mentre, con colpevole ritardo, era invece diventato operativo nello
stabilimento di Porto Marghera solo poco dopo il 1980.
Gli appellanti rilevano sul punto che il Tribunale aveva
escluso tale tesi sostenendo che “un depuratore biologico di uno stabilimento
chimico, della entità e della complessità di quella considerata, era in quegli
anni una applicazione inedita nel contesto italiano” senza però dire nulla
sulla documentazione che il Pubblico Ministero aveva illustrato nel corso della
discussione e che provava come la tecnologia per la realizzazione di tale
impianto fosse disponibile da lungo tempo.
Le doglianze risultano fondate in quanto nella sentenza
appellata non figura alcun riferimento alla documentazione prodotta a sostegno
della tesi d’accusa.
In primo luogo vi sono gli Atti del Convegno
dell’Associazione Nazionale di Ingegneria Sanitaria – A.N.D.I.S. tenutosi a
Bologna il 20-24 aprile 1961 dalla lettura dei quali emerge, in linea generale,
che le industrie, i tecnici e i ricercatori, le istituzioni a tutti i livelli
erano già pienamente consapevoli della gravità del problema dell’inquinamento
causato dagli scarichi industriali.
In merito alle soluzioni tecniche relative al trattamento
delle acque reflue, nel corso del convegno sopra citato il Prof. Luigi Mendia
aveva fatto una relazione ( “Aspetti tecnici del problema degli scarichi
industriali”) nel corso della quale aveva presentato, fra le varie soluzioni,
anche lo schema dell’ “Impianto consorziale del bacino del Niers” che era un
impianto a fanghi attivi particolarmente idoneo all’epurazione di grandi volumi
di scarico (come quelli del Petrolchimico di Marghera).
Vi sono poi gli Atti del Convegno Internazionale di Studio
su “Le acque industriali: aspetti tecnologici” tenutosi a Milano – Museo della
Scienza e delle Tecnica dal 30 maggio al 2 giugno 1960 nel corso del quale il
dottor Luigi Morandi, vice presidente della Società Chimica Italiana e
presidente della Sezione Lombardia, tenne una relazione affermando, fra
l’altro, che: “L’acqua industriale è una grande malata. …….i mezzi tecnici per
la depurazione delle acque di rifiuto sono oggi perfettamente conosciuti. Il
problema quindi è essenzialmente economico e può essere agevolmente risolto,
specialmente quando si può contare su sovvenzioni statali o regionali”.
Osserva questo Collegio che in base alla documentazione
sopra indicata emerge chiaramente che già all’inizio degli anni ’60 la gravità
del problema posto dagli scarichi industriali era ben nota e che era diffusa la
consapevolezza di dover adottare idonee misure per tutelare l’ambiente.
Non risulta invece provato che esistesse la necessaria
tecnologia per attuare impianti di depurazione adeguati ad uno stabilimento
delle dimensioni di quello operante in Porto Marghera.
Vi è in vero la generica dichiarazione del dottor Morandi al
Convegno tenutosi a Milano fra il 30 maggio e il 2 giugno 1960 circa una
perfetta conoscenza dei mezzi tecnici per la depurazione delle acque di
rifiuto, ma tale dichiarazione non è supportata da indicazioni tecniche che
consentano di risolvere il problema della esistenza o meno di conoscenze
scientifiche immediatamente applicabili ai processi produttivi del Petrolchimico.
Più concreto appare invece il richiamo fatto dal relatore
Mendia nel Convegno A.N.D.I.S. del 1961 all’impianto consorziale del bacino del
Niers idoneo alla depurazione di grandi volumi di scarico.
In realtà l’impianto di Niers trattava acque dolci, mentre
l’impianto da costruire a Marghera avrebbe dovuto trattare (come in effetti poi
avvenne con l’impianto SG31) acque salmastre.
Risulta quindi evidente che la tecnologia adottata a Niers
non avrebbe potuto essere applicata direttamente a Marghera; era necessaria una
adeguata sperimentazione per valutare e controllare il funzionamento di un
impianto destinato a operare con acque salmastre non essendo disponibili nella
letteratura tecnica dati sufficienti per la sua progettazione.
E’ infatti pacifico che l’impianto SG31 è stato uno dei
primi impianti del genere ad essere stato realizzato in Europa.
Di conseguenza non è possibile parlare di colpevole ritardo
nella attuazione dell’impianto biologico del Petrolchimico di Porto Marghera.
La parte civile Medicina Democratica, nella memoria
depositata il 2\12\2004, dopo aver ribadito che non tutte le acque clorurate
provenienti dai vari impianti del Petrolchimico erano sottoposte al trattamento
di strippaggio prima di pervenire al depuratore biologico in quanto quelle in
uscita dai reparti CV10-11 non subivano tale trattamento, ha evidenziato che
l’impianto chimico-fisico-biologico SG31 non era e non è in grado di trattare i
composti organoclorurati e in modo particolare le diossine (PCDD) e i furani
(PCDF) essendo stato progettato per la sola biodegradazione delle sostanze
organiche carbonacee.
La tesi della parte civile risulta smentita da una fonte
ufficiale al di sopra di ogni sospetto e cioè dal Decreto Ministeriale
26\5\1999 avente ad oggetto la “Individuazione delle tecnologie da applicare
agli impianti industriali ai sensi del punto 6 del decreto interministeriale
del 23\4\1998 recante requisiti di qualità delle acque e caratteristiche degli
impianti di depurazione per la tutela della laguna di Venezia”.
Nella tabella allegata al citato decreto ministeriale, ove
vengono riepilogate le migliori tecnologie disponibili per l’abbattimento degli
inquinanti nelle acque, si afferma esplicitamente che il trattamento biologico
costituisce la migliore tecnologia disponibile per l’abbattimento delle
diossine nelle acque reflue secondo gli Universal Standards dell’EPA.
Nel Documento tecnico di supporto alla redazione dello
stesso Decreto Ministeriale si fornisce anche la spiegazione tecnica della
conclusione sopra riportata in quanto si precisa che: “ un trattamento di
chiariflocculazione ben effettuato si può ritenere che sia in grado di
abbattere i solidi sospesi fino a qualche ppm, con presumibili abbattimenti dei
microinquinanti organo clorurati adesi intorno al 95%”.
A chiarimento di quanto sopra riferito bisogna ricordare che
l’impianto biologico SG31 del Petrolchimico prevede il trattamento di
chiariflocculazione citato nel Documento tecnico come risulta dalla descrizione
dell’impianto stesso contenuta nell’allegato al Decreto Ministeriale 26\5\1999
Parte I.
In altre parole il Decreto Ministeriale conferma che un
comune impianto di trattamento chimico\fisico delle acque (come quello del
Petrolchimico) può essere in grado di abbattere quasi interamente (attorno al
95%) i microinquinanti organoclorurati e le diossine presenti nelle acque
attraverso l’eliminazione dei solidi sospesi a cui le diossine tendono ad
aderire.
In conclusione anche questa doglianza della parte civile
Medicina Democratica è risultata quindi infondata.
3.7.3 Gli scarichi
idrici.
Si deve ora procedere all’esame delle doglianze avanzate
dalla accusa pubblica e dalla accusa privata nei confronti della affermata
infondatezza, da parte della sentenza appellata, di due addebiti di colpa
relativi agli scarichi idrici e cioè la negazione della tesi accusatoria
secondo cui gli scarichi sarebbero stati effettuati in violazione del divieto
di “diluizione” e dell’altra tesi accusatoria secondo cui il superamento dei
parametri di accettabilità previsti dal D.P.R. 962\1973 avrebbe determinato
condizioni peggiorative dello scarico nelle acque.
Prima di iniziare l’esame di questa parte dei motivi
d’appello sembra opportuno delineare in maniera succinta la situazione degli
scarichi idrici del Petrolchimico tenuti al rispetto dei limiti di
accettabilità previsti dal D.P.R. 962\73.
Al momento della entrata in vigore dei limiti di
accettabilità sopra citati (1\3\1980) gli scarichi di acque reflue con recapito
in laguna tenuti al rispetto di tali limiti erano i seguenti:
I)
SM 15, con recapito nel canale Malamocco-Marghera, nel quale
confluivano acque di processo ed altre correnti interne costituite da acque di
raffreddamento e di lavaggio, nonché la corrente SM 22 proveniente
dall’impianto chimico-fisico-biologico (SG31) che però doveva rispettare i
limiti di accettabilità prima della immissione nello scarico principale. Con
l’entrata in vigore del D.Lgs. 133\92 due delle altre correnti interne
confluenti nello scarico principale furono assoggettate al rispetto dei limiti
di accettabilità direttamente a piè di reparto e cioè le correnti SI 1 (acque
mercuriose che erano il refluo dell’impianto di demercurizzazione) ed SI 2
(acque contenenti composti organoclorurati che erano il refluo dell’impianto CS
30);
II)
SM 2 con recapito nel Canale Lusore-Brentelle, nel quale
confluivano le correnti interne SA 9 e SC 25;
III)
SM 7 con recapito nel Canale Industriale Sud;
IV)
SM 8 con recapito nel canale Industriale Ovest, nel quale
confluiva anche la corrente interna SA 9;
V)
SM 9 con recapito nel Canale Industriale Ovest.
Il Magistrato alle
Acque aveva quindi rilasciato le prescritte autorizzazioni per gli scarichi
sopra indicati senza imporre alcuna specifica prescrizione per le correnti
interne confluenti nei cinque scarichi principali, fatta eccezione, come si è
detto, per la corrente SM 22 e, successivamente, per le correnti SI 1 ed SI 2,
confluenti nello scarico SM 15.
A fronte di questa situazione di fatto, sostanzialmente
incontestata, già in primo grado l’accusa aveva sostenuto che stante
l’incontroversa confluenza nello scarico SM 15 di acque di processo e di altre
correnti recapitate da scarichi parziali, sarebbe stata realizzata una
diluizione vietata consentendo così di scaricare quantità di inquinanti che non
sarebbe stato consentito immettere nel corpo ricettore se ciascun flusso di
acque fosse stato scaricato separatamente e se i limiti di concentrazione di
sostanze inquinanti fossero stati applicati a ciascun flusso separatamente
prima della miscelazione.
Il Tribunale aveva rigettato la tesi accusatoria con
motivazione pienamente condivisibile in quanto basta su una corretta
interpretazione delle norme vigenti.
In vero le norme speciali per la tutela della laguna (D.P.R.
171\73 e D.P.R. 962\73) non contenevano norma specifiche sul problema della
diluizione e sulla confluenza di più correnti in uno scarico finale con
recapito in laguna, conseguentemente la disciplina applicabile era quella
dettata dalla Legge 10\5\1976 n.319 ( c.d. legge Merli) la quale stabiliva
all’art.9, comma 4, che “i limiti di accettabilità non potranno in alcun caso
essere conseguiti mediante diluizione con acque prelevate esclusivamente allo
scopo”.
Il significato della norma appare evidente nel senso che la
diluizione vietata è esclusivamente quella realizzata mediante miscelazione
delle acque reflue industriali con acque prelevate espressamente e
specificamente allo scopo di diluire il refluo per conseguire fraudolentemente
il rispetto del limite di accettabilità allo scarico.
Risulta al contrario consentita la miscelazione con acque
che, funzionalmente, attengono, anche se in modo indiretto, al processo
produttivo e cioè quelle acque che sono utilizzate per il funzionamento degli
impianti come, nel nostro caso, erano sicuramente le acque di raffreddamento e
di lavaggio (notoriamente gli impianti industriali necessitano di acque per
raffreddare le parti degli impianti soggette ad atrito o per lavare macchinari
e contenitori).
Le acque di raffreddamento e di lavaggio non possono certo
definirsi come acque prelevate al solo scopo di diluire le acque di processo.
La conferma di tale interpretazione della norma in esame
proviene anche dai commi 6° e 7° dello stesso art.9 della legge Merli il primo
dei quali prevedeva la possibilità per l’autorità di controllo di “richiedere
per gli scarichi parziali contenenti le sostanze di cui al punto 10 delle
tabelle A e C allegate alla presente legge (sostanze estranee al presente
procedimento), subiscano un trattamento particolare prima della loro confluenza
nello scarico generale”; mentre il comma 7° statuiva che “non è comunque
consentito diluire con acque di raffreddamento, di lavaggio o prelevate
esclusivamente allo scopo gli scarichi parziali contenenti le sostanze di cui
al n.10 delle tabelle A e C prima del trattamento degli scarichi parziali
stessi per adeguarli ai limiti previsti dalla presente legge”.
Dal complesso normativo sopra esposto si evince quindi
chiaramente che la legge Merli non solo non vietava, ma dava anzi per scontata
la possibilità di una confluenza degli scarichi parziali nello scarico generale
prevedendo una disciplina più rigorosa solo per gli scarichi parziali
contenenti delle sostanze diverse da quelle scaricate dal Petrolchimico.
Si deve inoltre rilevare che con la disposizione del comma
7° dell’art.9 il legislatore ha evidenziato di aver ben presente la differenza
concettuale fra acque di raffreddamento o di lavaggio e acque prelevate
esclusivamente allo scopo di diluire i reflui.
La disciplina normativa prevista sul punto dalla legge Merli
è stata poi integralmente confermata dal D. Lgs. 11\5\1999 n.152 che ha
integralmente abrogato e sostituito la legge Merli.
L’art. 28, commi 4° e 5° del D.Lgs. 152\99 confermano
integralmente le disposizioni della legge Merli sulla diluizione facendo però
una precisazione che conferma l’interpretazione data dal Tribunale alla
normativa in esame. Si deve infatti rilevare che l’art. 28, comma 5° del D.Lgs.
152\99 dispone testualmente che: “ l’autorità competente, in sede di
autorizzazione, può prescrivere che lo scarico delle acque di raffreddamento,
di lavaggio, ovvero impiegate per la produzione di energia, sia separato dallo
scarico terminale di ciascun stabilimento”.
Ciò conferma che di regola la confluenza di diverse correnti
(acque di processo, di raffreddamento, di lavaggio o altre acque) nello scarico
generale all’interno di un determinato complesso industriale è perfettamente
consentita, salvo che si tratti di scarichi contenenti particolari sostanze
(che non riguardano il nostro processo) o che vi sia un esplicito provvedimento
dell’autorità amministrativa (che non risulta essere mai stato emesso nel caso
in esame).
In sede di giudizio d’appello le accuse pubbliche e private
hanno insistito nel sostenere una interpretazione particolarmente rigida della
normativa facendo rilevare che la disciplina specifica e più rigorosa di quella
generale prevista per alcuni scarichi parziali in ragione del loro contenuto
non faceva venir meno il carattere assoluto ed inderogabile del divieto di
diluizione, previsto dal comma 4° dell’art.9 della legge Merli e, poi, dal
comma 5° dell’art.28 del D.Lgs.152\99, dal quale deriverebbe un divieto
egualmente assoluto ed inderogabile di miscelazione delle acque di
raffreddamento e di lavaggio con le acque di processo.
Il P.G., a sostegno di questa interpretazione della
normativa, ha anche citato alcune pronunce giurisprudenziali (Cass. Sez.III,
21\7\1988 n.8331 e Cass. Sez.III, 19\1\1994 n.439) nelle quali si era sostenuto
che il divieto di diluizione imposto dalla legge Merli aveva un carattere
assoluto ed inderogabile e aveva vietato qualsiasi forma di miscelazione dei
reflui dello specifico ciclo produttivo con altre correnti interne.
Si tratta di un orientamento giurisprudenziale già noto a
questo Collegio, ma che appare espressione di una eccessiva forzatura del
significato letterale della norma che arriva ad essere interpretata in via di
analogia.
Le citate decisioni della Cassazione avevano l’evidente
scopo di raggiungere obbiettivi di tutela ambientale in casi limite nei quali
la possibilità di miscelare acque di processo con acque di raffreddamento e di
lavaggio aveva consentito fraudolenti superamenti dei limiti di accettabilità.
Indubbiamente la normativa vigente consentiva che un
imprenditore di pochi scrupoli potesse modulare il quantitativo delle acque di
lavaggio o di raffreddamento immesse nello scarico finale non in funzione delle
esigenze effettive degli impianti e del ciclo produttivo, ma in relazione alla
necessità di ridurre la concentrazione degli inquinanti presenti nel refluo
entro i limiti di accettabilità.
Anche in presenza di tali situazioni è facile replicare che
in linea di principio non è necessario forzare l’interpretazione della legge in
quanto le acque prelevate in eccesso rispetto a quelle effettivamente
necessarie ai fini di raffreddamento e di lavaggio e poi scaricate allo scopo
di diluire i reflui sono sicuramente acque prelevate esclusivamente allo scopo
di diluizione per le quali è pacificamente applicabile la disciplina dettata
dall’art.9, comma 4° legge Merli nell’interpretazione data dal Tribunale e
condivisa da questo Collegio, senza ricorrere a forzature interpretative del
dettato letterale.
Indubbiamente nei casi sopra indicati si verificavano in
pratica grosse difficoltà di accertamento e di prova.
Il legislatore si è reso conto di tale problematica e, come
si è già detto, vi ha posto rimedio prevedendo, con la disposizione
dell’art.28, comma 5° del D.Lgs. 152\99, che “l’autorità competente , in sede
di autorizzazione, può prescrivere che lo scarico delle acque di
raffreddamento, di lavaggio, ovvero impiegate per la produzione di energia, sia
separato dallo scarico terminale di ciascun stabilimento”; mentre un obbligo di
separare le acque di raffreddamento e meteoriche da quelle di processo è stato
previsto per la prima volta e soltanto per gli scarichi che recapitano nella
Laguna di Venezia con il Decreto Ministeriale Ronchi-Costa del 30\7\1999 con
decorrenza dal 1\1\2002.
Tornando ora all’oggetto del presente procedimento penale,
resta da rilevare che non è stata acquisita alcuna prova che gli imputati
abbiano fraudolentemente aumentato le portate delle acque di raffreddamento e
lavaggio per diluire i reflui contenuti nello scarico principale ed è pacifico
che l’autorità amministrativa non ha mai prescritto (nel periodo temporale in
esame) la separazione delle acque di raffreddamento e lavaggio da quelle di
processo.
Per tali motivi non può quindi parlarsi, nel caso in esame,
di abusiva diluizione delle acque di scarico sulla base della semplice
circostanza che negli stessi scarichi confluivano acque di processo e acque di
raffreddamento in quanto tale miscelazione era consentita dalla normativa
vigente.
Sempre a proposito degli scarichi idrici del Petrolchimico
gli appellanti contestano la sentenza di primo grado nella parte in cui ha
negato che il semplice superamento dei parametri di accettabilità più volte
riscontrato documentalmente abbia determinato condizioni peggiorative delle
acque lagunari rilevanti ai fini dei reati contestati di disastro,
adulterazione e avvelenamento.
Il P.M. parte dalla premessa che nel corso dell’istruttoria
dibattimentale erano stati acquisiti tutti i bollettini interni delle analisi
compiute sugli scarichi del Petrolchimico; dall’esame di tale grande mole di
documenti era emerso che gli scarichi idrici dello stabilimento avevano
presentato rilevanti frequenze di superamento dei limiti stabiliti dalla legge
per diversi tipi di inquinanti.
La frequenza temporale di tali casi di superamento era
andata decrescendo dagli anni ’80 agli anni ’90 per poi attestarsi negli ultimi
anni su una percentuale superiore all’1%.
Nel corso del giudizio di primo grado i consulenti delle
parti avevano molto discusso sulle modalità di rilevamento e di calcolo dei
superamenti, ma in questa sede tali problemi non hanno più interesse.
La questione posta dagli appellanti nei motivi è infatti di
carattere generale dato che si sostiene che i superamenti dei limiti tabellari,
indipendentemente dal loro numero e dalla loro frequenza, avrebbero comunque
determinato un peggioramento delle condizioni delle acque lagunari rilevante ai
fini dell’accertamento dei reati di disastro, avvelenamento e adulterazione
contrariamente a quanto ritenuto dal Tribunale.
Secondo il P.M. la normativa sulla tutela delle acque
dall’inquinamento ha sempre previsto, come elemento basilare, un sistema di
valori limite della concentrazione degli inquinanti negli scarichi idrici
stabiliti in opportune tabelle; si tratta di limiti di concentrazione massima
che non possono essere superati in alcun caso.
La scelta del legislatore è stata precisa e pienamente
consapevole delle conseguenze, per cui non è possibile negarla perché
altrimenti verrebbe negata o stravolta la norma.
Tale stravolgimento era stato appunto operato dal Tribunale
nel momento in cui aveva ritenuto, aderendo alle tesi difensive, che i valori
limite fossero da riferirsi alle concentrazioni medie (addirittura medie
annue).
Si rileva che accogliendo la tesi delle difese si
giungerebbe a conseguenze assurde in quanto uno scarico potrebbe, per periodi
limitati, presentare concentrazioni di inquinanti così elevate da costituire un
vero e proprio veleno per la vita acquatica del corpo recettore, e poi ridurre
nel corso dell’anno le concentrazioni in modo da non superare il valore limite
medio.
Comunque se il legislatore avesse inteso stabilire dei
valori limite medi (giornalieri, mensili o annui) lo avrebbe detto
espressamente come ha in effetti fatto in materia di tutela contro
l’inquinamento atmosferico fissando anche i tempi su cui si devono mediare le
concentrazioni (un anno per i microinquinanti, una settimana per altri
inquinanti).
Ad avviso di questo Collegio la tesi accusatoria non appare
condivisibile.
Indubbiamente il sistema normativo di tutela delle acque
dall’inquinamento è basato sui limiti di concentrazione previsti nelle apposite
tabelle; il superamento di tali limiti ha immediato rilievo penale nel senso
che comporta l’applicazione delle sanzioni previste dalle varie contravvenzioni
in materia indipendentemente da qualsiasi accertamento sugli effetti negativi
cagionati in concreto dall’inquinante sul corpo recettore.
In questa sede, però, non ci stiamo occupando di
contravvenzioni, ma dei contestati delitti di disastro, avvelenamento e
adulterazione; dobbiamo cioè accertare se la condotta degli imputati
(concretizzatasi nel superamento dei limiti tabellari) abbia cagionato gli
eventi costitutivi dei delitti in esame.
In altre parole dobbiamo accertare se a seguito degli
accertati superamenti dei limiti di concentrazione si sia verificato un
obiettivo peggioramento della qualità delle acque del corpo recettore con
conseguente danno per i sedimenti, per il biota e per l’ambiente in generale.
Tale accertamento può essere effettuato solo in un modo e
cioè calcolando quanto inquinante poteva essere legittimamente immesso in
laguna, in un certo periodo di tempo, rispettando istante per istante i
parametri tabellari e confrontando il risultato con il quantitativo di
inquinante effettivamente immesso nello stesso corpo ricettore nell’identico
periodo di tempo.
Solo da tale confronto si potrà dedurre se vi sia stato un
peggioramento della qualità del corpo ricettore rispetto a quanto previsto
dalle norme di tutela e si potrà valutare l’entità e la gravità di tale
eventuale peggioramento.
Nel presente procedimento il consulente della difesa prof.
Foraboschi ha elaborato i dati a disposizione calcolando i valori medi di
concentrazione degli inquinanti per cinque anni tenendo conto di tutti i
parametri per i quali si era verificato un superamento e per tutti gli scarichi
giungendo alla conclusione che non si era mai ottenuto un valore medio di
concentrazione nell’anno superiore al corrispondente limite annuo calcolato
sulla base delle tabelle di legge.
La conclusione è che se uno scarico, nel suo complesso, si
attesta su valori medi inferiori ai valori soglia, produce un impatto
complessivo corrispondente a quello di uno scarico che sia stato regolare in
ogni momento.
Ai fini della decisione che si deve prendere in questa sede
non si può prescindere dalla valutazione del contributo all’inquinamento del
corpo idrico e cioè del carico
inquinante complessivo riversato nel corpo ricettore dagli scarichi in esame.
La valutazione del contributo all’inquinamento del corpo
idrico è una cosa diversa dal controllo del rispetto dei limiti di
accettabilità e la sua rilevanza non è una invenzione delle difese degli
imputati o del Tribunale, ma trova riscontri in vari riferimenti normativi.
Basterà ricordare che l’Istituto di Ricerca sulle Acque del
Consiglio Nazionale delle Ricerche nel Quaderno 100 pubblicato nel 1994,
trattando dei metodi di campionamento, precisava che: “fra i diversi obiettivi
da perseguire nel campionare le acque di scarico si possono indicare come più frequenti
i seguenti: - controllo dei limiti di accettabilità previsti da leggi e
regolamenti – valutazione del contributo all’inquinamento del corpo idrico e
più in generale del sistema ricettore…”.
Vi è poi il D.Lgs.152\99 che richiede la “stima dell’inquinamento
in termini di carico e la stima dell’impatto” (all.4) e indica il carico
massimo ammissibile come elemento centrale per la determinazione proprio dei
valori limite di emissione in funzione della tutela delle acque, consentendo
alle Regioni di fissare tali valori con riferimento alla “quantità massima per
unità di tempo” immessa nel corpo idrico, per ogni inquinante e per gruppi o
famiglie di inquinanti (art.28, commi 1° e 2°); il Decreto Ministeriale
23\4\1998, relativo ai requisiti di qualità delle acque e caratteristiche degli
impianti di depurazione per la tutela della laguna di Venezia, che richiede la
valutazione dei “carichi massimi ammissibili complessivi di inquinanti in
laguna”; ed in fine il D.P.C.M. 27\12\1988 (Norme tecniche per la redazione
degli studi di impatto ambientale e la formulazione del giudizio di
compatibilità di cui all’art.6 Legge 8\7\1986 n.349, adottate ai sensi
dell’art.3 del D.P.C.M. 10\8\1988 n.377), che richiede la “stima del carico
inquinante” per le analisi concernenti i corpi idrici.
In conclusione appare condivisibile la decisione del
Tribunale di ritenere infondata la tesi dell’accusa secondo cui il superamento
dei parametri di accettabilità verificatosi in alcune occasioni negli scarichi
idrici del Petrolchimico avrebbe determinato condizioni peggiorative delle
acque della laguna rilevanti ai fini dei reati contestati in quanto tale
valutazione può essere fatta solo in base ad una stima del carico inquinante
complessivo e del relativo impatto sul corpo ricettore calcolato sulla base di
valori medi rilevati nel corso di un periodo di tempo determinato.
E’ sicuramente vero che il ricorso ai valori medi di
concentrazione comporta il pericolo che uno scarico possa sversare in un
periodo di tempo limitato altissime concentrazioni di inquinanti costituenti un
vero veleno per la vita acquatica e poi rientrare nei limiti in modo tale da
non superare il valore limite medio calcolato nell’anno; ma identico pericolo
sussiste con il criterio dei valori limite di concentrazione in quanto uno
scarico anomalo può verificarsi in tutti i momenti in cui non vengono
effettuati i prelievi per le analisi di controllo.
Bisogna comunque evidenziare che nel caso in esame nessuno
delle migliaia di bollettini di analisi acquisiti agli atti attesta sversamenti
di inquinanti in misura così elevata da potersi definire come episodio di grave
inquinamento.
3.7.4 Rifiuti e
inceneritori.
In questo paragrafo il P.M. non espone dei veri e propri
motivi di impugnazione limitandosi a svolgere considerazioni di carattere
generale a chiarimento del suo totale dissenso rispetto alle tesi sostenute
dalle difese degli imputati e accolte dal Tribunale.
Si rileva che l’Italia, sollecitata dalla Comunità
internazionale, aveva adottato normative specifiche allo scopo di ottenere il
contenimento dell’inquinamento delle acque proprio a salvaguardia di Venezia e
del suo ambiente e si cita in particolare la Legge 16\4\1973 n.171 (
“Interventi per la salvaguardia di Venezia”) che prevedeva un serrato programma
di interventi a carico delle istituzioni nazionali, regionali e locali in
quanto le stesse avrebbero dovuto stabilire: “ limitazioni specificamente
preordinate alla tutela dell’ambiente naturale, alla preservazione dell’unità
ecologica e fisica della laguna, alla preservazione delle barene ed
all’esclusione di ulteriori opere di imbonimento, alla prevenzione
dell’inquinamento atmosferico ed idrico e, in particolare, al divieto di
insediamenti industriali inquinanti, ed ai prelievi e smaltimenti delle acque sopra
e sotto suolo” (art. 3, comma 2° lett.c, Legge 171\73).
A fronte di queste precise disposizioni l’adeguamento degli
scarichi idrici ai limiti di legge lo si era ottenuto solo nel 1983 e cioè con
dieci anni di ritardo rispetto alla promulgazione della legge.
A questo rilievo si deve però replicare che il ritardo
nell’adeguamento degli scarichi idrici non appare attribuibile agli imputati se
si tiene conto che i principi generali fissati con la Legge 171\73 si erano
concretizzati in più precise disposizioni di carattere pratico con il D.P.R.
20\9\1973 n.962 che prevedeva in una apposita tabella i limiti di accettabilità
applicabili agli scarichi idrici in laguna e che tali limiti erano entrati
effettivamente in vigore solo in data 1\3\1980.
L’appellante contesta poi l’affermazione del Tribunale
secondo cui “in materia di gestione dei rifiuti, accanto a forme di smaltimento
in discarica (come d’uso in allora), furono impiegate tecnologie avanzate” e
ricorda in proposito che l’impianto CS 28 di incenerimento dei residui
clorurati aveva evidenziato fin dall’inizio forti carenze a causa dell’utilizzo
di materiali inadeguati in relazione alla corrosività dei fluidi trattati.
Tali carenze erano spiegabili solo con scelte di risparmio
economico in quanto la Montedison, all’epoca, gestiva numerosi impianti che
trattavano fluidi corrosivi ed era sicuramente a conoscenza della esistenza di
materiali disponibili sul mercato e resistenti alla corrosione acida.
Sul punto specifico
le affermazioni del P.M. appaiono smentite dalla descrizione dell’impianto
contenuta nel documento di collaudo dal quale si rileva che per la costruzione
di varie parti dell’impianto stesso furono utilizzati: acciai ebanitati,
rivestimenti antiacido, teflon, grafite, Hastelloy. Nella relazione di collaudo
si specifica anche che: “Ben noto è infatti l’elevato potere corrosivo
dell’acido cloridrico per cui solo taluni materiali, quali grafite, teflon,
hastelloy, acciaio ebanitato o altri rivestimenti antiacido, a seconda della
condizione, danno sufficienti garanzie di resistenza”.
Risulta quindi che furono impiegati nell’impianto in
questione proprio quei materiali ritenuti all’epoca più idonei per quel tipo di
uso.
Infine il P.M. segnala che la sentenza impugnata nulla ha
detto di altri impianti di incenerimento di rifiuti come quello di
incenerimento di reflui liquidi del reparto TD del quale erano state
evidenziate in aula le carenze impiantistiche o dell’impianto di incenerimento
del nerofumo del reparto AC1 privo di sistemi di abbattimento degli inquinanti.
In realtà il silenzio della sentenza di primo grado sui due
impianti sopra indicati trova la sua spiegazione nella circostanza, in
precedenza già ricordata (V. par. 3.7.1), che le immissioni in atmosfera di
inquinanti sono risultate irrilevanti ai fini dell’accertamento della
sussistenza dei reati di disastro, avvelenamento e adulterazione.
L’appellante accenna anche all’impianto di produzione di
cloro-soda con celle a catodo di mercurio e ai connessi problemi di formazione
e rilascio in ambiente di rilevanti quantità di residui tossici e reflui
contenenti mercurio e diossine, ma anche questa questione è stata esaminata e
trattata nel paragrafo 3.7.1.
CAPITOLO 3.8 APPELLO P.M.
LE CONSULENZE TECNICHE DEL PUBBLICO MINISTERO
L’ACCERTAMENTO DEL LABORATORIO M.P.U. DI BERLINO
3.8.1 Rapporto tra
prima e seconda zona industriale.
Come è stato già ricordato nella parte relativa alla
esposizione dei fatti, la sentenza di primo grado ha rigettato la tesi
accusatoria che indicava nel Petrolchimico l’unica fonte dell’inquinamento
riscontrato in laguna precisando che in realtà un ruolo determinante era stato
individuato in un fenomeno di inquinamento di vecchia data proveniente dalla prima
zona industriale e diffusosi in laguna attraverso i dragaggi dei canali, il
movimento dei natanti a motore e, soprattutto, a seguito di vasti imbonimenti
della Seconda Zona Industriale ove poi era sorto il Petrolchimico.
A proposito dell’imbonimento la sentenza affermava: “E’
acquisizione probatoria sicura che il sottosuolo della Seconda Zona
Industriale, per l’estensione di alcune centinaia di ettari (ad est dell’alveo
del Canale Bondante) è costituito da rifiuti di antica derivazione dalle
produzioni insediate nell’ambito della Prima Zona Industriale. Rifiuti che con
valutazione tecnica e normativa dell’oggi diremmo tossico-nocivi. Allora
ritenuti dalla mano pubblica una risorsa preziosa per strappare terra alle
acque e sostenere la vocazione industriale di Venezia. E’ acquisizione certa
che nello zoccolo di questa enorme massa di rifiuti sono stati scavati
interamente il Canale Industriale Sud, il Canale Industriale Ovest e, in parte,
il Canale Malamocco-Marghera (Seconda Zona Industriale)” (Sentenza
pag.656-659).
Gli appellanti contestano le conclusioni del Tribunale sul
punto mettendo in discussione la cronologia dell’opera di imbonimento dell’area
destinata alla Seconda Zona Industriale evidenziando l’esistenza di mappe e
foto aeree dalle quali emerge che già negli anni ’40 – ’50 gran parte della
seconda zona industriale era già bonificata con ampi spazi agricoli e che nella
stessa area erano state create discariche di rifiuti provenienti dal
Petrolchimico prima del 1970 e fino alla fine degli anni ’80.
Le obiezioni degli appellanti risultano però chiaramente
smentite da varie prove acquisite nel corso del giudizio di primo grado. Vi è
un primo documento che attesta l’inizio dell’imbonimento addirittura negli anni
’30 con materiali di risulta delle produzioni della prima zona industriale ed è
la convenzione tra il Magistrato alle Acque, il Corpo Reale del Genio Civile,
la Provincia di Venezia, l’Ufficio di Venezia con la ditta Ettore Levi datata
30\3\1929, con la quale quest’ultima concedeva che una parte dei terreni
barenosi di sua proprietà siti in
corrispondenza dell’attuale seconda zona industriale venissero adibiti a sacca
di deposito di rifiuti delle lavorazioni industriali che dovevano essere
spianati alla quota di m.1,50 sopra il medio mare e poi ricoperti con uno
strato di materiale proveniente dagli scavi del Porto Laguna di Venezia.
Il Piano Direttore del 2000 della Regione Veneto attesta che
“le aree industriali di Porto Marghera sono state realizzate innalzando e
consolidando il terreno naturale barenoso fino a quota +2.00 – 2,50 m s.l.m., sia mediante l’impiego di materiali
dragati, sia utilizzando rifiuti e residui di lavorazione industriale, Tutta
l’area è stata interessata, a partire dagli anni ’20, dal riporto di rifiuti e
di residui di lavorazioni industriali per imbonimento; questa pratica si è
protratta fino agli anni ’70 fino a raggiungere spessori medi di riporto di
2,5-3 m.”
Vi sono altri documenti che confermano le stesse cose e tra
questi possiamo ricordare l’ “Indagine sulle risulte industriali di Porto
Marghera”, Consorzio Venezia Nuova del 1996; l’ “Analisi di rischio dell’area
43 ettari” realizzata dal Comune di Venezia nel 1999; il “Progetto generale di
arresto e inversione del degrado lagunare” redatto nel 1993 dal Magistrato alle
Acque.
Oltre alla prova documentale vi è anche una prova
testimoniale proveniente da uno dei testi chiave dell’accusa e cioè il teste
Chiozzotto, tecnico del Comune, il quale all’udienza del 27\4\2001 ha
testualmente riferito che: “…una volta realizzate le prime aziende, la volontà
di allargare il polo industriale ha comportato l’opportunità ritenuta allora
evidentemente ottimale dell’impiego di determinati materiali per recuperi
altimetrici per quanto riguarda i terreni di gronda, cioè, vale a dire, quei
terreni che sono a est del Canale Bondante….i materiali di risulta delle
attività produttive della prima zona industriale …”.
Questo quadro probatorio certo, coerente e univoco non può
certo essere inficiato dalla circostanza che dalle mappe e dalle foto aeree le
aree in questione apparivano, negli anni ’40 –’50 coltivate o comunque coperte
da vegetazione; infatti i primi imbonimenti erano iniziati negli anni ’30 con
materiali provenienti dalla prima zona industriale che poi venivano ricoperti con
altri materiali provenienti dagli scavi del Porto di Venezia (come previsto
dalla Convenzione Levi del 1929) e ciò consentiva il successivo utilizzo dei
terreni così ottenuti ad uso agricolo in attesa dei nuovi insediamenti
industriali.
Risulta altresì pacificamente provato che parte delle aree
ottenute con l’imbonimento furono utilizzate anche per creare delle discariche
utilizzate per i rifiuti del Petrolchimico prima dell’entrata in vigore della
normativa generale sui rifiuti, ma la circostanza non contrasta affatto con il
precedente imbonimento del terreno nei tempi e nei modi sopra indicati.
Il P.M., sempre nel tentativo di evidenziare l’erroneità
delle conclusioni del Tribunale sul punto in esame, ricorda che il Canale
Brentella e il Canale Industriale Nord (situati nell’ambito della Prima Zona
Industriale) erano stati dragati negli anni ’60 e che, successivamente, vi era
stata riscontrata la presenza di sedimenti contaminati che ovviamente vi si
erano depositati dopo tale data.
“Dato che le impronte – secondo il Collegio – sarebbero
quelle tipiche del catabolismo della prima zona industriale, evidentemente c’è
qualcosa che non torna nel ragionamento fatto dal Collegio stesso (e mutuato
esattamente dalle argomentazioni della difesa). Per l’accusa la questione è più
semplice: si tratta dell’ennesima prova che dimostra come anche attualmente
vengano prodotte impronte di vario genere come detto e come si dirà” (motivi
P.M. pag.1319).
L’osservazione dell’appellante potrebbe avere grande rilievo
se veramente l’inquinamento proveniente dalla Prima Zona Industriale si fosse
fermato negli anni ’50, ma ciò non risponde a verità. I consulenti della difesa
Colombo e Bellucci hanno infatti riferito che nella prima zona industriale
l’attività di decuprazione delle ceneri di pirite fosse continuata fino ai
primi anni ’70 e che la lavorazione dell’alluminio si era protratta fino ad
anni recenti; precisando che i reflui di tali lavorazioni erano stati scaricati
direttamente nel canale Brentella e nel canale industriale Nord provocandone
così l’inquinamento anche dopo i dragaggi degli anni ’60.
Le affermazioni dei due consulenti non sono state smentite
da nessuno in sede processuale e vanificano anche questa doglianza del P.M.
Gli appellanti insistono comunque nel sostenere che il
massimo della contaminazione è stato raggiunto con le lavorazioni della seconda
zona industriale e, quindi, del Petrolchimico e ricordano che: “le barene
campionate a S.Erasmo e Fusina, così come presentate dal Consulente Tecnico di
EniChem dr.Frignani (sigla M1 e M2) hanno la concentrazione massima della
asserita – dalla difesa – impronta della prima zona industriale in strati che
loro stessi dicono corrispondere agli anni ’60-’80 e questo vuole dire che
erano emissioni di quegli anni (quindi lavorazioni prodotte dalla seconda zona
industriale), che possono essere arrivate là solo attraverso l’atmosfera. Non
esiste infatti nessuna possibilità che rifiuti solidi, come quelli che
sarebbero stati prodotti (con quell’impronta) prima del 1940, si siano potuti
ridistribuire sulle barene a quella distanza!” (motivi P.M. pag.1287).
Anche a questo rilievo si può replicare, come è stato fatto
per il precedente, evidenziando che le attività inquinanti della prima zona
industriale continuarono fin oltre gli anni ’70 per cui la presenza di alte
concentrazioni di inquinanti in strati corrispondenti agli anni ’60 – ’80
risulta perfettamente compatibile con la tesi della provenienza dalle industrie
della prima zona industriale.
A ciò si deve aggiungere che, come ha evidenziato la difesa
degli imputati in varie memorie, i consulenti Frignani e Bellucci avevano
analizzato anche i sedimenti di barena e dalle cronologie era emerso con
chiarezza come l’inquinamento da metalli e da inquinanti organici precedeva
l’inizio delle attività del Petrolchimico e che i massimi di contaminazione
risalivano agli anni ’50 – ’60 e non agli anni ’60 – ’80 come sostenuto
dall’accusa (Cfr. doc. 0 allegato alla memoria Colombo-Bellucci).
La circostanza di cui sopra è confermata anche dal Programma
2023 – Linea C nell’ambito del quale erano state studiate due barene (M3 ed M4)
che integrano le informazioni ottenute dalle barene M1 e M2 (studiate da
Frignani); anche le cronologie dei sedimenti di queste barene rivelano
nuovamente che i valori massimi di Diossine e Furani sono stati raggiunti negli
anni ’50 – ’60 e le massime concentrazioni di Idrocarburi Policiclici Aromatici
(IPA) risalgono agli anni ’60. In questi stessi siti le concentrazioni di
contaminanti nei livelli più superficiali e, quindi, più recenti del sedimento,
sono invece prossime ai valori di fondo.
A questo punto il P.M. ripropone nei motivi d’appello
l’argomento dell’ “impronta delle diossine”, ampiamente discusso anche nel
corso del giudizio di primo grado.
Bisogna premettere che la famiglia delle diossine e dei
furani (PCDD e PCDF) è composta da 210 “congeneri”; di questi usualmente
vengono analizzati i diciassette “congeneri” dalla tossicità più elevata;
questi 17 “congeneri” possono essere riuniti per “grado di clorurazione” in
base agli atomi di cloro presenti nella molecola e così, con questa ulteriore
operazione, i “congeneri” vengono ridotti da 17 a dieci “omologhi” e cioè:
tetra-, penta-, esa-, epta- e octa- diossine; e tetra-, penta-, esa-, epta-, e
octa-furani.
Quando varia il processo produttivo che genera le diossine e
i furani varia in qualche misura anche la proporzione fra i dieci gruppi di
PCDD\PCDF sopra elencati.
In buona sostanza è possibile individuare una “impronta” ( o
“profilo”) delle PCDD\PCDF e associarlo ad un determinato processo chimico.
Esistono studi che indagano i “profili” delle PCDD\F e che
cercano di associare un tipo di “impronta” a tipi di produzione.
Di conseguenza trovando in un campione di sedimento
contaminato un “profilo” (o “impronta”) simile ad uno dei “profili” noti è
possibile associare quella contaminazione al processo produttivo in grado di
determinarla anche se in maniera non scientificamente certa.
Il Tribunale, dopo aver preso in esame lo studio del
confronto delle impronte della contaminazione da PCDD\F su campioni prelevati
in diverse zone della laguna e nei canali della prima e della seconda zona
industriale effettuato dal consulente della difesa prof. Vighi, aveva ritenuto
la sussistenza di una sostanziale differenza tra le caratteristiche del
sedimento della prima zona industriale ( in particolare canale Brentella e
canale industriale Nord) e quelle dei campioni prelevati nel canale
Lusore-Brentelle ove pacificamente il Petrolchimico effettuava i suoi scarichi
prima della regolarizzazione.
Tale evidente differenza rendeva altresì palese che le due
aree erano soggette a fonti diverse di contaminazione da PCDD\F.
Il P.M. contesta le conclusioni del primo giudice
evidenziando che “il ciclo di lavorazione DCE-PVC-CVM produce non uno solo, ma
almeno due (se non di più) diversi tipi di impronta”.
Non si può parlare, secondo l’appellante, di impronte
relative alla prima zona industriale diverse da quelle della seconda zona
industriale in quanto la diversità delle impronte è provocata anche da diverse
modalità di produzione.
A sostegno di tale affermazione il P.M. ha evidenziato che
facendo la media delle impronte dei fanghi prelevati da ARPAV, Enichem e Chelab
dai pozzetti fognari interni al Petrolchimico si ottiene un’impronta sovrapponibile
a quella dei “fanghi rossi” presenti all’esterno dell’impianto.
A parte ogni considerazione circa la provenienza dei “fanghi
rossi” che, come si vedrà in seguito, risultano reflui di produzioni diverse da
quelle del Petrolchimico, è lecito dubitare della validità scientifica della
operazione consistita nel mediare le impronte dei fanghi dei pozzetti.
Si è già detto dei dubbi scientifici che si nutrono sulla
validità del procedimento con il quale si giunge a determinare i “profili” di
congenere; ovviamente tali dubbi aumentano quando addirittura si pretende di
ricavare delle “medie” dai profili stessi.
Resta da ricordare che l’esame di due carote di sedimento
prelevate nel canale Lusore-Brentelle, (le carote C9 e C11) ove il
Petrolchimico aveva sempre scaricato in precedenza i suoi reflui, ha permesso
al consulente della difesa prof. Vighi di dimostrare che l’impronta di PCDD\F
nei sedimenti (completamente diversa dall’impronta “media” indicata dal P.M.)
si è mantenuta sostanzialmente costante nel tempo. Ciò esclude che nel ciclo
produttivo dello stabilimento si siano verificati nel tempo cambiamenti tali da
modificare in modo sensibile le caratteristiche delle emissioni la cui impronta
risulta diversa, anche per il passato, da quella della prima zona industriale.
3.8.2
Peci
clorurate (prodotte da vari impianti), fanghi rossi e pirite, come supposte
fonti della contaminazione da diossine.
La sentenza di primo
grado, dopo aver esaminato la questione dei rapporti fra la prima e la seconda
zona industriale, è giunta alla conclusione che per almeno cinquanta anni ( a
partire dagli anni ’20 e fino a tutti gli anni ’70) le industrie insediate
nella prima zona industriale avevano scaricato tutti i rifiuti liquidi nelle
acque dei canali industriali stante l’assenza di norme relative alla tutela
dell’ambiente; i rifiuti solidi provenienti dalle stesse industrie erano stati
invece utilizzati per innalzare il terreno ove poi sarebbe sorta la seconda
zona industriale.
Queste circostanze di fatto fornivano una spiegazione logica
ad un’altra importante circostanza emersa nel corso dell’istruttoria
dibattimentale e cioè che la contaminazione dei canali decresce costantemente
man mano che ci si allontana dai canali della prima zona industriale (canale
Brentella e canale industriale Nord) per arrivare a quelli della seconda zona
industriale (canale Ovest, canale Malamocco-Marghera, canale Sud) per finire ai
bassi fondali situati a sud del Petrolchimico.
La conclusione logica era, secondo i primi giudici, che le
sorgenti della contaminazione dei sedimenti dei canali dovevano individuarsi
nella prima zona industriale dato che proprio nei canali di tale zona si erano
riscontrati i valori massimi di tutte le sostanze che contaminano i sedimenti e
cioè diossine, Bifenili Policlorurati (PCB), Idrocarburi Policiclici Aromatici
(IPA) e metalli pesanti.
In conclusione la contaminazione dei sedimenti non poteva
essere imputata al Petrolchimico, né per quella riscontrata nei canali della
prima zona industriale ove non aveva scarichi, né per quella (molto bassa)
riscontrata nei canali confinanti lo stesso insediamento industriale perché
provocata per la massima parte dai rifiuti solidi delle industrie della prima
zona industriale utilizzati per imbonire il terreno e soggetti a evidenti fenomeni
di erosione da parte delle acque dei canali stessi.
Il P.M. non condivide questa conclusione e nei motivi
d’appello ripropone la questione delle peci clorurate già posta in primo grado.
Secondo le risultanze processuali nel Petrolchimico il
reparto di produzione del dicloroetano (DL2) aveva come residui della
lavorazione peci clorurate per un quantitativo di circa 300 ton\mese.
Secondo il Tribunale tutte le peci venivano trattate
nell’impianto CS28; in realtà quest’ultimo impianto bruciava soltanto le peci
liquide, mentre le peci solide venivano stoccate in serbatoi riscaldati
(Kettle), trasferite in fusti e poi smaltite al di fuori dello stabilimento in
alcune discariche.
Dato il rilevante quantitativo di peci da smaltire non si
poteva escludere che parte di tale rifiuto fosse stato scaricato, per mezzo di
bettoline e camion, nei canali della prima zona industriale; l’ipotesi
formulata dal P.M. trovava supporto in un documento del Magistrato alle Acque
(Biotecnica, 1996) che confermava tale possibilità.
Alla obiezione formulata dalla difesa che aveva evidenziato
come in nessun luogo della prima zona industriale si era riscontrata
l’associazione tra diossina e clorurati (come sarebbe stato logico attendersi
se veramente fossero state scaricate peci clorurate), ma solo associazione tra
diossina e metalli pesanti, il P.M. aveva replicato facendo presente che le
peci, durante la fase di riscaldamento perdevano per evaporazione i clorurati
ed era quindi possibile trovare diossine senza i clorurati.
Il Tribunale aveva comunque rilevato che l’ipotesi formulata
dal P.M. di un trasporto di peci a mezzo autobotti nei canali della prima zona
industriale era rimasta una semplice congettura non suffragata dal più labile
indizio.
La tesi accusatoria viene ora riproposta dal P.G. il quale
sostiene che lo scarico di peci clorurate mediante autobotti rappresenta una
realtà operativa pienamente in atto ancora nel 1978 ed anche in epoche
successive; la prova di ciò è rappresentata addirittura da un documento
Montedison e cioè da una scheda datata 28\3\1978 del manuale operativo del
reparto CV11 relativa alle “operazioni sulla rampa di carico peci su
autobotti”.
La difesa ha replicato producendo la relazione tecnica del
25\6\75 allegata alla commessa 1514 concernente la rampa di carico sopra citata
e da tale relazione si rileva che: “Il reparto CV11 produce circa 10
tonnellate\die di sottoprodotti altobollenti che devono essere trasferiti al
reparto CS28 per essere distrutti……Il trasferimento dal reparto CV11 al reparto
CS28 di questo prodotto viene fatto a mezzo autobotti”.
Ad avviso di questo Collegio non sembra proprio che il
documento indicato dal P.G. provi la circostanza che le peci venivano scaricate
nei canali industriali; ma solamente che venivano caricate su autobotti per
essere portate alla distruzione nel reparto CS28, o per essere depositate nelle
discariche esterne di Dogaletto e Moranzani (dove in effetti sono stati
individuati i solventi clorurati che caratterizzano le peci in questione).
Continua invece a mancare qualsiasi prova che le autobotti
scaricassero le peci nei canali della laguna.
L’appellante contesta poi l’affermazione fatta dal primo
giudice che i c.d. “fanghi rossi”, affioranti lungo le sponde dei canali della
seconda zona industriale, derivino dalle lavorazioni della prima zona
industriale e non da quelle del Petrolchimico.
Il primo giudice aveva infatti affermato che: “le elevate
concentrazioni di alluminio e di arsenico nei campioni di fanghi rossi
consentono di associare i campioni di tale rifiuto alle tipologie produttive
che li hanno originati: a) cinque di essi, come è evidente, alla lavorazione
della bauxite (tale attribuzione è confortata, naturalmente, da informazioni
bibliografiche, tra le quali, ad esempio, le concentrazioni medie di Al, Cd, e
Cu dei fanghi rossi bauxitici riportate nel Piano Direttore 2000 della Regione
Veneto, citato in precedenza); b) uno di essi, come è altrettanto chiaro, alla
decuprazione delle ceneri di pirite, in tale campione l’arsenico essendo
presente in concentrazioni di tre ordini di grandezza superiori a quello
contenuto negli altri campioni” (Sentenza pag.662).
A queste osservazioni del Tribunale il P.M. replica nei
motivi d’appello rilevando che i valori di alluminio trovati nei campioni
esaminati sono uguali o inferiori ai valori di alluminio di sedimenti non
inquinati dell’Adriatico e non possono ritenersi indicativi di presenza di
bauxite.
Tale rilievo non appare determinante in quanto risulta
scientificamente erroneo paragonare le concentrazioni di alluminio presenti in
sedimenti naturali, come le rocce disciolte nei fondali dell’Adriatico, con
quelle rilevate in rifiuti industriali quali sono i fanghi rossi.
Si deve inoltre ricordare che la provenienza dei fanghi
rossi dalle industrie della prima zona industriale risulta confermata dal dott.
Ferrari, consulente del P.M., che nella relazione del 10\4\2001, riportando i
dati dell’ufficio Escavazione Porti, riferisce: “L’ufficio Escavazione Porti ha
potuto constatare, durante gli scavi eseguiti dai propri mezzi effossori, la
presenza di fanghi rossi non solo sul fondo del passo navigabile del
canale-porto di Lido, ma anche di altri canali lagunari. I rapporti percentuali
di fanghi rispetto al quantitativo totale del materiale di escavo presentavano
i massimi valori nel canale Nord di Marghera (13,3% nel 1947) e di S. Giuliano
(14,0% nel 1951). Tali forti quantità osservate sono da attribuirsi
principalmente ai notevoli scarichi di materiale in detti canali durante il
periodo bellico in seguito alle difficoltà di poter eseguire lo scarico stesso
in mare”.
Ciò conferma che la maggiore quantità di fanghi rossi era
presente proprio nei canali della prima zona industriale quando ancora il
Petrolchimico non era stato costruito.
Infine il P.M. ed il P.G. rilevano che la tipologia
produttiva che utilizzava la bauxite per ottenere l’alluminio attraverso il
processo Haglund non poteva produrre diossine perché in tale processo manca il
cloro.
In realtà, secondo i più accreditati studi in materia, anche
una minima presenza di cloro, quale impurità presente nei reagenti del processo
Haglund, è sufficiente per la formazione di diossina. E’ pacifico che a Porto
Marghera l’industria dell’alluminio ha utilizzato composti clorurati fino agli
anni ’70 (in particolare esacloroetano) nel processo di raffinazione, composti
che determinano la formazione di elevate quantità di diossine (Cfr. Weber e
Hagenmaier, 1997, pag.21).
Solo in epoca successiva agli anni ’70 le industrie
dell’alluminio hanno adottato al posto del processo Haglund il processo Bayer
dal quale non ci si attende la formazione di diossina.
3.8.3
Superamento
dei livelli C e compromissione ambientale della laguna prospiciente Porto
Marghera.
Prima di
affrontare la questione posta dal P.M. in questo paragrafo dei motivi d’appello
bisogna ricordare che in sede di indagini, per valutare lo stato di
inquinamento dei canali e degli specchi lagunari, i consulenti dell’accusa
(Sesana, Micheletti, Muller e Ferrari) avevano prelevato ed analizzato 10
campioni di sedimento in vari punti circostanti il Petrolchimico.
In mancanza
di qualsiasi normativa italiana di riferimento per i sedimenti marini, i
consulenti avevano fatto riferimento ad una classificazione prevista da una
legge Olandese del 1993.
Sulla base
di tali criteri 8 campioni su 10 erano risultati non contaminati, 1 aveva dato
risultati incerti che avrebbero richiesto altre indagini e solo uno era
risultato contaminato, ma si trattava del campione prelevato da un sedimento
profondo del Canale Lusore-Brentelle dove il Petrolchimico non scaricava più da
oltre venti anni.
In
dibattimento, invece, i valori riscontrati nei campioni erano stati confrontati
con i parametri previsti nelle Tabelle allegate al “Protocollo di Intesa per la
Laguna di Venezia” del 1993; in base a tale Protocollo i sedimenti appartenenti
alla tabella A potevano essere utilizzati direttamente in laguna senza alcuna
precauzione, mentre per quelli appartenenti alle tabelle B e C era prescritto
il loro completo e permanente confinamento per evitare il contatto con le acque
lagunari.
I campioni
esaminati dai consulenti erano risultati tutti rientranti nelle tabelle B e C.
Il
Tribunale aveva ritenuto che le tabelle sopra indicate non potevano fornire un
parametro di qualità valido per valutare se vi era stata o meno rottura delle
condizioni di sicurezza per la pubblica incolumità: “…le tabelle B) e C) non
significano pericolo reale. Ed ecco perché, a maggior ragione non esprimono
condizioni di rottura di sicurezza per l’ecosistema. E’ di tutta evidenza che
la scelta di un parametro di valutazione non può essere arbitraria. I limiti
del Protocollo d’Intesa sono stati fissati per la definizione delle
caratteristiche del materiale da utilizzare per interventi in laguna e non per
definire lo stato di salute del sedimento. L’uso del Protocollo di Intesa 1993,
osserva il Collegio, può quindi essere utilizzato al più per esprimere
comparazioni tra lo stato del sedimento di una zona rispetto all’altra. Ed in
questo senso lo si apprezza. Ma non può essere utilizzato come parametro”
(sentenza pag.679).
In sede di
motivi d’appello il P.M. ripropone il “livello C” come parametro di qualità dei
sedimenti senza però indicare particolari argomentazioni a sostegno della sua
tesi e a confutazione della motivazione del Tribunale.
Questo
Collegio ritiene pienamente condivisibili le argomentazioni sul punto del primo
giudice.
Il
Protocollo di Intesa era stato stilato per disciplinare l’escavo dei canali e
dei rii del centro storico di Venezia, la caratterizzazione e l’analisi
chimico-fisica dei fanghi di risulta e le condizioni e le modalità del loro
reimpiego in quelle zone della laguna colpite dal fenomeno dell’erosione.
La
divisione dei sedimenti nelle classi A, B e C era funzionale alla
determinazione dei diversi modi di reimpiego degli stessi all’interno della
laguna ed anche i fanghi che eccedano la classe C potevano essere reimpiegati
per il ripristino altimetrico di aree depresse al di fuori della laguna.
Da ciò è facile dedurre che le tabelle in esame non hanno e
non possono avere la funzione di determinare il livello di soglia di un
pericolo reale perché, se così fosse, si sarebbe prevista l’eliminazione dei
fanghi contaminati in modo pericoloso e non già la riutilizzazione come
materiale da imbonimento.
3.8.4
Dati forniti dal dott. Vighi, C.T. di Enichem, ritenuti
fondamentali dal Tribunale.
In questo paragrafo il P.M. rivolge alcune critiche
metodologiche rispetto alla deposizione e alla relazione del prof. Vighi che
conterrebbero “della carenze rilevantissime che da un punto di vista
scientifico, fanno venir meno ogni valenza della sua tesi assolutoria” (motivi
pag.1292).
Come si è già detto il prof. Vighi ha effettuato il
confronto tra le impronte di diossine e furani (PCDD\F) relative a campioni di
sedimento prelevati dai canali delle due zone industriali. Questo confronto è
stato realizzato mediante l’analisi delle componenti principali (PCA) e cioè un
metodo statistico che consente di mettere in evidenza analogie e differenze tra
oggetti (nel nostro caso campioni di sedimento) caratterizzati da una serie di
valori numerici relativi a diversi parametri (nel nostro caso le concentrazioni
di congeneri di PCDD\F).
Il P.M. si lamenta del fatto che il prof. Vighi non ha
spiegato come ha fatto l’Analisi dei Componenti Principali (PCA) avendo
selezionato ed eliminato dei dati senza indicare quali e con quali criteri
tanto che si era passati da centinaia di campioni (232+216) a pochi campioni
nei canali industriali.
La doglianza dell’appellante non appare fondata.
In primo luogo bisogna ricordare che solo 216 campioni erano
relativi ai canali industriali, mentre gli altri 232 riguardavano altre zone
della laguna per cui, date le specifiche finalità dell’analisi eseguita dal
consulente, lo studio si è concentrato sui campioni dei canali industriali.
Dalla relazione del prof. Vighi depositata il 5\4\2001
risulta che ogni campione è stato analizzato per misurare la concentrazione di
17 diversi congeneri, però non tutti i campioni prelevati permettevano di
misurare tutti i congeneri alcuni dei quali presentavano valori inferiori al
limite di rilevabilità analitica. Se in qualche campione non era stato
possibile misurare un numero significativo di congeneri (6), il campione stesso
doveva ritenersi non significativo.
In buona sostanza è possibile classificare una serie di
oggetti (campioni di sedimento) sulla base di 17 caratteristiche prestabilite
(congeneri), ma se in alcuni oggetti non sono rilevabili oltre un terzo delle
caratteristiche è meglio escluderli dalla base di calcolo perché la possibilità
di confusione è così elevata che il risultato complessivo della classificazione
rischia di essere invalidato.
Per questo motivo il consulente ha eliminato dalla sua
analisi quei campioni nei quali almeno 6 congeneri su 17 presentavano valori
non misurabili seguendo un metodo scientificamente corretto.
Il P.M. contesta però la scelta fatta dal prof. Vighi di
escludere tutti i campioni caratterizzati da valori inferiori al limite di
rilevabilità analitica definendola “del tutto discutibile, dato che esistono
metodi che permettono di inserire anche tali tipi di campioni” (motivi
pag.1309).
La critica dell’appellante può risultare fondata da un punto
di vista teorico in quanto nella scienza statistica esistono metodi che
consentono l’uso di tali dati ignoti ai quali viene attribuito un valore
ipotetico. Infatti si può attribuire ai dati non quantificabili un valore pari
al limite di rilevabilità, oppure un valore pari a zero o ancora un valore pari
alla metà del limite di rilevabilità.
Si tratta però, come appare evidente, di attribuzioni di
valori arbitrari (ovviamente uguali fra loro) ai campioni esaminati e non
aggiungerà alcun contenuto informativo ai campioni in esame.
Resta quindi condivisibile la scelta fatta dal consulente
Vighi.
L’appellante elenca anche una serie di rilievi di carattere
tecnico al procedimento usato dal consulente della difesa per l’interpretazione
della PCA sulle concentrazioni di PCDD\F nei sedimenti dei canali industriali.
In particolare dice il P.M. “non si spiega quali sono i
congeneri, tra i 17 utilizzati nell’elaborazione, che formano i due assi
(fattori) della PCA, né i loro pesi relativi e quindi è impossibile verificare
la composizione dei fattori. Questo fatto rende impossibile il controllo della
elaborazione fatta dal prof. Vighi, inficiandone il significato” (motivi
pag.1308).
Si è già detto che la PCA è un metodo statistico che
permette di evidenziare analogie e differenze tra oggetti le cui
caratteristiche sono determinate da un certo numero di variabili. Ovviamente
più le variabili sono numerose, più diventa difficile determinare analogie e
differenze, ma con la PCA il problema viene risolto raggruppando l’informazione
contenuta nelle diverse variabili in un numero ridotto di “componenti”; di
norma sono sufficienti due o tre componenti per descrivere una percentuale
sufficientemente alta della totale variabilità degli oggetti.
Le “componenti” che rappresentano il contenuto informativo
racchiuso in ciascuno degli assi non possono quindi essere identificate con
l’uno o con l’altro dei parametri. Lungo ciascun asse è spiegato parte del
contenuto informativo racchiuso nel complesso dei campioni e non è possibile
individuare esattamente quali variabili formino i due assi secondo i quali si
distribuisce la maggior parte della variabilità dei dati. Sono la distribuzione
sul piano e la distanza tra i campioni che permettono di spiegare analogie e
differenze tra di essi.
Il P.M. lamenta anche il fatto che il consulente non avrebbe
evidenziato alcune figure contenute nella sua relazione o che non avrebbe
spiegato il passaggio da una figura ad un’altra, ma si tratta di questioni
meramente formali che avrebbero dovuto e potuto essere rilevate durante il
giudizio di primo grado e che, comunque, non inficiano le conclusioni tratte dal
consulente sulla base dei suoi studi.
L’accertamento del laboratorio M.P.U. di Berlino.
Il P.M., continuando l’opera di critica alla selezione dei
dati di fatto attuata dal Tribunale, passa ad esaminare le questioni
concernenti l’accertamento tecnico effettuato presso il laboratorio MPU di
Berlino.
Si deve preliminarmente ricordare che nel corso
dell’istruttoria dibattimentale erano emersi notevoli contrasti sull’esito
delle analisi fatte dai consulenti del P.M. sulla entità delle sostanze
inquinanti presenti su alcuni campioni di biota prelevati in laguna; in
particolare i risultati riportati nella relazione dei consulenti Sesana,
Michieletti e Muller e nella perizia Bonamin risultavano notevolmente inferiori
ai risultati delle analisi effettuate dal consulente Raccanelli. Il Tribunale
aveva allora sollecitato le parti ad effettuare un nuovo campionamento su biota
prelevato negli stessi punti nei quali aveva effettuato i suoi campionamenti il
consulente Raccanelli e tali campioni erano poi stati analizzati nel
contraddittorio delle parti presso il laboratorio MPU di Berlino.
In conclusione per tutti gli inquinanti di interesse
processuale i dati di Berlino erano risultati notevolmente inferiori a quelli
presentati da Raccanelli.
In questa parte dei motivi d’appello il P.M. contesta la
sentenza di primo grado nel punto in cui mette a confronto i risultati del
laboratorio di Berlino con quelli esposti da Raccanelli valutando questi ultimi
meno attendibili.
Secondo l’appellante il Tribunale non ha tenuto conto di
alcuni elementi di fatto che applicati ai dati da confrontare avrebbero
giustificato le differenze tra le concentrazioni di contaminanti rilevate da
Raccanelli e quelle rilevate a Berlino.
In primo luogo bisogna tener conto della “stagionalità”; le
vongole analizzate da Raccanelli erano state raccolte ad ottobre ed avevano
raggiunto la fase di massimo accumulo annuale, mentre le vongole analizzate a
Berlino erano state raccolte a febbraio ed erano meno grasse perché avevano
esaurito le scorte energetiche durante l’inverno e presentavano quindi un
carico di contaminanti inferiore del 50%. Però il calcolo di un così netto calo
di peso per le vongole si basa (per quanto riferito dallo stesso Raccanelli
nell’udienza dell’8\5\2001) su uno studio condotto su vongole dell’Atlantico
settentrionale dove in inverno la temperatura dell’acqua è molto più bassa di
quella che si può riscontrare nei canali industriali di Porto Marghera. Uno
studio specifico sulle vongole della laguna non è mai stato fatto e quindi quella
di Raccanelli resta una semplice ipotesi non confermata.
Comunque, anche se si volesse accettare in via ipotetica la
tesi sostenuta da Raccanelli, una diminuzione del grasso delle vongole del 50%
avrebbe comportato al massimo una diminuzione del carico inquinante di pari
entità con un dimezzamento dei valori, ma non potrebbe mai giustificare
differenze dell’ordine di quelle rilevate a Berlino ( 28 volte in meno per
l’esaclorobenzene, 37 volte in meno per gli IPA, 40 volte in meno per il
piombo).
A questo punto il P.M. aggiunge un’altra doglianza e cioè
che prima di confrontare i dati delle due analisi occorre “normalizzarli”.
Infatti secondo l’appellante il Tribunale non avrebbe preso
in considerazione quanto esposto dal dott. Raccanelli nell’udienza dell’8\5\2001
su come debba essere “condotto il confronto dei dati, e cioè normalizzandoli
rispetto al contenuto di lipidi per gli organici e al contenuto di sostanza
secca per i metalli, così come suggerito dagli studi e dalle procedure EPA”
(motivi pag.1327); grazie a tale normalizzazione le differenze fra i risultati
di Berlino e quelli di Raccanelli spariscono ed in alcuni casi i risultati di
Berlino risultano superiori.
Appare strano che il consulente Raccanelli proponga la
problematica della “normalizzazione” dei dati solo dopo essere venuto a
conoscenza dei risultati di Berlino; lo stesso consulente nella sua “Relazione
di perizia tecnica” aveva calcolato tutti i valori di concentrazione
riscontrati nell’ittiofauna sempre sulla parte edibile senza effettuare alcuna
“normalizzazione” dei dati e lo stesso metodo aveva seguito nell’effettuare i
confronti tra i valori riscontrati nelle vongole raccolte nei canali
industriali e quelli delle vongole di S.Erasmo. Nell’allegato 1 della sua
Relazione il dott. Raccanelli commenta le notevoli differenze tra le
concentrazioni da lui rilevate nelle vongole e quelle riportate in altre
relazioni degli altri consulenti del P.M. (Turrio Baldassarri, Di Domenico,
Bonamin, Sesana e Muller) ed esegue tutti i confronti tra concentrazioni
espresse sulla parte edibile dei molluschi senza effettuare alcuna
“normalizzazione” relativamente alla parte grassa.
Inoltre è da rilevare che tutti i consulenti delle parti
hanno sempre espresso la concentrazione dei contaminanti facendo riferimento
alla parte edibile senza alcuna “normalizzazione”.
Resta comunque un dato di fatto incontestabile che la
quantità di contaminanti contenuta in 1 grammo di vongole resta sempre la
stessa, qualunque sia il metodo utilizzato per esprimere i valori di
concentrazione.
In realtà ciò che interessa ai fini processuali è accertare
la quantità di contaminante assunta da un eventuale consumatore di vongole;
quindi quando si deve calcolare la esposizione dell’uomo a contaminanti
contenuti negli alimenti è corretto utilizzare le concentrazioni espresse sul
peso fresco della parte edibile dei prodotti ittici.
L’appellante osserva poi che anche prendendo in
considerazione i valori delle concentrazioni risultanti dai dati di Berlino e
confrontandoli con le concentrazioni dei bivalvi cresciuti nel sedimento
superficiale di S.Erasmo (zona antropizzata ma non direttamente influenzata dal
Petrolchimico) emerge in modo chiaro la contaminazione dei molluschi che
crescono nei canali della zona industriale. Infatti la tossicità dovuta a
PCDD\F e a PCB è 13 volte superiore nelle vongole dei canali industriali, la
tossicità dovuta a HCB è 38 volte superiore; per i metalli la contaminazione
dei molluschi che crescono nei canali industriali è 7,8 volte superiore per il
piombo, è 4,4 volte superiore per il cadmio.
Ad avviso di questo Collegio il confronto fatto dal P.M. fra
le vongole che crescono a S.Erasmo e quelle che crescono nei canali industriali
può fornire indicazioni su una migliore qualità del prodotto ittico in base al
luogo in cui viene pescato, ma non è rilevante ai fini della decisione. Una
volta stabilite le concentrazioni di contaminanti rilevate nei molluschi dei
canali industriali si deve accertare se tali concentrazioni siano o meno
anomale; i dati di riferimento sono costituiti esclusivamente dalla
concentrazione massima ammissibile (CL) stabilita dal legislatore e, in
mancanza di Concentrazione Limite, dal giudizio di “normalità” risultante dalla
comparazione tra le concentrazioni rilevate nei bivalvi dei canali industriali
e le concentrazioni rilevate nei diversi mari il cui pescato è ritenuto edibile
e liberamente commerciabile in tutto il mondo.
Prosegue poi il P.M.
prendendo in esame il seguente passo della sentenza: “…gli esperti delle difese
hanno confrontato per tutti gli inquinanti di interesse processuale…..i valori mediani
di concentrazione ottenuti all’esito di tale controllo con i valori mediani
di concentrazione evinti prima di tale sopravvenienza, dalle relazioni degli
esperti dell’accusa, Raccanelli compreso” (Sentenza,pag.804).
Secondo il P.M. il valore “mediano” non dovrebbe mai essere
utilizzato: con esso infatti si eliminerebbe non solo il minimo, ma anche il
massimo, ignorando i soggetti che mangeranno le vongole a concentrazione più elevata;
usare il valore “mediano” vorrebbe dire, nel caso dei dati di Berlino,
eliminare il campione più inquinato pescato nel canale industriale Sud dove si
svolge la maggiore attività di pesca abusiva.
Per spiegare la sua obiezione l’appellante fa l’esempio di
Bhopal: non si può sostenere che a Bhopal nessuno correva pericolo perché in
media in India la popolazione non era esposta a nube tossica, “se a Bhopal
avessero considerato la mediana, non sarebbe di fatto esistita la nube tossica,
essendo la nube solo il valore tossico in un punto dell’India, e pertanto da
eliminare” (Motivi pag.1330-31).
L’obiezione non appare fondata. Il calcolo di valori
rappresentativi di una serie di dati di misura (media aritmetica, media
geometrica, mediana) non elimina i valori estremi, ma si basa sull’intera serie
dei dati per il calcolo. La media aritmetica si calcola dalla somma di tutti i
valori diviso il loro numero, la media geometrica rappresenta la media di tutti
i valori su base logaritmica, la mediana è il valore intermedio della
distribuzione dei singoli valori.
La media geometrica e la mediana sono parametri
sufficientemente solidi da non essere alterati troppo da valori non
rappresentativi della serie di dati considerata.
La mediana è considerata in statistica particolarmente
adatta in quei casi in cui la serie dei valori non segue una distribuzione
normale, ma è caratterizzata da variabilità molto ampia o presenta valori estremi che si discostano
molto dalla maggioranza degli altri valori.
E’ evidente che un unico valore anormale non può essere
considerato rappresentativo della distribuzione; la mediana non esclude questo
valore dall’analisi, ma gli attribuisce un peso adeguato alla sua
rappresentatività nell’ambito della serie di dati in esame.
In realtà qualunque valutazione di esposizione deve essere
effettuata sui valori medi dei potenziali contaminanti, non sui valori massimi
che non sono certo rappresentativi della reale situazione, ma soltanto di una
situazione estrema.
Risulta quindi corretto il ricorso ai valori mediani per il
confronto delle concentrazioni degli inquinanti.
Appare fuori luogo il richiamo fatto dal P.M. al caso di
Bhopal per sostenere che il valore “mediano” non dovrebbe mai essere
utilizzato. Nel nostro caso quando si parla di mediana ci si riferisce alla
media delle concentrazioni nei canali industriali di Marghera, non a quella del
mar Mediterraneo o dell’Italia in generale. Le medie, quando vengono utilizzate
si riferiscono ad un sistema ben circoscritto all’interno del quale l’esposizione
a sostanze potenzialmente pericolose è soggetta ad una certa variabilità.
L’appellante afferma poi che: “…anche con i campioni di
Berlino (prelevati alla fine della stagione invernale durante la quale i
bivalvi avevano consumato grassi ed espulso gli inquinanti) ad un giovane di 40
Kg: bastano 24 grammi edibili per superare la DGA prevista dal WHO a causa
della concentrazione di PCDD\F e PCB.” (motivi pag.1331).
Tale affermazione non è però confermata dai dati
processuali; infatti nei campioni di vongole esaminati presso il laboratorio di
Berlino la concentrazione media di diossine è risultata pari a 0,48 pg\g,
mentre quella dei PCB a 0,42 pg WHO-TEQ\g. La somma dei due valori porta ad una
concentrazione di 0,9 pg WHO-TEQ\g. La Dose Giornaliera Accettabile (DGA)
indicata dal WHO è di 1 –4 pg WHO-TEQ\Kg peso corporeo\die. Ciò significa che
per un ragazzo di 40 Kg di peso la DGA è di 40 –160 pg WHO-TEQ giorno e per
raggiungere tale valore lo stesso ragazzo preso in esame dal P.M. dovrebbe
assumere giornalmente per lunghi periodi
44,5 –180 grammi di vongole (parte edibile).
In fine il P.M. sostiene che le medie statistiche non
servirebbero a nulla quando si tratta di individuare il “forte consumatore”:
con esse infatti sarebbero trascurati i soggetti che consumano il pescato
abusivo dei canali industriali e che non rientrano nelle statistiche.
In vero il concetto di “forte consumatore” utilizzato dai
consulenti della difesa e accolto dal Tribunale è quello emerso da un’indagine
(COSES) che, come si vedrà in seguito, ha rilevato direttamente i consumi di
prodotti ittici, interpellando un campione significativo della popolazione di
Venezia ed elaborando i dati ottenuti per individuare il “consumatore medio” ed
il “forte consumatore”. Si tratta del metodo più attendibile per rilevare la
fascia di popolazione che ha un forte consumo di prodotti ittici e si tratta di
un metodo che, basandosi su dati rilevati sulla popolazione oggetto di studio,
presenta anche il pregio di non trascurare nessuna tipologia di consumatori.
Inoltre bisogna tener presente che nella stima dell’assunzione di contaminanti
da parte dell’uomo, gli esperti della difesa hanno sempre ipotizzato (in via
cautelativa) una situazione in cui ai “forti consumatori” di Venezia si
attribuiva un consumo costante per tutta la vita di vongole provenienti
esclusivamente dai canali industriali di Porto Marghera (v. relazioni dott.
Pompa del 18\4\2001 e dell’8\5\2001).
Non si può quindi fondatamente sostenere che nel presente
procedimento non si sia tenuto conto dei “forti consumatori” del pescato abusivo dei canali industriali.
CAPITOLO 3.9 APPELLO P.M.
3.9.1
TRASFERIMENTO
ORIZZONTALE DI INQUINAMENTO VERSO LA LAGUNA E CONTAMINAZIONE DELLA ( e DALLA)
FALDA SOTTOSTANTE IL PETROLCHIMICO E DEI SUOLI.
In questo paragrafo il P.M. cerca di dimostrare
l’infondatezza dell’affermazione contenuta nella sentenza impugnata per cui il
trasferimento di acque dal sottosuolo del Petrolchimico ai canali della laguna
sarebbe irrilevante ai fini dell’inquinamento delle acque degli stessi canali.
L’appellante parte dalla constatazione fatta dal Tribunale
per cui “da tutta l’area del Petrolchimico deriva un apporto per moto di
trasferimento orizzontale dalla prima falda di quattro litri al
secondo”.(Sent.pag.533).
Premesso che il dato sopra indicato di 4 litri al secondo,
espresso in tale unità temporale, tende ad essere percepito come molto piccolo,
ma che in realtà equivale e 345.600 litri\giorno e a più di 126 milioni di
litri\anno, l’appellante passa ad esaminare le misure della concentrazione di
diossine nelle acque sottostanti il Petrolchimico, effettuate a cura
dell’ENICHEM in relazione al disposto del DM 471\99 sulle bonifiche.
Il P.M. ricorda che nell’ambito degli accertamenti fatti
dall’ENICHEM entro l’anno 2000 sulle acque sottostanti il Petrolchimico in
ottemperanza a quanto disposto dal DM 471\99 erano stati raccolti 55 campioni.
Rispetto al totale dei campioni solo per 6 era stata effettuata anche l’analisi
delle diossine. In tutti questi 6 campioni diossine e composti simili erano
stati rilevati in valori misurabili; in particolare tre campioni avevano
presentato valori superiori al limite fissato dal DM 471\99 in 4 pg\l (campione
001700, 634 pg\l- TE\I; campione 001638, 26,2 pg\l – TE\I; campione 00126, 4,60
pg\l – TE\I).
Il primo di tali campioni presentava quindi un livello
estremamente elevato di diossine ed inoltre aveva evidenziato anche la presenza
di diossina 2,3,7,8 – TCDD a livello elevato (10,6 pg 2,3,7,8 – TCDD\I).
Considerato che con un campionamento numericamente molto
limitato (6 campioni) erano stati rinvenuti due casi di contaminazione
particolarmente alta si doveva dedurre che livelli simili non potessero essere
considerati un evento sporadico e raro.
Fra tutti i 6 campioni in questione l’intervallo dei valori
misurati è compreso fra un minimo di 2.31 pg\l (I-TE) e un massimo di 634 pg\l
(I-TE) e, conseguentemente, la media è di circa 112 pg\l (I-TE).
Quindi partendo dall’ipotesi di una contaminazione media
dell’acqua di falda di circa 112 pg\l (I-TE) e di un rilascio di 4
litri\secondo di questa acqua verso i canali, ovvero di 126 milioni di
litri\anno, il quantitativo di diossine (I-TE) potenzialmente trasportate
annualmente verso i canali risulta dell’ordine di circa 14 miliardi di pg
(I-TE)\anno (circa 14 mg (I-TE)\anno).
Si osserva che “un solo milligrammo I-TE può contaminare
ogni anno ad un livello pari a 10 volte quello di fondo un quantitativo di
sedimento pari a 100 tonnellate, certamente non trascurabile. Date le
caratteristiche di elevatissima persistenza ambientale delle sostanze in esame,
l’impatto di più anni successivi si somma portando ad un progressivo aumento
delle concentrazioni nei sedimenti. Vale la pena di sottolineare che 1 mg I-TE
di diossine corrisponde ad un valore 14 volte inferiore rispetto a quello che
sarebbe immesso in laguna nell’arco di un anno con un trasporto di 4 litri\secondo
di acque contaminate al valore medio di quelli misurati a cura dell’ENICHEM.”
(motivi pag.1346).
In conclusione il trasferimento orizzontale di inquinamento
dalla falda sottostante il Petrolchimico alla laguna non può essere considerato
trascurabile (come ha fatto il primo giudice), ma considerevole e prevedibile.
Indubbiamente le considerazioni fatte dal P.M. possono
apparire convincenti e fondate, ma risultano basate su dati di fatto non
corretti.
Esaminando la tabella allegata al database informatico
EniChem S.p.a. – Stabilimento di Porto Marghera – Banca dati idrogeologica e
qualitativa, realizzato da Aquater S.p.a. il 31\5\2000, si rileva che i due
campioni citati dal P.M. con i valori di diossine più alti (campione 001700,
634 pg\l e campione 001638, 26,2 pg\l) corrispondono rispettivamente al
piezometro N4387 ed N3671 che sono piezometri superficiali e pescano nell’acqua
del terreno di riporto.
Come si è già detto in precedenza, l’acqua del terreno di
riporto non costituisce una falda dotata di moto proprio, ma è acqua stagnante
di impregnazione. Di conseguenza non può apportare alcunché in laguna e
pertanto la presenza si diossine in quest’acqua (ampiamente prevedibile
trattandosi di liquido che impregna una massa di rifiuti) non rappresenta in
nessun modo un rischio diretto nei confronti della laguna.
Poiché le acque di impregnazione non hanno la possibilità di
muoversi in senso orizzontale verso la laguna essendo acque stagnati, bisogna
chiedersi se per le stesse sia possibile un trasferimento verticale verso le
acque della falda sottostante che invece sversa in laguna 4 litri al secondo.
Una risposta a questa domanda ci viene fornita dalla stessa
tabella sopra citata.
I piezometri N4458 e N4387 sono situati praticamente nello
stesso punto dello stabilimento, ma N4387 pesca nelle acque di riporto, mentre
N4458 pesca in quelle di prima falda; il primo ha la concentrazione più elevata
indicata dal P.M. (634 pg\l), mentre il secondo ha una concentrazione pari a
3,6 pg\l addirittura più bassa del limite di 4 pg\l stabilito dal DM 471\99.
Si può quindi affermare che il trasferimento verticale fra
acque di impregnazione e acque di prima falda è limitatissimo.
Detto questo e preso atto che solo le acque di prima falda
possono apportare sostanze alla laguna si deve passare ad esaminare i risultati
dei piezometri che effettivamente pescano in prima falda.
Tre di tali piezometri presentano valori inferiori al limite
di 4 pg\l (N2834: 2,31 pg\l; N3460: 2,89 pg\l; N4458: 3,68 pg\l), il quarto
invece (N2894 situato a oltre 200 metri dalla Darsena della Rana) presenta un
valore di 4,6 pg\l di poco superiore al limite.
In base ai valori effettivi riscontrati nelle acque della
prima falda si deve concludere che il valore medio non è di 112 pg\l come
calcolato dal P.M., ma di 3,37 pg\l che è ovviamente inferiore al limite di 4
pg\l fissato dal DM 471\99.
Quindi con una contaminazione media dell’acqua di falda di
circa 3,37 pg\l ed un rilascio di 4 litri\secondo di questa acqua verso i
canali, il quantitativo di diossine potenzialmente trasportato nel corso di un
anno verso i canali risulterebbe dell’ordine di circa 0,42 mg\l per anno e non
già di 14 mg\l per anno come calcolato dal P.M.
Ma in realtà neanche il dato di 0,42 mg\l per anno può
ritenersi corretto in quanto non tiene conto del noto fenomeno del “ritardo” in
base al quale la diossina si muove più lentamente rispetto alla velocità della
falda (già di per sé molto bassa).
Il fenomeno del “ritardo” è dovuto al fatto che le diossine
hanno una scarsissima idrosolubilità ed una affinità molto elevata per il
carbonio organico contenuto nel suolo. Quindi quando l’acqua di falda
contaminata dalla diossina avanza verso la laguna ed incontra porzioni di
terreno senza diossina o con concentrazioni molto più basse, la diossina
presente nella falda tende ad aderire al terreno.
Quindi, tenuto conto dei modesti valori di diossina
riscontrati nelle acque della falda, dei bassi valori di velocità e portata
delle falde (già valutati ed accertati in precedenza) e dei diversi processi di
assorbimento e dispersione a cui la diossina è soggetta nel percorso tra falda
e laguna, si deve convenire con il Tribunale che l’apporto di contaminanti in
laguna da parte della falda sottostante il Petrolchimico è veramente
insignificante e comunque non rilevante al fine di provare la sussistenza dei
reati di disastro, avvelenamento e adulterazione oggetto del presente
procedimento.
3.9.2
I parametri di rischio disponibili per le diossine e
composti simili (PCDD, PCDF e PCB “dioxin – like”).
In questo paragrafo il P.M. prende in esame la questione dei
“limiti soglia” cioè di quei limiti fissati dalle organizzazioni
internazionali, con criteri precauzionali, per definire i valori di dose
giornaliera tollerabili di presenza di diossine e composti simili nelle
sostanze alimentari.
L’appellante lamenta il fatto che la sentenza, adeguandosi
alle argomentazioni dei consulenti delle difese, avrebbe fatto costante
riferimento ai valori indicati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS)
trascurando invece il contenuto del documento del Comitato Scientifico della
Commissione Europea per la protezione degli alimenti (SCF).
Occorre ricordare che l’ OMS aveva fissato un valore di dose
giornaliera tollerabile per le diossine e composti simili (TDI) presenti negli
alimenti pari a 1 – 4 pg WHO-TEQ\Kg peso corporeo\die.
Invece l’SCF aveva indicato nel 2000 un TDI inferiore pari a
1 pg WHO-TEQ\Kg peso corporeo\die, parametro in vigore per tutto il
dibattimento di primo grado.
In fatto la doglianza del P.M. non risulta fondata. Nel
corso dell’istruttoria dibattimentale tutti i consulenti (tanto della difesa
che della Pubblica Accusa) e, di conseguenza, il Tribunale nella sentenza,
hanno sempre fatto riferimento al valore più basso fra quelli indicati dall’OMS
e cioè 1 pg WHO-TEQ\Kg peso corporeo\giorno corrispondente esattamente a quello
indicato dall’SCF.
A riprova di ciò basterà esaminare le tabelle contenute
nelle pagine 879 e 946 della sentenza ove vengono presi in considerazione sia
l’estremo inferiore che quello superiore dell’intervallo 1-4 pg\g indicato
dall’OMS ed il margine di sicurezza viene calcolato rispetto al dato minimo di
TDI.
Il P.M. rileva poi che dopo la chiusura del dibattimento, e
precisamente nel 2001, l’SCF aveva aumentato il TDI a 2 pg WHO-TEQ\kg peso
corporeo\die sottolineando che, considerate le assunzioni medie di diossine e
PCB dioxin-like attraverso la dieta, nei paesi europei di 1,2 – 3,0 pg
WHO-TEQ\Kg p.c.\die, una percentuale considerevole della popolazione europea
dovrebbe superare il TDI indicato dal Comitato.
Quindi, secondo l’appellante, i valori di riferimento del
Comitato sarebbero già superati per l’inquinamento di fondo per una parte di
rilievo della popolazione con la conseguenza che ogni esposizione che vada ad
aggiungersi a quella di fondo deve essere considerata alla luce
dell’affermazione che quest’ultima è già critica. In altre parole sarebbe
sufficiente una minima esposizione aggiuntiva per superare il valore di TDI
stabilito da SCF.
A questa obiezione si può replicare facendo presente che nel
caso in esame manca qualsiasi termine di raffronto e cioè l’indicazione
dell’esposizione di fondo dei consumatori veneziani. Per valutare il rapporto
tra esposizione di fondo ed esposizioni aggiuntive il dato essenziale di partenza
è costituito dalla stima di carico totale di diossine e di composti
diossino-simili negli abitanti della laguna. Non esistono studi che riportino
tali stime e non vi sono elementi per ipotizzare che i veneziani abbiano un
carico totale di diossine più elevato di quello di persone residenti in altre
aree.
Bisogna inoltre evidenziare che la componente alimentare
ittica viene assunta dall’appellante come aggiuntiva rispetto al carico totale
derivante dall’esposizione conseguente alla componente alimentare di fonte
diversa. In realtà se la dieta alimentare degli abitanti della laguna fosse
costituita esclusivamente dai pesci e dai molluschi contaminati, dovremmo
togliere dal carico totale di diossine quello relativo ad alimenti di altra
natura.
Il Tribunale ha tenuto conto di tutto ciò valutando
l’assunzione complessiva di diossine da tutti gli alimenti comprendendo un
consumo medio di prodotti ittici pari a 30 grammi\die ed il risultato è stato
tranquillizzante (Vedi tabella a pag.890 della sentenza).
Il P.M. sostiene poi che non è corretto parlare, come fa la
sentenza a pag. 799, di distanze di ordini di grandezza tra la dose di
assunzione di sostanze tossiche e la dose di assunzione che non ha provocato
effetti tossici in sede sperimentale sull’animale e, a maggior ragione,
nell’uomo. Gli studi effettuati dal Comitato Scientifico Europeo su animali
sperimentali avevano evidenziato che il TDI di 2 pg WHO-TEQ\Kg p.c.\die era
inferiore da 10 a 25 volte rispetto a dosi per le quali era ritenuto possibile
un effetto avverso sull’uomo e inferiore di un fattore 5 rispetto alla dose
stimata priva di effetti.In realtà gli studi a cui fanno riferimento il
Comitato Scientifico Europeo ed il P.M. non riguardano l’uomo, ma il ratto (è
lo stesso P.M. a precisarlo a pag.1358 dei motivi), mentre gli studi eseguiti
sull’uomo confermano che le distanze che separano le classi di dosi che hanno
provocato effetti tossici nell’uomo e quelle alle quali sono esposti i
residenti della laguna sono distanti diversi ordini di grandezza (v. Greene,
Hays, Paustenbach (2003), Basis for a proposed reference dose (RfD) for dioxin
of 1-10 pg\Kg-day:a weight of evidence evaluation of the human and animal
studies,in J. Toxicol. Environ.
Health B. Crit. Rev., 6:115-59).
L’appellante, infine, critica il Tribunale che, pur avendo
citato più volte l’U.S. Environmental Protection Agency (US.EPA) come ente di
grande rilievo tra le agenzie di credito indiscusso, ha invece completamente
ignorato le stime di rischio dello stesso ente per le diossine e composti
simili.
Ricorda il P.M. che l’US EPA
in uno studio del settembre 2000 (“Exposure and human health reassessment of
2,3,7,8 – Tetrachlorodibenzo-p-dioxin and related compounds – Part. II,
Preliminary Draft”) stima un incremento di rischio cancerogeno dell’ordine di 1
su 1000 per un’esposizione aggiuntiva di 1 pg WHO-TEQ\Kg peso corporeo\giorno
)in termini di PCDD, PCDF e PCB), ma queste valutazioni di rischio non sono mai
state riportate nella motivazione della sentenza.
Rileva questo Collegio che quelle dell’EPA sono semplici
stime di rischio basate su modelli matematici e non su effetti osservati ed è
per questo motivo che il Tribunale si è basato solo sugli effetti osservati
(unico indice possibile di pericolo reale) e sui valori di TDI fissati dalle Agenzie
nazionali e internazionali che disciplinano il rischio alimentare.
3.9.3
L’esposizione di fondo e il contributo dei PCB
“Diossina-simili” (Dioxin-like) alla tossicità equivalente.
Secondo gli appellanti la sentenza impugnata, al fine di
giungere ad una corretta stima del rischio derivante dal consumo
dell’ittiofauna per cui è processo, non avrebbe tenuto conto, in modo
scientificamente appropriato, del contributo in termini di tossicità
equivalente dei PCB dioxin-like.
Il P.M. ricorda come l’OMS, il Comitato Scientifico dell’EU
e anche l’EPA abbiano più volte sottolineato la necessità di considerare
congiuntamente diossine (PCDD, PCDF) e PCB (simili alla diossina); infatti se
non si considerasse il contributo dei PCB dioxin-like si otterrebbe una grave
sottostima del rischio per l’esposizione umana.
Il Comitato Scientifico Europeo ha stimato i livelli medi di
fondo per l’esposizione degli adulti europei attraverso la dieta nella seguente
misura: per diossine PCDD e PCDF (quindi senza PCB) compresi tra 0,4 e 1,5 pg
I-TE\Kg p.c.\die; per i soli PCB compresi fra 0,8 e 1,5 pg WHO-TEQ\Kg p.c.\die.
Sommando i due dati la stima dell’esposizione globale degli
adulti europei attraverso la dieta a PCDD, PCDF e PCB dioxin-like è, secondo lo
stesso Comitato Scientifico Europeo, pari a 1,2 – 3,0 pg WHO-TEQ\Kg
p.c.\giorno.
La considerazione del contributo dei PCB dioxin-like in
Europa comporterebbe dunque un incremento delle concentrazioni
tossicologicamente equivalenti di un fattore tra 2 e 3 rispetto alla
valutazione basata solo sulle diossine.
Anche per l’EPA la considerazione del contributo dei PCB
dioxin-like comporterebbe un incremento delle concentrazioni tossicologicamente
equivalenti di un fattore sino a 2, rispetto alla valutazione basata solo su
diossine (PCDD e PCDF).
Vi è poi uno studio dell’Istituto Superiore di Sanità per la
Regione Veneto (“Studio sulla detossificazione di microinquinanti persistenti”
del 1999) per il quale la considerazione del contributo dei PCB dioxin-like
comporta un incremento delle concentrazioni tossicologicamente equivalenti nei
bivalvi della laguna di Venezia di un fattore di circa 1,6 rispetto alla
valutazione basata solo su PCDD e PCDF.
Secondo il P.M. si può quindi affermare che l’uso di un
fattore correttivo 1,6 da applicare ai dati di concentrazione di PCDD e PCDF
può ragionevolmente evitare una sottostima dell’esposizione complessiva e del
rischio correlato.
Fatte queste premesse, l’appellante ricorda che
correttamente il suo consulente dott. Zapponi, nella relazione dal titolo: “Valutazione
del rischio della 2,3,7,8-tetraclorodibenzodiossina e composti assimilabili in
relazione ai dati della laguna di Venezia”, aveva fatto uso di un fattore di
correzione 1,5 da applicare ai dati di concentrazione relativi alle sole
diossine per tener conto del contributo dei PCB dioxin-like.
Sbaglia quindi il Tribunale quando a pag.906 della sentenza
definisce come errore esiziale dell’esperto dell’accusa Zapponi l’uso di un
fattore di correzione 1,5 per definire la stima della concentrazione equivalente
complessiva di PCDD, PCDF e PCB espressa in WHO-TEQ.
Rileva questo Collegio che l’errore evidenziato dal
Tribunale non riguarda il modo di determinare il fattore di correzione seguito
dal consulente Zapponi sull’esempio delle più accreditate agenzie nazionali ed
internazionali, ma il fatto che il consulente abbia preteso di calcolare i PCB
mediante un fattore di conversione generale applicabile a tutti i molluschi su
campioni per i quali non era stata effettuata alcuna indagine, trascurando al
contempo i dati reali raccolti su altri campioni nei quali erano stati
ricercati anche i PCB. Leggendo la sentenza impugnata risulta in modo certo che
il Tribunale ha sempre considerato l’apporto congiunto della contaminazione
derivante dalle diossine con quella dovuta ai PCB dioxin-like giungendo alla
conclusione dell’esistenza di un ampio margine di sicurezza per l’eventuale
consumatore delle vongole dei canali industriali.
Il Tribunale, per giungere alle conclusioni sopra indicate,
non si è basato sulle stime di rischio prospettate da Zapponi, ma su dati del
modo reale validamente acquisiti agli atti del processo.
Si tratta dei valori rilevati in 9 campioni di vongole
prelevati nei canali industriali di Marghera: di questi 9 campioni, 5 erano
stati esaminati dall’esperto dell’accusa Raccanelli e 4 dal laboratorio MPU di
Berlino: Questi erano gli unici dati disponibili in quanto le indagini di
Raccanelli e del laboratorio di Berlino erano le uniche che avevano ricercato i
PCB nelle vongole dei canali industriali.
Dall’esame dei valori riscontrati in questi campioni è
emersa l’esistenza di un margine di sicurezza, rispetto al TDI di 1-4 pg
previsto dalla WHO, che oscilla da un minimo di 3 volte, considerando i dati di
Raccanelli e il consumo di un forte consumatore, a un massimo di 215 volte,
considerando i dati di Berlino e i consumi di un medio consumatore.
In particolare la concentrazione di PCB osservata da
Raccanelli è pari a 0,92 pg\g, mentre per la verifica effettuata a Berlino tale
valore scende fino a 0,42 pg\g.
Basta moltiplicare queste concentrazioni reali per i dati
reali di consumo riportati dalla relazione COSES per ottenere l’esposizione
reale dei consumatori veneziani: così partendo dai dati di Raccanelli,
l’esposizione totale a diossine + PCB è pari per il consumatore normale, a 0,04
pg\kg p.c.\die (0,02 pg\kg p.c.\die di diossine + 0,02 pg\kg p.c.\die di PCB),
mentre è di 0,33 pg\kg p.c.\die per i forti consumatori (0,18 pg\kg p.c.\die di
diossine + 0,15 pg\kg p.c.\die di PCB).
I valori sono ancora più bassi prendendo in considerazione
le concentrazioni misurate a Berlino; infatti l’esposizione scende per i
consumatori normali a 0,018 pg\kg p.c.\die (0,010 pg\kg p.c.\die di diossine +
0,008 pg\kg p.c.\die di PCB) e a 0,143 pg\kg p.c.\die per i forti consumatori
(o,076 pg\kg p.c.\die di diossine + 0,067 pg\kg p.c.\die di PCB).
Indubbiamente vi è una differenza fra le stime effettuate
dalle varie agenzie (e anche dal consulente Zapponi) sul contributo dei PCB
dioxin-like alle concentrazioni tossicologicamente equivalenti e i dati reali
risultati dalle analisi di Raccanelli e del laboratorio di Berlino, ma tale
differenza risulta facilmente spiegabile.
Infatti è pacifico che le fonti di diossine e di PCB sono
diverse, pertanto i rapporti di concentrazione tra diossine e PCB sono diversi
quando è diverso l’ambiente analizzato; inoltre è dimostrato che ogni specie di
animale ha una specifica caratteristica metabolica nei confronti delle diossine
e dei PCB, per cui, a parità di assunzione, i rapporti tra diossine e PCB
cambiano nelle diverse specie.
Giustamente quindi il Tribunale si è attenuto esclusivamente
ai rapporti rilevati in modo reale nelle vongole dei canali industriali oggetto
del presente giudizio e non ha accolto le stime generali perché non sufficientemente
adeguate ad un accertamento tranquillizzante dei dati necessari alla decisione.
3.9.4
Il consumo di bivalvi, la “resa” ovvero la percentuale
edibile rispetto al lordo e le stime di esposizione.
3.9.4.1.1
Conseguenze che derivano applicando ai dati dei consulenti
della difesa i parametri di “resa” (rapporto tra la parte edibile ed il lordo)
dell’Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione.
Sempre nel tentativo di dimostrare la erroneità delle
valutazioni fatte dal Tribunale circa i valori delle dosi di sostanze
contaminanti assunte dagli abitanti della laguna mangiando mitili provenienti
dai canali della zona industriale il P.M. prende in esame uno dei dati
fondamentali ai fini di tale calcolo e cioè la “resa” (rapporto tra la parte
edibile ed il lordo) dei bivalvi in questione.
A tal fine
l’appellante si richiama ai parametri di “resa” degli alimenti elaborati
dall’Istituto Nazionale per gli Alimenti e la Nutrizione (“Tabelle di
Composizione degli Alimenti – Aggiornamento 2000” a cura di E. Carnevale e L.
Marletta, Roma 2000).
In particolare tali dati indicano una parte edibile pari al
25% per le vongole e al 32% e per le cozze.
Applicando i parametri sopra indicati ai dati statistici di
consumo del COSES, ritenuti dalla sentenza come una stima reale, si ottengono
dei valori netti di consumo giornaliero pro capite di vongole e cozze che
risultano quasi 2 volte più elevati di quelli indicati dal Tribunale a pag. 855
della sentenza sia per i consumatori medi che per i forti consumatori.
Tali consumi, moltiplicati per la concentrazione di diossine
indicata nella perizia Bonamin (1,85 pg\ I-TE\g) e sommati all’esposizione
derivante dai PCB dioxin-like (calcolata col fattore di correzione universale
1,5 proposto da Zapponi ed esaminato nel paragrafo precedente) porterebbe al
superamento del limite di 2 pg WHO-TEQ\kg p.c.\die, previsto dal Comitato
Scientifico Europeo.
Quindi, secondo il P.M., alla luce dei dati forniti
dall’Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione si può
affermare che erano sbagliati i dati di “resa” emersi nel processo di primo
grado perché la resa effettiva delle vongole è pari al 25%.
Anche in questo caso le conclusioni dell’appellante non
possono essere condivise. Ci si dimentica infatti di tutti i dati reali emersi
nel corso del dibattimento.
In primo luogo è proprio un esperto del P.M., il dott.
Raccanelli, che, nel corso della deposizione resa all’udienza del 7\11\2000,
afferma che le vongole esaminate nel suo studio, pescate nei canali industriali
della laguna, presentavano una parte edibile pari a circa il 10% del peso
lordo.
Sul punto concorda sostanzialmente anche l’esperto della
difesa, dott. Pompa, il quale nella sua relazione del 18\4\2001, aveva riferito
che, pur essendo a conoscenza del fatto che il dott. Raccanelli aveva indicato
una resa del 10% per le vongole, aveva per i suoi calcoli adottato un valore
leggermente superiore (14%) a scopo cautelativo.
Nel corso del dibattimento il P.M. non aveva mai contestato
i dati di resa delle vongole forniti dal suo consulente e dal dott. Pompa,
perché altrimenti sarebbe stato estremamente agevole verificare anche tali dati
nel corso delle indagini svolte presso il laboratorio di Berlino.
Bisogna comunque ricordare che il dott. Raccanelli ha
personalmente analizzato 5 campioni di vongole e che all’inizio delle
operazioni di analisi le vongole vengono pesate (peso lordo), quindi vengono
sgusciate e poi viene pesata la parte edibile (peso netto) prima di procedere
con le analisi vere e proprie: Quindi il consulente del P.M. ha eseguito
personalmente le operazioni preliminari di pesatura ed ha potuto verificare
direttamente le “rese” dei molluschi esaminati. E’ fuor di dubbio che se
Raccanelli avesse rilevato un valore di resa significativamente superiore al 10%
lo avrebbe riferito in dibattimento.
Il valore leggermente superiore indicato dal consulente
Pompa (14%) trova una giustificazione fisiologica nel fatto che la quantità di
acqua che imbibisce il mollusco interno (parte edibile) può leggermente
influenzare il peso del campione.
A questo punto è giusto chiedersi come mai i dati forniti
dall’Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione siano tanto
diversi da quelli riferiti in dibattimento dai consulenti delle parti.
In linea generale bisogna ricordare che la pubblicazione
dell’INRAN dalla quale sono stati tratti i dati era dedicata in via pressoché
esclusiva alla composizione chimica e al livello energetico degli alimenti, e
non invece alla determinazione precisa del rapporto tra parte comunque edibile
dei prodotti esaminati e scarto non commestibile.
Ma l’elemento più rilevante consiste nel fatto che la “resa”
del 25% per la parte edibile della vongola determinata dall’INRAN concerne una
specie particolare di vongola, la amigdala decussata, diversa dalle tapes
philippinarum che sono state l’oggetto delle consulenze nel presente
procedimento.
La vongola amigdala decussata, caratterizzata da un guscio
molto sottile e da una resa molto maggiore rispetto ad altre, è molto rara in
laguna e comunque non risulta essere mai stata raccolta ed esaminata fra i
campioni prelevati per le consulenze del presente processo che hanno sempre
riguardato la vongola tape philippinarum (come si rileva dalla descrizione
contenuta nei verbali di campionamento condotti nel marzo 2001 e nei verbali
preliminari delle analisi presso il laboratorio MPU di Berlino).
In conclusione si può affermare che anche per determinare la
“resa” dei bivalvi il Tribunale si è giustamente attenuto ai dati reali
raccolti nel corso del dibattimento che sono risultati essere gli unici
corrispondenti alle circostanze di fatto che il giudice doveva prendere in
considerazione ai fini della decisione.
3.9.4.2
I dati dell’Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e
la Nutrizione sui consumi medi giornalieri pro-capite di molluschi in Italia per il 1994-96.
L’appellante contesta la sentenza anche per quanto riguarda
i dati dei consumi medi giornalieri dei veneziani.
Si deve infatti ricordare che i calcoli della dose
giornaliera di assunzione di sostanze inquinanti da parte dei veneziani tramite
una dieta contenente mitili sono stati fatti dal primo giudice tenendo conto
del consumo di tale prodotto ittico desunto da una indagine effettuata dal
COSES – Comune di Venezia – nel 1996.
Secondo il P.M., invece, il calcolo deve essere effettuato
sulla base delle statistiche di consumo dell’Istituto Nazionale di Ricerca per
gli Alimenti e la Nutrizione relative al territorio nazionale desumibili da uno
studio INN – CIA del 1994\96.
Osserva l’appellante che lo studio indicato muove da una
distinzione essenziale tra consumo medio totale pro-capite e consumo pro-capite
medio per i “soli consumatori” (11,6% della popolazione) identificati come
diversi dai “non consumatori” e dai “consumatori sporadici”; partendo da tale
base ed effettuando tutta una serie di calcoli, analiticamente riportati nei
motivi d’appello, si arriva a conclusioni circa l’effettivo consumo giornaliero
di vongole e mitili quasi simili a quelle indicate dai consulenti dell’accusa e
disattese dal Tribunale perché smentite dall’indagine Coses.
In realtà non sembra accettabile, ai nostri fini, il
criterio indicato per calcolare il consumo. Infatti secondo tale criterio i
soli “consumatori” (pari all’11,6% percento della popolazione nazionale) mangerebbero
tutto il prodotto ittico nazionale. Ciò risulta palesemente illogico se si
tiene conto del fatto che nella categoria dei “consumatori” rientrerebbero solo
coloro che mangiano molluschi assiduamente trascurando quindi tutti coloro
(88,4%) che mangiano pesce in modo non assiduo e cioè una o due volte alla
settimana, o anche una volta al mese.
Per poter sostenere che l’11,6% della popolazione mangia
tutto il prodotto ittico, si dovrebbe provare che tutto il resto della
popolazione (e cioè la stragrande maggioranza) non ne mangia mai.
Si tratta di una conclusione palesemente illogica che porta
ad un sovradimensionamento dei valori di consumo da parte della categoria dei
“veri consumatori”.
A queste considerazioni si deve anche aggiungere che risulterebbe
veramente inspiegabile far ricorso a statistiche di carattere nazionale pur
avendo a disposizione una indagine condotta proprio sui consumi dei veneziani
da parte di una fonte che non può definirsi sospetta e cioè il Comune di
Venezia che è anche parte civile nel presente processo.
Si deve quindi condividere la decisione del Tribunale di
dare credito all’indagine COSES al fine di determinare i reali consumi di
prodotti ittici da parte dei veneziani.
3.9.5
Alcune considerazioni su “gli esiti della valutazione
tecnica correttamente operata (per il Tribunale) dagli esperti delle difese
(relazione Pompa 18\4\2001)” relativamente alla comparazione con i dati di
altri paesi.
A questo punto il P.M. torna al tema della concentrazione
media di diossine nei bivalvi dell’area industriale della laguna per contestare
quanto affermato in proposito dalla sentenza di primo grado e cioè che “tutte
le concentrazioni di diossine rilevate in pesci e molluschi della laguna
Veneziana sono confrontabili con le concentrazioni di diossine (0,1 – 1 pg
TE\g) riscontrate in pesci e molluschi edibili, provenienti da aree che
risentono di un impatto antropico diretto moderato” (Sentenza pag.876).
L’appellante rileva che in realtà la concentrazione media di
diossine nei bivalvi campionati nell’area industriale della laguna, rilevata
nell’ambito della perizia Bonamin, Di Domenico et al. (1997) è pari a 1,85 pg
I-TE\g. e viene a collocarsi al secondo posto, in ordine di grandezza, della
serie di 11 dati riportati a pag. 876 della sentenza e desunti da una
pubblicazione della Agenzia Europea per l’ambiente TasK 4 e da una
pubblicazione dell’EPA.
Il P.M. ricorda anche un documento dell’Unione Europea
sull’esposizione, per ingestione attraverso la dieta, a diossine e PCB
correlati nei paesi membri pubblicato nel giugno 2000. Nella Tabella 5 di tale
documento sono elencati 49 valori relativi ad alimenti ittici europei
campionati nel 1995-1999 e solo 5 sono superiori alla concentrazione media
(1,85 pg I-TE\g) rilevata nei bivalvi di Venezia dalla perizia Bonamin, Di
Domenico et al.
Risulta quindi evidente, per l’appellante, che la
concentrazione di diossine nei bivalvi della laguna è superiore a quella (0,1 –
1 pg TE\g) riscontrata nei pesci e nei molluschi provenienti da aree con
impatto antropico diretto moderato.
Osserva questo Collegio che i dati reali della
contaminazione sulla base di tutti i dati raccolti nel corso del dibattimento
(analisi effettuate dal Consulente del P.M. Raccanelli, dal laboratorio di
Berlino, dai consulenti Zapponi, Di Domenico e Turrio Baldassarri) hanno
portato ad indicare un valore medio di contaminazione da diossine pari a 1,09
pg I-TE\g sostanzialmente diverso da quello indicato dal P.M.
La spiegazione di questa diversità si ricava dal fatto che
l’appellante prende in considerazione solamente i risultati della perizia
Bonamin che effettivamente era arrivata a determinare un valore medio di
contaminazione pari a 1,85 I-TE\g.
Esaminando il contenuto della perizia Bonamin si rileva che
nella stessa compare un campione di cozze che presenta un valore di
concentrazione particolarmente elevato (4,9 pg I-TE\g); si tratta di un valore
che lo stesso consulente del P.M. dott. Zapponi definisce come “raro” ( V.
relazione “Concentrazioni nei bivalvi dell’area industriale di Venezia: alcune
considerazioni aggiuntive” del 15\5\2001).
Quindi la perizia Bonamin si basa sull’esame di 7 campioni
di cui 2 concernenti cozze (uno dei quali con un valore di concentrazione
definito “raro”), a fronte di 9 campioni di vongole esaminati complessivamente
da Raccanelli e dal laboratorio di Berlino e risultati avere un valore medio di
concentrazione pari a 1,09 pg I-TE\g.
Bisogna inoltre ricordare che nel presente processo tutti i
consulenti (sia dell’accusa che della difesa) hanno sempre affrontato il
problema dell’esposizione dell’uomo a contaminanti attraverso il consumo di
vongole pescate abusivamente nei canali industriali, mentre non si sono mai
occupati di cozze per una serie di motivi ben precisi: 1) ai pescatori abusivi
non sono mai state sequestrate cozze; 2) in tutte le consulenze del P.M. sono
state raccolte ed analizzate vongole e mai cozze; 3) anche l’indagine del
laboratorio di Berlino ha preso in considerazione solamente le vongole.
Comunque l’obiezione dell’appellante risulta totalmente
irrilevante ai fini della decisione in quanto anche la concentrazione di 1,85
pg\g indicata nella perizia Bonamin non è neppure la metà di quella indicata
dalla Comunità Europea (con il Regolamento n.2375\2001 del 29\11\2001) per la
edibilità dei prodotti ittici (pari a 4 pg\g) ed è lontana anche dal “livello
di attenzione” che fa scattare le indagini per la bonifica dei siti fissato a 3
pg\g dalla Raccomandazione della Commissione Europea emanata il 4\3\2002 e
pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale delle Comunità Europee in data 9\3\2002.
3.9.6
Microinquinanti tossici nella laguna di Venezia. Le diossine
e i composti simili: La perizia tecnica di V. Bonamin, A. Di Domenico, R.
Fanelli, L. Turrio Baldassarri (1977), la correlata Consulenza tecnica di L.
Simonato, L. Tomatis, P. Vineis e G.A. Zapponi (1998) e l’indagine
dell’Istituto Superiore di Sanità (A. Di Domenico, L. Turrito Baldassarri, G.
Ziemacki, 1996).
Il P.M. lamenta il fatto che le perizie e consulenze
tecniche indicate in intestazione siano state più volte citate ed utilizzate
nel corso del procedimento e nella stesura della motivazione della sentenza, ma
frequentemente in modo impreciso e senza considerarle in tutti gli aspetti di
rilievo.
Prima di procedere nell’esame di questa doglianza occorre
fare una breve premessa per ricostruire la successione delle indagini, delle
perizie e delle consulenze in questione.
Dal punto di vista temporale vi è prima di tutto una
indagine dell’Istituto Superiore di Sanità datata 21\11\96 sulla contaminazione
di bivalvi nelle aree di allevamento e mitilicultura della Laguna Veneta,
svolta dagli esperti Alessandro Di Domenico, Luigi Turrio Baldassarri e
Giovanni Ziemacki.
Tale indagini aveva avuto come oggetto 20 campioni di biota
raccolti in larga maggioranza in zone della Laguna Veneta ufficialmente
destinate all’allevamento ed alla pesca in quanto un solo campione era stato
prelevato in area industriale ed uno in area prevalentemente o esclusivamente
urbana; la media del complesso dei campioni aveva fornito un valore di
concentrazione di diossine di circa 0,52 pg I-TE\g e nel rapporto conclusivo
gli esperti avevano osservato che le concentrazioni rilevate erano
confrontabili “con livelli frequentemente riscontrati …in aree sotto
l’influenza di un impatto antropico diretto da moderato a trascurabile”.
Nel 1997 era stata disposta dal P.M. Ennio Fortuna la
perizia Bonamin, della quale erano stati coautori anche Di Domenico, Turrio
Baldassarre e Ziemacki (autori dell’indagine ISS), volta ad indagare l’impatto
degli scarichi industriali sulla qualità dell’ambiente e dei prodotti ittici
lagunari.
Tale perizia aveva recepito le determinazioni di PCDD e PCDF
già effettuate dall’indagine ISS ed aveva ampliato i campionamenti nell’area
industriale.
Al contempo era stata disposta una consulenza tecnica
diretta a valutare l’esposizione umana alla diossina e ad analizzare e stimare
i rischi tossicologici con incarico conferito a L. Simonato, L. Tomatis, P.
Vineis e G.A. Zapponi.
Il P.M. nei motivi d’appello contesta quanto sostenuto nella
sentenza impugnata in relazione all’indagine ISS e alla perizia Bonamin e cioè
che le conclusioni dell’indagine ISS fossero “non dissimili da quelle prese
dagli stessi studiosi (Di Domenico, Turrio Baldassarri e Ziemacki) nella sede
della relazione di consulenza redatta per la pubblica accusa”.
Secondo l’appellante i periti nominati dal P.M. avevano
fatto un ampio campionamento soprattutto in zona industriale con 12 campioni (9
su bivalvi e 3 su pesci) non compresi nell’indagine ISS ed il perito Bonamin
era giunto a determinare un valore medio di contaminazione per i bivalvi
dell’area industriale pari a 1,85 pg I-TE\g ben diversa da quella determinata
nel corso dell’indagine precedente.
Le affermazioni del P.M. non risultano condivisibili. In
primo luogo sembra davvero difficile parlare
di ampio campionamento per la perizia Bonamin rispetto alla indagine
ISS. Infatti i 9 campioni di bivalvi descritti nella perizia sono così
composti: 2 campioni riguardano cozze che, per i motivi esposti nel paragrafo
precedente, devono ritenersi ininfluenti al fine di valutare l’esposizione dei
consumatori veneziani; un campione è lo stesso esaminato nell’indagine ISS del
1996 e 5 sono gli stessi esaminati nell’altra relazione dei consulenti del P.M.
Sesana, Micheletti e Muller. Vi è quindi un solo nuovo campione che ha fornito
un valore pari a 1,2 pg\g.
In buona sostanza per quanto riguarda le concentrazioni di
diossine nelle vongole (e non nelle cozze) dei canali industriali si può
affermare che i valori medi non si
discostano sostanzialmente da quelli rilevati nello studio ISS.
Restano quindi valide le conclusioni di tale studio nel
senso che le concentrazioni riscontrate “sono di fatto propriamente
confrontabili con i livelli frequentemente riscontrati (circa 0,2 – 1
pg\I-TE\g) degli stessi contaminanti in pesci e molluschi normalmente
utilizzati per l’alimentazione umana provenienti da aree sotto l’influenza di
un impatto antropico diretto da moderato a trascurabile”.
Le stesse conclusioni sono raggiunte dagli altri consulenti
del P.M. Sesana, Micheletti e Muller che dopo aver analizzato altri campioni di
vongole e aver confrontato la concentrazione di diossine rilevata nelle stesse
con quelle rilevate nella letteratura, affermano: “i risultati sui molluschi
della laguna di Venezia, se riferiti alle indagini norvegesi, coincidono quasi
completamente con i valori appartenenti alla parte superiore della scala di
valori normali” (relazione Sesana et al. pag.4).
Questo dato viene ribadito anche da altri consulenti del P.M.
e cioè Simonato, Tomatis, Vineis e Zapponi che nella loro relazione scrivono: “
le analisi di vongole (campioni 7484\A e 4411\A) provenienti da aree sottoposte
a inquinamento industriale o urbano effettuate dall’Istituto Superiore di
Sanità sono caratterizzate da valori 0,87 – 1,3 pg I-TE\g, …confrontabili con
quelli di altre aree a contaminazione moderata o bassa”.
Per quanto riguarda la Consulenza tecnica di Simonato,
Tomatis, Vineis e Zapponi, il P.M. lamenta il fatto che sia stata citata nella
sentenza in modo molto parziale tanto da impedirne l’appropriata e corretta
comprensione.
E’ vero che tale consulenza, a seguito della presentazione
di uno studio epidemiologico descrittivo geografico, afferma testualmente: “Non
emergono, dall’analisi di questi dati, elementi che depongono a favore di un
rischio più elevato nella popolazione lagunare rispetto a quella della
terraferma” (frase riportata nella motivazione della sentenza), ma poi aggiunge
: “ mentre dall’insieme della crescita nel tempo di alcune sedi tumorali (LNH,
mammella, rene, tutti i tumori) emerge la necessità di indagini più
approfondite per poter individuare possibili fattori eziologici, tra i quali
vanno inclusi anche esposizioni legate all’inquinamento della laguna” (frase
non citata nella sentenza).
Alla consulenza è stata allegata una tabella che mette in
evidenza nel periodo tra il 1987 e il 1994 un incremento, rispetto al
riferimento regionale, statisticamente significativo, di tutti i tumori
nell’area di Venezia e di Mestre, dei tumori della mammella nelle donne di
Venezia e di Mestre e dei linfomi non Hodgkin nei maschi di Venezia. Si tratta
di un incremento che merita grande attenzione e che non è coerente con
l’affermazione della sentenza a pag.1011: “Conclusioni incompatibili con
aumento di rischio nello scenario delineato in imputazione mette a capo la
consulenza espletata nel 1997 per conto della Procura Circondariale Veneziana,
dagli esperti Tomatis, Simonato, Vineis e Zapponi”. In realtà l’attestato
incremento di tumori è per definizione compatibile con un aumento di rischio.
Inoltre la Consulenza di Simonato et al. include varie
conclusioni e raccomandazioni non citate nella motivazione della sentenza. In
particolare si conclude per la presenza di una contaminazione della Laguna in
gran parte dovuta a scarichi industriali, che comprende varie sostanze
cancerogene bioaccumulabili, le quali per un’esposizione prolungata anche a
piccole dosi possono comportare un incremento di rischio cancerogeno, sia con
effetto additivo che sinergico. La consulenza raccomanda poi l’eliminazione di
scarichi in laguna suscettibili di incrementare l’inquinamento, il divieto di
consumo e immissione sul mercato di prodotti ittici provenienti dalle aree
industriali della laguna, la definizione appropriata delle aree in cui
consentire la pesca e l’allevamento, la bonifica e il monitoraggio
dell’inquinamento.
Rileva l’appellante che di tutto ciò nulla si dice in
sentenza.
Ad avviso di questo Collegio il Tribunale non ha trascurato
il contenuto della consulenza Simonato et al., ma lo ha valutato, anche se in
maniera concisa, dandone una interpretazione sostanzialmente corretta.
Quanto al risultato ottenuto dalla consulenza, consistito
nell’accertamento di un incremento totale dei tumori, un incremento dei tumori
della mammella tra le donne e un incremento dei linfomi non Hodgkin, lo stesso
P.M. riconosce che non è adeguatamente identificabile la causa di tale fenomeno
tanto che gli stessi consulenti prospettano la necessità di indagini più
approfondite per poter individuare possibili fattori eziologici fra i quali
vanno ovviamente inclusi anche le esposizioni legate all’inquinamento della
laguna.
Le conclusioni dello studio di Simonato et al. confermano
che allo stato attuale non è possibile dimostrare alcun rischio per la salute
umana direttamente collegabile alle condizioni della laguna.
Non vi è prova scientifica che l’aumento riscontrato del
numero dei tumori sia collegabile a esposizione per ingestione.
Giustamente il P.M. afferma che il risultato ottenuto dalla
consulenza Simonato merita grande attenzione. Ma questo invito all’attenzione
può essere rivolto a chi ha la responsabilità di una adeguata politica
sanitaria ed ambientale, non ad un’autorità giudiziaria chiamata a decidere
sulla responsabilità di singoli individui che devono rispondere di reati gravi
come il disastro, l’avvelenamento e l’adulterazione di sostanze alimentari. Ai
fini del giudizio penale sono sempre necessari dati di fatto adeguatamente
provati.
Anche le raccomandazioni contenute nella consulenza come ad
esempio quella di escludere dalla pesca le aree della laguna caratterizzate da
inquinamento industriale e le aree con intenso traffico di motobarche o quella
di eliminare gli scarichi in laguna suscettibili di incrementare l’inquinamento
suonano come semplici indicazioni di ciò che sarebbe opportuno fare in vista di
una maggior tutela dei consumatori di prodotti ittici.
Nella stessa consulenza, però, non vi è alcuna prova che il
consumo di pesci e molluschi provenienti dalla laguna sia pericoloso per la
salute non essendo stato individuato alcun elemento probatorio a sostegno di
tale ipotesi.
La stessa raccomandazione fatta dai consulenti di vietare il
consumo e l’immissione sul mercato di prodotti ittici provenienti dalle aree
industriali della laguna risulta essere una misura suggerita dagli stessi a
scopo cautelativo, ma non è una indicazione di rischio per la salute dei
consumatori.
Basterà ricordare che (come si è già accennato in
precedenza) l’Unione Europea (con il Regolamento n.2375\2001 del 29\11\2001
pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale della Comunità Europea come Legge 231\5 del
6\12\2001) ha individuato la concentrazione limite (CL) proprio per le diossine
ammesse nei prodotti ittici, ai fini della loro edibilità e della loro libera
commercializzazione, nell’ambito dei paesi UE in 4 WHO-TEQ\g di prodotto
fresco, concentrazione che è più di quattro volte superiore a quella media
riscontrata dagli esperti dell’accusa nelle vongole dei canali industriali.
A ciò si deve aggiungere quanto stabilito dalla
Raccomandazione della Commissione Europea emanata il 4\3\2002 e pubblicata
sulla Gazzetta Ufficiale delle Comunità Europee in data 9\3\2002 relativa alla
riduzione della presenza di diossine e furani nei mangimi e negli alimenti.
Tale Raccomandazione suggerisce un nuovo modo per affrontare il problema delle
concentrazioni di diossine negli alimenti basato sulla introduzione di una
nuova classe di livelli di concentrazione che prendono il nome di “livelli
d’azione” che si distingue dalla classe di valori presi in considerazione per
la edibilità dei prodotti. Il documento della Commissione Europea raccomanda,
qualora le concentrazioni di diossine negli alimenti superino i “livelli
d’azione”, l’avvio di indagini per individuare la fonte di contaminazione
dell’alimento in modo da adottare i provvedimenti necessari per risolvere il
problema; in ogni caso l’alimento resta comunque edibile e commerciabile fino a
quando la concentrazione di diossine non supera il livello di concentrazione
limite di 4 pg\ WHO-TEQ\g.
La stessa Raccomandazione fissa per le diossine nei prodotti
ittici il “livello d’azione” in 3 pg\g di prodotto fresco. Ciò significa che il
“livello d’azione” è di circa 3 volte superiore a quello medio riscontrato
nelle vongole dei canali industriali ed è quasi 7 volte superiore alla
concentrazione media di diossine presente in tutti i molluschi raccolti in
laguna.
In conclusione per i parametri europei le vongole raccolte
nei canali industriali di Porto Marghera non solo sono edibili, ma la quantità
di diossine in esse presenti è tale da non consigliare neppure l’adozione di
provvedimenti urgenti per la bonifica dei siti di provenienza.
CAPITOLO 3.10 APPELLO
P.M.
IMMOTIVATA E CONTRADDITORIA ASSOLUZIONE DEGLI IMPUTATI DA TUTTE
LE CONTRAVVENZIONI LORO RISPETTIVAMENTE CONTESTATE CON PERMANENZA IN ATTO.
In questo capitolo il P.M. impugna la assoluzione
pronunciata dal Tribunale, in maniera immotivata e contradditoria, per tutte le
contravvenzioni contestate agli imputati nell’ambito del secondo capo
d’imputazione.
Ricorda l’appellante che già nell’originario capo
d’imputazione erano contestate varie contravvenzioni in materia ambientale e di
igiene del lavoro per fatti commessi “fino all’autunno del 1995”; con la
contestazione suppletiva effettuata all’udienza del 13\12\2000 erano state
contestate altre violazioni contravvenzionali nonché la permanenza in atto.
Il Tribunale aveva assolto tutti gli imputati da tutte le
contravvenzioni perché il fatto non sussiste senza alcuna motivazione e
nonostante le prove raccolte nel corso dell’istruttoria dibattimentale.
La doglianza del P.M. risulta parzialmente fondata.
Occorre però fare una preliminare distinzione fra le varie
contravvenzioni che l’appellante elenca nei suoi motivi.
In vero il capo d’imputazione è chiaramente incentrato sulla
contestazione dei delitti di avvelenamento, adulterazione e disastro, ma vi
sono menzionati anche numerosi riferimenti normativi che richiamano fattispecie
contravvenzionali.
Vi è il richiamo agli artt. 17 e 18 del D.P.R. 19\3\1956
n.303 “Norme generali per l’igiene del lavoro”; agli artt.1 sexies d.l. 27\6\85
n.312 “Disposizioni urgenti per la tutela delle zone di particolare interesse
ambientale”; all’art. 9 D.Lgs.15\8\91 n.277 in materia di protezione dei
lavoratori contro i rischi derivanti da esposizione ad agenti chimici.
Per questo primo gruppo di contravvenzioni che il P.M.
asserisce di aver contestato con la formulazione del capo d’imputazione bisogna
rilevare che oltre al riferimento numerico agli articoli manca qualsiasi
descrizione di condotte, attive od omissive, corrispondenti alle
contravvenzioni richiamate, né vi è alcuna indicazione di carattere temporale
che consenta di individuare l’inizio dell’attività punibile e, soprattutto, quali
degli imputati debbano rispondere per tali violazioni.
In mancanza degli elementi sopra indicati, essenziali per
una corretta e giuridicamente valida contestazione di contravvenzioni, il
Tribunale ha giustamente valutato tale elencazione di norme come contestazione
di colpa specifica e cioè come modalità di causazione degli eventi di
avvelenamento, adulterazione e disastro con violazione di norme cautelari.
La situazione appare invece diversa per altre norme
richiamate nel capo d’imputazione e cioè per gli artt.3, comma 3°, 1, comma 1°
lett. a) b) c), 9, 10, 16, 24, 25, commi 1,2 e 3, 26, 31 e 32 D.P.R. 10\9\82
n.915 recante norme di attuazione delle direttive CEE relative ai rifiuti, poi
sostituito dal D.Lgs. 5\2\97 n.22.
In questo caso il capo d’imputazione descrive condotte
astrattamente idonee ad integrare la violazione delle disposizioni elencate. Si
tratta di quella parte della contestazione relativa alla asserita gestione
abusiva delle discariche di cui si è parlato a lungo nei primi capitoli di questa
motivazione. In buona sostanza, come si ricorderà, si è ritenuto che gli
imputati si fossero attenuti alle disposizioni regolanti la gestione dei
rifiuti dopo l’entrata in vigore del D.P.R. 915\82 e che su di loro non
gravasse l’obbligo di attivarsi per risanare i siti inquinati dai predecessori.
Non sembra necessario riproporre in questa sede gli argomenti già esposti a
sostegno di tali conclusioni che vengono ora integralmente richiamate.
Si può quindi affermare che gli imputati dovevano essere
assolti dalle contravvenzione in materia di gestione di rifiuti perché il fatto
non sussiste, così come ha deciso il Tribunale.
Completamente diversa appare invece la situazione per quanto
riguarda la normativa di cui agli artt.9,ult.co., 15, 21, 25 e 26 Legge 10\5\1976
n.319 recante norme per la tutela delle acque dall’inquinamento; artt.10, 13,15
e 26 Legge 15\3\63 n.366 “Nuove norme relative alle lagune di Venezia e
Marano”; artt.1 e 9 Legge 16\4\73 n.171 “Interventi per la salvaguardia di
Venezia” e art.3 D.P.R. 20\9\73 n.962 recante “Norme per la tutela della città
di Venezia e del suo territorio dagli inquinamenti delle acque”.
In questo caso il capo d’imputazione descrive in modo
preciso la condotta contestata agli imputati e cioè l’aver effettuato nelle acque
della laguna scarichi idrici con concentrazioni di sostanze inquinanti
superiori ai limiti previsti dal D.P.R. 962\1973. In particolare si è
contestato agli imputati di aver effettuato “scarichi dei fanghi, dei
catalizzatori esausti (esempio quelli a sali di mercurio) e degli altri
sottoprodotti di risulta dei trattamenti, attraverso gli scarichi 2 e 15, con
concentrazioni di nitrati e clorurati superiori ai limiti previsti dal D.P.R.
962\73”.
La generica descrizione delle condotte configuranti le contravvenzioni
in esame risulta integrata e completata dalla documentazione acquisita agli
atti processuali e cioè dai numerosissimi bollettini interni delle analisi
compiute sugli scarichi del Petrolchimico il cui contenuto è stato ampiamente
discusso dalle parti nel corso dell’istruttoria dibattimentale.
Da tali bollettini si ottiene, oltre alla conferma dei
numerosi superamenti dei parametri tabellari di cui al D.P.R. 962\73 da parte
degli scarichi del Petrolchimico, anche l’indicazione temporale delle singole
violazioni.
La difesa degli imputati non può quindi sostenere la tesi
della mancata contestazione formale di tali contravvenzioni in quanto la
formulazione del capo d’imputazione, integrata dalla documentazione acquisita
nel corso del dibattimento e discussa nel contraddittorio delle parti, ha messo
in grado gli imputati di difendersi nel migliore dei modi.
Per altro si tratta di circostanze di fatto che nessuno
degli imputati ha mai contestato, anzi i consulenti della difesa hanno
esaminato e studiato i bollettini non già per negare l’esistenza dei
superamenti dei limiti tabellari da parte degli scarichi, ma per dimostrare il
progressivo miglioramento della situazione confermata dalla discesa della
percentuale di superamenti dal 4,4% del 1990 all’1% del 2000.
Ha quindi sbagliato il Tribunale quando ha assolto gli
imputati dalle contravvenzioni in esame perché il fatto non sussiste.
In realtà le prove acquisite dimostravano l’avvenuto
superamento dei limiti tabellari di cui al D.P.R. 962\73 in numerose e ripetute
occasioni e non poteva esserci dubbio sulla sussistenza delle contravvenzioni.
In questa sede si deve però prendere atto del decorso del
termine massimo di prescrizione di anni quattro e mesi sei, sia se calcolato
dal luglio 1994 (epoca dalla quale non si ha più in atti la prova documentale
dei superamenti tabellari), sia se calcolato dall’autunno del 1995 come
indicato nella contestazione originaria.
Sul punto il P.M. ha fatto presente nei suoi motivi
d’appello che in data 13\12\2000 aveva integrato il capo d’imputazione
originario contestando al permanenza in atto per tutte le contravvenzioni.
Osserva il Collegio che in questa sede interessa esaminare
la questione della permanenza posta dal P.M. esclusivamente con riferimento
alle contravvenzioni relative al superamento dei limiti tabellari in quanto per
tutte le altre contravvenzioni si ritiene di confermare la assoluzione perché
il fatto non sussiste.
Per quanto riguarda le contravvenzioni concernenti il
superamento dei limiti tabellari risulta invece importante, ai nostri fini,
decidere se possa o meno parlarsi di permanenza, in quanto la soluzione del
problema in un senso o nell’altro viene ad incidere sul calcolo del termine di
prescrizione.
L’appellante sostiene la tesi della configurabilità della
natura permanente del reato relativo al superamento dei limiti tabellari
richiamando una decisione delle Suprema Corte in cui si afferma testualmente: “
La contravvenzione di cui all’art.21, terzo comma della legge n.319 del 1976 è
caratterizzata da un elemento ulteriore rispetto ai casi previsti dai due commi
precedenti, indicati nello stesso articolo, ossia dal superamento nello scarico
dei limiti di accettabilità……Trattasi, dunque, di reato permanente, poiché la
omissione colposa di misure atte ad evitare che lo scarico superi i limiti
della tabella, implicando un dovere positivo di controllo e di intervento, non
si risolve in un inadempimento istantaneo, ma si protrae nel tempo. Il prelievo
dei campioni evidenzia soltanto il protrarsi di una azione antigiuridica. E’
compito dell’imputato offrire la prova che la permanenza è cessata per avere
egli compiuto atti idonei a tale scopo” (Cass. Pen. 21 luglio 1988 n.8318).
Analogo principio vale per quanto riguarda il reato relativo
alla mancata adozione di misure idonee ad evitare l’aumento temporaneo
dell’inquinamento: “ E’ omissivo permanente il reato previsto dagli artt.21 e
25 legge 10 maggio 1976 n.319, che consiste nel mancato adempimento
dell’obbligo di adottare misure necessarie ad evitare un aumento anche
temporaneo dell’inquinamento, poiché la situazione dannosa o pericolosa si
protrae nel tempo a causa del perdurare della condotta antigiuridica di colui
che effettua lo scarico” (Cass.pen sez. III, 7 settembre 1987 n. 9776).
Ad avviso di questo Collegio il sopra indicato orientamento
della Cassazione appare poco convincente soprattutto perché prevede
esplicitamente una inversione dell’onere della prova in contrasto con i
principi del nostro ordinamento.
In effetti la Cassazione, in epoca più recente, ha corretto
tale indirizzo giurisprudenziale stabilendo che il reato di cui all’art.21,
comma 3° della legge 319\76 che consiste nel superamento dei limiti di
accettabilità prescritti “non può essere ritenuto di natura permanente a meno
che non si provi in concreto che lo scarico extratabellare sia continuo, e cioè
che l’alterazione della accettabilità ecologica del corpo recettore si
protragga nel tempo senza soluzione di continuità per effetto della persistente
condotta volontaria del titolare dello scarico” (Cass. Sez. III, 16 novembre
1993).
Nello stesso senso si è pronunciata la Cassazione in data 3
febbraio 1995 con specifico riferimento alla legge 171\73 “Interventi per la
salvaguardia di Venezia” statuendo che: “Mentre lo scarico oltre i limiti
tabellari, di cui all’art.9, sesto comma ultima parte della Legge 16\4\73 n.171
è per sua natura reato non permanente, essendo legato ad un accertamento
specifico in un dato tempo, invece lo scarico senza autorizzazione, di cui al
medesimo art.9, sesto comma, prima parte citata legge n.171 del 1973, la natura
del reato permanente è collegata alla persistenza della condotta omissiva del
titolare fino a quando non risulti provato il possesso del titolo abilitativo
rilasciato da parte della pubblica amministrazione competente”.
Quest’ultimo orientamento appare maggiormente accettabile
anche perché prevede che la prova della continuità del carattere extratabellare
dello scarico deve essere fornita dall’accusa secondo i fondamentali principi
del nostro ordinamento.
Bisogna ricordare che nel caso del Petrolchimico le prove
raccolte attestano solo superamenti occasionali dei limiti tabellari (anche se
con una certa frequenza), ma non vi è prova di una continuità di tale
situazione illegittima.
In conclusione, ad avviso di questo Collegio, si impone una
declaratoria di improcedibilità nei confronti degli imputati Porta, Morrione,
Reichenbach, Marzollo, Fabbri, Smai, Pisani, Zerbo, Trapasso, Grandi, Presotto,
Palmieri, Burrai, Necci, Parillo e Patron relativamente alle contravvenzioni
concernenti i superamenti tabellari di cui al D.P.R. 962\73 perché estinte per
intervenuta prescrizione ed in tal senso deve essere riformata sul punto
l’impugnata sentenza.
CONCLUSIONI SUL II° CAPO DI IMPUTAZIONE
Dopo avere esaminato le singole doglianze proposte dal P.M.
e dalle altre parti appellanti nei confronti della sentenza impugnata
relativamente al secondo capo d’imputazione, sembra necessario fare una
valutazione complessiva delle decisioni del Tribunale sui vari aspetti dell’ipotesi
accusatoria.
Come si è già detto nella premessa, la base dell’accusa era
costituita dalla contestazione dei reati di avvelenamento e adulterazione
colposa di acque o sostanze destinate all’alimentazione.
Queste accuse sono risultate in fatto non provate.
Per quanto riguarda i pesci e i molluschi pescati nei canali
industriali bisogna ricordare che i risultati delle analisi dei campioni,
ampiamente discussi nel corso del dibattimento, hanno sostanzialmente escluso
l’esistenza di un pericolo reale per la salute pubblica derivante dal consumo
alimentare di tale tipo di biota.
Le concentrazioni di inquinanti rilevate nei pesci e nei
molluschi pescati nei canali industriali sono risultate inferiori alle
Concentrazioni Limite stabilite dalla legge per i singoli inquinanti ai fini
della edibilità; per gli inquinanti rispetto ai quali non risultava fissata per
legge una Concentrazione Limite si è appurato che la loro presenza rientrava
comunque nei limiti considerati in tutto il mondo normali per la edibilità.
In considerazione del fatto che gli abitanti della laguna
hanno una propensione al consumo di prodotti ittici particolarmente elevata, si
è calcolato con cura particolare il consumo di tali prodotti da parte dei
veneziani sulla base di uno studio specifico condotto dallo stesso Comune di
Venezia.
Il consumo così quantificato di prodotto ittico è stato poi
moltiplicato per le dosi medie di inquinanti riscontrate nei mitili pescati nei
canali industriali ottenendo la dose media di assunzione di tali inquinanti nel
lungo periodo da parte dei consumatori veneziani.
I dati ottenuti sono apparsi tranquillizzanti in quanto le
dosi di assunzione dei veneziani sono risultate di molto inferiori rispetto
alle classi di dosi astratte capaci di generare effetti dannosi osservati;
addirittura sono risultati inferiori perfino ai limiti-soglia fissati da varie
agenzie internazionali in via precauzionale e quindi dotati di un fattore di
sicurezza che li tiene lontani dalle soglie di pericolo reale.
Gli appellanti hanno tentato di mettere in discussione tali
risultati senza però riuscirvi, come si è visto in precedenza nel corso
dell’esame dei singoli motivi sul punto.
Si deve altresì escludere la sussistenza di un pericolo
reale per la salute pubblica derivante dalle acque di falda.
La tesi accusatoria secondo la quale le acque di falda
sarebbero state contaminate dagli inquinanti provenienti dai rifiuti
tossico-nocivi accumulati nel corso degli anni in varie discariche create sia
all’interno che all’esterno del Petrolchimico non ha trovato conferma.
Infatti nessun pozzo ad uso umano o ad uso agricolo situato
all’esterno del Petrolchimico è risultato contaminato in base alle analisi
eseguite ed acquisite agli atti del processo. Le acque della prima falda
sottostante l’impianto industriale sono risultate assolutamente non
utilizzabili a fini antropici per la loro qualità (eccessiva salinità), per la
loro insignificante quantità nonché per il divieto tassativo di emungimento al
fine di evitare il fenomeno della subsidenza.
Il contributo fornito dalle acque della prima falda
sottostante il Petrolchimico (pacificamente contaminate) all’inquinamento dei
canali industriali è risultato sostanzialmente insignificante.
Quindi anche sotto questo profilo si può escludere
l’esistenza di un qualsiasi pericolo reale per la salute pubblica.
Nel corso di questo processo si è invece accertato in modo
chiaro il grave inquinamento dei canali industriali Nord e Brentella, situati
nell’ambito della prima zona industriale, e che tale inquinamento tende a
diminuire man mano che ci si sposta verso la seconda zona industriale ove è
insediato il Petrolchimico.
Si è altresì appurato che tale inquinamento è stato
provocato dalle industrie che operavano fin dagli anni ’20 nella prima zona
industriale e che, gradatamente si è diffuso, a seguito dei dragaggi e dei
movimenti dei natanti, fino a raggiungere i canali della seconda zona
industriale.
A tutto ciò si deve aggiungere anche il fatto, egualmente
appurato nel corso del presente processo, che la seconda zona industriale è
stata interamente costruita sui rifiuti solidi provenienti dalla prima zona
industriale e che tali rifiuti, a contatto con le acque dei canali, hanno
continuato a generare inquinamento.
Come si è già detto, il contributo apportato dal Petrolchimico
all’inquinamento delle acque e dei sedimenti dei canali è risultato
estremamente modesto in quanto dovuto all’afflusso delle acque di falda
provenienti dal sottosuolo contaminate dai rifiuti delle discariche e agli
scarichi idrici nelle occasioni in cui superavano i limiti tabellari.
In presenza di tale situazione di fatto circa l’origine
dell’inquinamento dei canali si è proceduto alla valutazione delle
concentrazioni di inquinanti nei sedimenti della seconda zona industriale e si
è appurato che tali concentrazioni non raggiungono mai il livello degli effetti
osservati e non superano neppure i limiti di accettabilità determinati dalle
varie agenzie internazionali con l’applicazione di fattori di sicurezza.
A questo punto, dopo aver escluso per i motivi sopra
indicati, la sussistenza dei reati di avvelenamento e adulterazione, resta da
chiedersi se possa comunque ravvisarsi la sussistenza del contestato reato di
disastro colposo in relazione al contributo che il Petrolchimico ha fornito nel
corso degli anni all’inquinamento dei canali industriali e dei relativi
sedimenti e, più in generale, al deterioramento ambientale dell’ecosistema
lagunare.
Agli imputati viene contestato il reato di “disastro
innominato colposo” ai sensi degli artt.434 e 449 c.p.; per la dottrina e la
giurisprudenza il disastro sussiste se vi è esposizione a pericolo della
pubblica incolumità provocata da un evento di danno per persone e cose.
Non può accettarsi una definizione di disastro che non
preveda il requisito del danno per le persone e per le cose incentrandosi
unicamente sul pericolo per la pubblica incolumità perché in tal caso si
arriverebbe alla punibilità del mero pericolo di disastro innominato al di
fuori dei casi in cui il mero pericolo di disastro è normativamente punito ex
art.450 c.p. e cioè dei casi tassativamente indicati in tale articolo (
“pericolo di disastro ferroviario, di un’inondazione, di un naufragio, o della
sommersione di una nave o di un altro edificio natante”).
Ma se per la sussistenza del disastro innominato colposo è
necessario un evento di danno per le persone e per le cose, è altresì
necessaria una concreta situazione di pericolo per la pubblica incolumità nel
senso della ricorrenza di un giudizio di probabilità relativo all’attitudine di
un certo fatto a ledere o a mettere in pericolo un numero non individuabile di
persone, anche se appartenenti a categorie determinate di soggetti.
Nel caso in esame non è possibile parlare di un evento di
danno grave e complesso nel senso naturalistico dell’espressione in quanto
l’inquinamento dei canali lagunari si è verificato progressivamente nel corso
degli anni ad opera prevalentemente di varie attività industriali estranee al
presente procedimento e con un modesto contributo del Petrolchimico.
Comunque anche volendo accettare la tesi dell’evento di
danno a formazione progressiva, manca il secondo requisito del pericolo per la
pubblica incolumità che, notoriamente nei delitti contro l’incolumità pubblica,
è il pericolo concreto.
In altre parole è sempre necessaria l’esistenza di un
pericolo reale e concreto che deve essere accertato sulla base delle conoscenze
scientifiche disponibili e formulando un giudizio di massima concretezza sulla
base di tutte le circostanze esistenti al momento del fatto.
Il presente procedimento non è riuscito ad evidenziare la
presenza di un concreto pericolo reale derivante dall’inquinamento cagionato
dal Petrolchimico perché i sedimenti provenienti dai canali circostanti lo stabilimento hanno
evidenziato concentrazioni di inquinanti che non raggiungono mai il livello
degli effetti osservati e non superano neppure i precauzionali limiti di
accettabilità.
In conclusione risulta condivisibile la decisione del
Tribunale di escludere la sussistenza dei delitti di disastro innominato
colposo, di avvelenamento, di adulterazione e degli altri reati
contravvenzionali contestati diversi da quelli che verranno di seguito
indicati; conseguentemente la sentenza impugnata deve essere confermata, fatta
eccezione per il capo relativo alle contravvenzioni concernenti il superamento
dei limiti tabellari di cui al D.P.R. 962\73 da parte degli scarichi idrici del
Petrolchimico per le quali si impone una parziale riforma con declaratoria di
improcedibilità essendo le stesse estinte per prescrizione.
Nei termini di cui sopra va dunque parzialmente riformata
l’impugnata sentenza, e gli imputati Bartalini, Calvi, Grandi, Gatti e
D’Arminio Monforte vanno conseguentemente condannati al pagamento in solido
delle spese processuali dei due gradi del giudizio.
Attesa la varietà e complessità delle numerose questioni
sottoposte all’esame della Corte, il termine per la redazione dei motivi della
decisione è fissato, ex art. 544, 3° co., cpp, in novanta giorni.
P.Q.M.La Corte d’Appello di
Venezia-seconda sez. penale-
Visti gli artt. 605, 531,
533, 535, 592, 538, 539, 541 c.p.p., 62 bis c.p.,
in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Venezia
in data 2/11/2001 appellata dal P.M., dalle Parti Civili specificate in
intestazione, e dall’imputato Cefis Eugenio, dichiara non doversi procedere nei
confronti di Cefis Eugenio e di Sebastiani Angelo in ordine ai reati loro
ascritti perché estinti per morte degli imputati medesimi; dichiara non doversi
procedere nei confronti di Bartalini Emilio, Calvi Renato, Grandi Alberto,
Gatti Pier Giorgio e D’Armino Monforte Giovanni in ordine al reato di lesioni
personali colpose consistite in malattia di Raynaud in danno di Donaggio Bruno
per essere estinto per intervenuta prescrizione; dichiara non doversi procedere
nei confronti dei predetti imputati in ordine ai reati di lesioni personali
colpose consistite in epatopatie in danno di Bartolomiello Ilario, Poppi
Antonio, Salvi Andrea, Scarpa Giuseppe, Sicchiero Giorgio, nonché in danno di
Brussolo Sergio, Granziera Enrico, Foffano Ferdinando, Leonardi Giannino, Pardo
Giancarlo e Serena Rino, perché estinti per intervenuta prescrizione; escluse,
quanto ai reati di omicidio colposo per angiosarcoma epatico, le aggravanti di
cui al 3° comma dell’art. 589 c.p., 61, nn 1, 3, 5, 7, 8 e 11 c.p., nonché la
continuazione ex art. 81 cpv c.p., dichiara non doversi procedere nei confronti
degli imputati Bartalini, Grandi e Gatti in ordine al reato di cui all’art.
589, 1° e 2° co., c.p., ai danni di Simonetto Ennio, nonché nei confronti degli
imputati medesimi e degli imputati Calvi e D’Arminio Monforte in ordine ai
reati ex art. 589, 1° e 2° co., c.p. ai danni di Agnoletto Augusto, Zecchinato
Gianfranco e Pistolato Primo, perché estinti tutti i reati stessi per
intervenuta prescrizione; dichiara non doversi procedere nei confronti degli
imputati Bartalini, Calvi, Grandi, Gatti e D’Arminio Monforte in ordine ai
reati ex art. 589, 1° e 2° co., c.p., ai danni di Battaggia Giorgio, Fiorin
Fiorenzo e Suffogrosso Guido, concesse prevalenti attenuanti generiche, perché
estinti per prescrizione; dichiara gli imputati Bartalini, Calvi, Grandi, Gatti
e D’Arminio Monforte, esclusa la cooperazione colposa ex art. 113 c.p. ed
applicato l’art. 41 c.p., colpevoli del reato ex art. 589, 1° e 2° co., c.p.,
ai danni di Faggian Tullio, e, concesse prevalenti attenuanti generiche, li
condanna alla pena di anni uno e mesi sei di reclusione ciascuno; concede agli
imputati stessi i benefici della sospensione condizionale della pena e della
non menzione della condanna; condanna i medesimi predetti imputati, nonché il
responsabile civile Edison S.p.A. in persona del legale rappresentante pro
tempore, al risarcimento, in solido, dei danni subiti dalle costituite parti
civili prossimi congiunti di Faggian Tullio, da liquidarsi in separata sede,
assegnando intanto ai figli Faggian Stefano e Faggian Alessandro la somma di
euro 50.000,00 (cinquantamila) ciascuno, ed ai fratelli e sorelle costituiti la
somma di euro 8.000,00 (ottomila) ciascuno, a titolo di provvisionale
immediatamente esecutiva ex lege;
condanna altresì in solido i predetti imputati ed il
responsabile civile Edison S.p.A. alla rifusione delle spese di costituzione ed
assistenza nel presente giudizio delle parti civili medesime, che liquida in
complessivi euro 19.718,30 comprensivi di onorari, diritti, spese, accessori e
IVA, come da relativa parcella; assolve gli imputati Bartalini, Calvi, Grandi,
Gatti e D’Arminio Monforte dal reato di omissione dolosa di cautele da cui sono
derivati infortuni ex art. 437, 1° e 2° co., c.p. per condotte tenute fino a
tutto il 1973, perché il fatto non costituisce reato; dichiara non doversi
procedere nei confronti degli imputati Bartalini, Calvi, Grandi, Gatti,
D’Arminio Monforte, Lupo, Trapasso, Diaz, Morrione, Reichenbach, Gaiba, Fabbri,
Presotto, Belloni e Gritti Bottacco, in ordine al reato di cui all’art. 437, 1°
co., c.p., in relazione all’omessa collocazione di impianti di aspirazione, dal
1974 al 1980, perché estinto per prescrizione;dichiara non doversi procedere nei
confronti degli imputati Porta, Morrione, Reichenbach, Marzollo, Fabbri, Smai,
Pisani, Zerbo, Trapasso, Grandi, Presotto, Palmieri, Burrai, Necci, Parillo e
Patron in ordine alle contravvenzioni di cui al DPR 962/73 contestate nel
secondo capo d’imputazione, perché estinte per intervenuta prescrizione;
condanna gli imputati Bartalini, Calvi, Grandi, Gatti e D’Arminio Monforte al
pagamento in solido delle spese processuali dei due gradi del giudizio;conferma
nel resto l’impugnata sentenza;visto l’art. 544 c.p.p.,fissa in giorni 90 il
termine per il deposito della sentenza.
Venezia, 15 dicembre 2004.